Il libro napoletano dei morti, di
Francesco Palmieri
Questo
non è un libro di morti in santa pace ma di morti uccisi o che hanno ucciso.
Questo fa scrivere Palmieri al poeta napoletano Ferdinando Russo, suo alter
ego.
Russo, nato a Napoli nel 1866 e morto nella
stessa città nel 1927, vien fatto narrare da Francesco Palmieri “con sottile
abilità” l’intera vicenda: dal brigantaggio alla camorra.
Il contenuto del libro lo si può desumere
dagli autori che Palmieri ringrazia: Giovanni Amedeo autore di un’opera su
Ferdinando Russo, Erminio De Biase autore della traduzione integrale dal
tedesco del diario del legittimista Zimmermann, Valentino Romano per la
traduzione del diario di Borges.
Rinaldo il buon Paladino e Gano il cattivo
“non appartengono a Inferni o Paradisi ma allo strabiliante Purgatorio umano
che ci avvampa tra merda e sentimenti”. Rinaldo il guappo è certamente migliore
di Gano che è iscritto all’ordine dei galantuomini. La maggioranza degli uomini
non sono né l’uno né l’altro ma si comportano a turno come l’uno o l’altro.
Bene e male si confondono.
Inizialmente guappo e camorrista non si
confondevano; il guappo ti diceva in faccia cosa pensava, il camorrista invece
amava il segreto e prediligeva l’agguato proditorio. Successivamente i due son
divenuti una cosa sola.
Don Liborio Romano, già ministro della
Polizia borbonica, quando passò col nuovo regime piemontese affidò la Guardia
Cittadina a camorristi con a capi e a capesse: il pluriassassino Tore ˊe Criscienzo,
Michele ˊo Chiazziere, lo Schiavetto, il Persianaro, Marianna la Sangiovannara,
Antonia Pace, Carmela Faucitano, Costanza Leipnecher, Pascarella Proto, e
altri.
La legge Pica inventò il termine
manutengoli, che erano persone semplicemente “sospettate” di favorire o di
simpatizzare con il brigantaggio, sulla base di false voci per una rivalità
privata o per vendicare un torto subìto sotto il passato regime borbonico.
Il libro parla diffusamente dei
legittimisti stranieri che erano venuti a combattere per il re borbone
Francesco II. Il primo di questi capitani uccisi fu il conte Edwin Kalckreuth;
fu nominato aiutante del capobrigante Luigi Alonzi, detto Chiavone; fu ucciso
dai piemontesi sotto falso nome. Altro Paladino straniero fu Ludwig Richard
Zimmermann, che attraversò il Garigliano per “la smania guerresca”; riuscì a
realizzare l’impresa non riuscita a migliaia di soldati piemontesi: la
soppressione di Chiavone, che avvenne dopo un consiglio di guerra composto da
lui e Tristany; morì da giornalista. L’avventura di Alfredo de Trezégnies durò
tre giorni: uno per arrivare, l’altro per cominciare, il terzo per morire. Il
conte Émile Theodule de Christen combatté sia per i Borbone che per Pio IX;
arrestato a Napoli trascorre più di due anni nelle carceri italiane; morì di
malattia a trentacinque anni.
Il generale don Josè Borges, per difendere
Francesco II, salpò da Malta 11 settembre 1861, approdò in Calabria nella notte
del 13. Da qui in avanti è un’amara marcia tra insidie, tradimenti e nemici in
agguato. Nel bosco di Lagopesole, in Lucania, Borges incontra Carmine Crocco,
con il quale assalta vari paesi, pur rimanendo in contrasto. Borges viene
fucilato alle spalle dal plotone d’esecuzione piemontese, assieme a 17 suoi
compagni, nel pomeriggio dell’Immacolata Concezione del 1861, davanti alla
fontana di Tagliacozzo.
Palmieri racconta poi del camorrista Ciccio
Cappuccio e del patto tra Stato e malavita.
Il libro si chiude con la morte di
Ferdinando Russo, avvenuta il 30 gennaio 1927, e della grande partecipazione di
popolo al suo funerale.
Francesco Palmieri, Il libro
napoletano dei morti, Mondadori, Milano 2012, pp. 186