19 luglio 2012

A Mezzogiorno viene fame, romanzo di Italo Interesse


L'Autore lo puntualizza subito in testa alla sua nota introduttiva: "A Mezzogiorno viene fame" non è ispirato da revanscismo borbonico. E poco più avanti afferma che l'opera, che narra della rivolta dei briganti ovvero dei cafoni armati, s'inserisce nel risvegliato interesse per il tema dell'Unità d'Italia. Ma la nota si chiude con l'inquietante domanda: «E se i cafoni dell'era globale diventassero briganti?...».
Noi leggendo il romanzo lo abbiamo spogliato dalle paure dell'autore di sembrare filoborbonico e antiunitario. Abbiamo percepito il profondo desiderio delle popolazioni meridionali di ribellarsi ad una invasione subita e ad una annessione non voluta. Abbiamo letto nelle riga del romanzo lo svilupparsi di un'altra storia, ignorata dai cantori dell'unità d'Italia che sarebbe nata nel 1860. La storia di un popolo che se non stava bene sotto i Borbone, stette peggio sotto i Savoia. «Libertà e giustizia 'sta pizza. Il pane più caro, la fatica peggio pagata. Meglio Re Francesco», dice Michele (Miché).
La trama narrativa si sviluppa in sei parti, tre dal lato degli uomini e tre dal lato delle donne. Gli uomini hanno in comune l'essere di Carovigno, paese del brindisino, e l'aver partecipato da briganti all'invasione del loro paese avvenuta il 21 novembre 1862. Per qualche ora Carovigno fu restituita al governo borbonico in esilio.
Ognuna delle tre donne, che danno voce ai personaggi femminili, è legata ad uno dei tre protagonisti maschili.
I sei narrano gli stessi fatti, ma da angolature e con interpretazioni differenti e personali.
Caratteristica stilistica del romanzo è l'uso dell'italiano sporcato dall'idioma locale. Il terzo racconto, quello di Domenico (Mincù) intitolato "La Terra e la Merica", con l'assenza di punteggiatura, in qualche modo vorrebbe riecheggiare la scrittura dell'Ulisse di Joyce.
Il titolo proviene dal brano del romanzo che recita: «il lavoro è poco e mezzogiorno fa presto ad arrivare e a mezzogiorno viene fame». Ma al titolo del libro può essere dato un significato più generale, nel senso che il Mezzogiorno è affamato di verità storica, di riscatto, di rivalutazione.
Nei primi anni della cosiddetta unità d'Italia «potenti, guardie e galantuomini erano rimasti al comando e i popolani in cattura, con la differenza che il pane costava di più, la giornata ai cafoni rendeva meno della miseria di ieri e i signori avevano alzato la cresta. ...Ma certi che non volevano restare sotto dissero no, lasciarono la zappa e pigliarono il fucile». E vissero due anni a testa alta, divenendo briganti.
Italo Interesse non dà un significato positivo al termine brigante. Loro non erano briganti, ma patrioti; non erano briganti, ma soldati. Noi riteniamo invece che il termine brigante equivale a patriota, insorgente, partigiano. I briganti volevano liberare dall'ingiustizia. Non rubavano, ma toglievano ai ricchi che stavano coi piemontesi per fare la rivoluzione. Difendevano la loro terra e la loro famiglia.
Nel romanzo il brigante buono e il più grande di tutti è «Pasquale Domenico Romano da Gioia del Colle, detto il Sergente, un capo banda così potente che pure Crocco, il re dei briganti di Basilicata, gli portava rispetto». Con lui niente bravate, dispetti e guapperia, ma guerra, guerra vera, guerra santa. «Il Romano era un eroe che dove passava si trascinava dietro come Cristo giovani da guidare contro l'usurpatore piemontese».
Altri capi briganti, che comunque riconoscevano il comando supremo del Sergente Romano, si muovono nel romanzo: Giuseppe Nicola La Veneziana (Figlio del Re), Giuseppe Valente (Nenna Nenna), Cosimo Mazzeo (Pizzichicchio), Antonio Locaso (Caprariello), Francesco Monaco.
Ma la guerra fu persa dai briganti. E di quella sconfitta ne subiamo ancora le conseguenze.
Rocco Biondi

Italo Interesse, A mezzogiorno viene fame, Secop Edizioni, Corato 2011, pp. 318, € 15,00

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