Il libro, pubblicato nel
1988 dal Comitato di Taranto dell'Istituto per la Storia del
Risorgimento Italiano, è per la massima parte
una raccolta di articoli dell'autore Gaetano Pichierri, pubblicati su
un quotidiano di Taranto, dando luogo a un lavoro d'unione non privo
di ripetizioni, e talvolta (dico io) di contraddizioni.
L'autore, dopo aver reso
il dovuto omaggio (tenuto anche conto dell'ospitalità dell'Istituto
del Risorgimento) ai pochi che credettero e operarono per gli ideali
unitari, rivolge l'attenzione a «gl'immensi
sforzi compiuti dalle masse contadine spinte da assillanti problemi
costituenti il quotidiano dimenarsi nella fame e nella miseria».
Nel libro viene offerta una ricca documentazione «onde
respingere tentativi e convinzioni di doverci vergognare del nostro
passato meridionale».
La lettura della storia
dei primi anni postunitari ha bisogno di una revisione, sostiene il
Pichierri. Bisogna porre fine alle narrazioni trionfalistiche e
retoriche cui ci aveva costretti la falsa "carità di patria"
che ha voluto tenere nell'oblio la vera storia della stragrande
maggioranza degli abitanti dell'ex Regno delle Due Sicilie. Riesumare
quelle pagine di storia, per di più scritte dagli stessi vincitori,
serve a «reintegrare
nel loro giusto ruolo i contadini-borbonici che strenuamente
combatterono e morirono»
per un loro possibile riscatto. Anche se purtroppo a vincere furono
gli invasori utilizzando le leggi eccezionali, lo stato d'assedio, la
legge Pica. A loro vincitori andò la gloria, a noi vinti il
disprezzo. E fummo chiamati briganti, termine che però negli anni
viene assumendo una connotazione positiva.
Il libro si divide in due
parti: la prima parla principalmente della sommossa antiunitaria
avvenuta l'8 dicembre 1860 a Sava, un paese del Tarantino che allora
contava meno di 5000 abitanti (oggi ne ha circa 16.000), la seconda
parte illustra la vita del guerrigliero borbonico Cosimo Mazzeo,
detto Pizzichicchio, nato a San Marzano di S. Giuseppe (TA).
Nel 1860 i contadini di
Sava (come quelli di tutti gli altri paesi del Sud) non erano in
grado di recepire il messaggio dell'ideale dell'unificazione
nazionale. Venne accolto invece l'invito alla rivolta contro i
proprietari terrieri. L'8 dicembre 1860 un rullo di tamburo fece
radunare in piazza 500 uomini al grido di "Viva Francesco II".
Un simile numero, scrive Pichierri, voleva dire la quasi totalità
del paese, tolti i bambini, che allora non erano pochi, le donne, i
vecchi, i malati, gl'inetti, gl'inabili.
A dare man forte alla
rivolta contribuirono gli sbandati del disciolto esercito borbonico
e l'attivismo del partito borbonico che, per lo stesso giorno, aveva
preparato la sommossa anche in altri paesi del Salento. Della
rivolta, scrive ancora il Pichierri, non si hanno notizie di eccessi.
La rivolta di Sava fu
repressa e finì con l'arresto di ventotto Savesi. Con il fallimento
di questa rivolta, fallirono anche gli intendimenti politici del
tentativo di ripristino dei Borbone, come del resto in tutto il Sud.
E il Pichierri tira una sua conclusione, che io non posso accettare e
che contraddice l'impostazione generale del suo libro: «Il
fallimento fu un gran bene. Man mano che passerà il tempo, il popolo
capirà e fruirà l'inestimabile valore dell'Unificazione di tutti
gl'Italiani».
Sta avvenendo forse il contrario, il popolo del Sud comincia a capire
il grande imbroglio che fu la cosiddetta unità d'Italia.
In quegli anni nel Sud due
mondi si contrastavano e si combattevano tra loro, quello dei
piemontesi invasori che imposero con le armi l'unificazione e quello
delle popolazioni meridionali che difendevano la loro terra e se
stessi. Due interessanti documenti, scrive il Pichierri, riassumono
questo aspro confronto: la relazione letta in seduta segreta nel
Parlamento di Torino dal deputato Massari il 3 maggio 1863 ed un
articolo pubblicato sulla rivista dei Gesuiti la "Civiltà
Cattolica" il 7 novembre 1863.
I piemontesi impegnarono
nel Sud 100.000 unità dell'esercito per annientare l'imprevista
resistenza dei "briganti". Termine quest'ultimo rivalutato,
nel corso dell'articolo, dalla rivista dei gesuiti scrivendolo sempre
con l'iniziale maiuscola.
Scrive ancora il
Pichierri: «I
contadini, quindi, per il niente che si offriva loro presero la
tremenda decisione del tanto vivi, tanto morti, organizzandosi sulle
alture e nelle boscaglie».
Uno dei capi di questa
resistenza armata fu Cosimo Mazzeo, detto Pizzichicchio. Questa
seconda parte del libro si apre con un'osservazione sulla foto che
comunemente si ritiene essere quella di Pizzichicchio. E' quella che
rappresenta un brigante col fez in testa, viso tondo, senza barba. Il
Pichierri, dopo aver detto che quella foto su diversi libri viene
pubblicata come quella di Pizzichicchio, afferma di ritenere che sia
certamente quella di Cosimo Mazzeo. adducendo come testimonianza di
tale attribuzione la presenza, sotto questo nome, nella pubblicazione
del catalogo della mostra Briganataggio,
lealismo e repressione nel Mezzogiorno 1860-1870,
allestita a Napoli nel 1984. Ritengo invece sia proprio questa la
ragione che documenta l'infondatezza di tale attribuzione. Infatti
quella foto viene raccolta insieme a quelle dei briganti della banda
di Nicola Masini, scattate tra la fine del 1865 e gli inizi del 1866.
Pizzichicchio era stato fucilato nel novembre 1864. Molto
probabilmente l'equivoco è dovuto al fatto che nella banda Masini vi
era un brigante chiamato Mazzeo C(armine).
Cosimo Mazzeo, nato nel
1837, aveva fatto parte dell'esercito borbonico, dal quale venne
congedato nel dicembre 1860. Non era analfabeta. Fu in stretto
contatto con la banda del Sergente Romano. Dopo varie azioni
vittoriose, la banda Pizzichicchio subì una disfatta il 17 giugno
1863, presso la masseria Belmonte. Il capobanda, che ancora
una volta era riuscito a sfuggire alla morte, venne arrestato
definitivamente il 4 gennaio 1864. Il Tribunale Militare di Potenza
lo condannò a morte mediante fucilazione il 28 novembre 1864.
Il Pichierri scrive:
«Cosimo
Mazzeo aveva creduto al suo Re Francesco II e lo aveva servito nella
guerriglia con impegno e dedizione combattendo, per lui, solo i suoi
nemici; lo fece con discernimento, per la giustizia della povera
gente e con dignità per aver fatto parte del suo esercito, senza mai
macchiarsi di sangue di innocenti estranei alla resistenza, perché
non era un delinquente, ma un onesto contadino che non aveva mai
avuto a che fare con la Giustizia».
Il suo nome non dovrà più essere pronunciato a mezza voce.
Gaetano Pichierri,
Resistenza antiunitaria nel Tarantino,
Istituto per la Storia del Risorgimento Italiano - Comitato di
Taranto, Lacaita Editore, Manduria 1988, pp. 180