L'Autore lo puntualizza
subito in testa alla sua nota introduttiva: "A Mezzogiorno viene
fame" non è ispirato da revanscismo borbonico. E poco più
avanti afferma che l'opera, che narra della rivolta dei briganti
ovvero dei cafoni armati, s'inserisce nel risvegliato interesse per
il tema dell'Unità d'Italia. Ma la nota si chiude con l'inquietante
domanda: «E
se i cafoni dell'era globale diventassero briganti?...».
Noi leggendo il romanzo lo
abbiamo spogliato dalle paure dell'autore di sembrare filoborbonico e
antiunitario. Abbiamo percepito il profondo desiderio delle
popolazioni meridionali di ribellarsi ad una invasione subita e ad
una annessione non voluta. Abbiamo letto nelle riga del romanzo lo
svilupparsi di un'altra storia, ignorata dai cantori dell'unità
d'Italia che sarebbe nata nel 1860. La storia di un popolo che se non
stava bene sotto i Borbone, stette peggio sotto i Savoia. «Libertà
e giustizia 'sta pizza. Il pane più caro, la fatica peggio pagata.
Meglio Re Francesco»,
dice Michele (Miché).
La trama narrativa si
sviluppa in sei parti, tre dal lato degli uomini e tre dal lato delle
donne. Gli uomini hanno in comune l'essere di Carovigno, paese del
brindisino, e l'aver partecipato da briganti all'invasione del loro
paese avvenuta il 21 novembre 1862. Per qualche ora Carovigno fu
restituita al governo borbonico in esilio.
Ognuna delle tre donne,
che danno voce ai personaggi femminili, è legata ad uno dei tre
protagonisti maschili.
I sei narrano gli stessi
fatti, ma da angolature e con interpretazioni differenti e personali.
Caratteristica stilistica
del romanzo è l'uso dell'italiano sporcato dall'idioma locale. Il
terzo racconto, quello di Domenico (Mincù) intitolato "La Terra
e la Merica", con l'assenza di punteggiatura, in qualche modo
vorrebbe riecheggiare la scrittura dell'Ulisse di Joyce.
Il titolo proviene dal
brano del romanzo che recita: «il
lavoro è poco e mezzogiorno fa presto ad arrivare e a mezzogiorno
viene fame».
Ma al titolo del libro può essere dato un significato più generale,
nel senso che il Mezzogiorno è affamato di verità storica, di
riscatto, di rivalutazione.
Nei primi anni della
cosiddetta unità d'Italia «potenti,
guardie e galantuomini erano rimasti al comando e i popolani in
cattura, con la differenza che il pane costava di più, la giornata
ai cafoni rendeva meno della miseria di ieri e i signori avevano
alzato la cresta. ...Ma certi che non volevano restare sotto dissero
no, lasciarono la zappa e pigliarono il fucile».
E vissero due anni a testa alta, divenendo briganti.
Italo Interesse non dà un
significato positivo al termine brigante. Loro non erano briganti, ma
patrioti; non erano briganti, ma soldati. Noi riteniamo invece che il
termine brigante equivale a patriota, insorgente, partigiano. I
briganti volevano liberare dall'ingiustizia. Non rubavano, ma
toglievano ai ricchi che stavano coi piemontesi per fare la
rivoluzione. Difendevano la loro terra e la loro famiglia.
Nel romanzo il brigante
buono e il più grande di tutti è «Pasquale
Domenico Romano da Gioia del Colle, detto il Sergente, un capo banda
così potente che pure Crocco, il re dei briganti di Basilicata, gli
portava rispetto».
Con lui niente bravate, dispetti e guapperia, ma guerra, guerra vera,
guerra santa. «Il
Romano era un eroe che dove passava si trascinava dietro come Cristo
giovani da guidare contro l'usurpatore piemontese».
Altri capi briganti, che
comunque riconoscevano il comando supremo del Sergente Romano, si
muovono nel romanzo: Giuseppe Nicola La Veneziana (Figlio del Re),
Giuseppe Valente (Nenna Nenna), Cosimo Mazzeo (Pizzichicchio),
Antonio Locaso
(Caprariello), Francesco Monaco.
Ma la guerra fu persa dai
briganti. E di quella sconfitta ne subiamo ancora le conseguenze.
Rocco Biondi
Italo Interesse, A
mezzogiorno viene fame, Secop
Edizioni, Corato 2011, pp. 318, € 15,00
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