Scarpino,
nel suo libro, afferma che il brigantaggio postunitario durò sostanzialmente un
decennio, dall’autunno 1860 al 1870, e lo divide in due fasi: la prima, che va
dall’autunno 1860 alla primavera 1861; la seconda, che va dalla cessazione
della resistenza borbonica (con la resa di Gaeta, Messina e Civitella del
Tronto) alla fine del 1870. Nella prima fase, le masse popolari combattevano in
appoggio a forze regolari. Nella seconda, i briganti diventano autonomi e
possono essere considerati «partigiani». Sotto il profilo pratico queste
distinzioni non ebbero alcuna influenza; i briganti vennero fucilati sia nella
prima che nella seconda fase.
Discreta importanza ebbero i fuorusciti dal
Regno borbonico, che si rifugiarono principalmente a Torino con i piemontesi;
quasi tutti erano letterati, molto digiuni di economia politica. Essi erano le
avanguardie, che indussero in errore i piemontesi. L’errore più grande che
commisero, scrive Scarpino, fu quello di diffondere la storiella del
Mezzogiorno ricco; per loro bastava rimuovere il Borbone, con la sua cricca
reazionaria, e tutto sarebbe andato a posto. Ma anche se ciò fosse vero, non
andò però così. Codesti emigrati, scrive ancora Scarpino, avrebbero dovuto fare
un poco di autocritica: avrebbero dovuto spiegare perché non avessero mai
considerato i cafoni come persone; avrebbero dovuto parlare della propria
spocchia e della propria avidità; avrebbero dovuto elencare le cecità e le
nequizie che gli impedivano di vivere in armonia con la gente. I piemontesi
perciò erano ben poco informati sul Sud. La disinformazione e la faciloneria «fecero
sì che l’incontro fra Nord e Sud si risolvesse nell’amarezza delle delusioni
incrociate». La “guerra cafona”, con l’esplosione del brigantaggio, fu il primo
frutto di queste delusioni.
«Passata la buriana del brigantaggio, -
scrive Scarpino - i cafoni furono spinti dalla fame, ma anche da quel senso di
interiore “estraneità”, sulle strade dell’emigrazione e si portarono dentro
sospetti e rancori nei confronti dello Stato lontano e ostile». E il libro si
chiude con l’affermazione, che conserva ancora la sua validità: «Da quel
decennio tragico della Mala Unità sono giunti fino ai giorni nostri equivoci e
veleni di cui stentiamo a liberarci».
Il termine cafone nell’Italia meridionale
indica i contadini senza intenzione spregiativa.
Scarpino divide il suo libro in cinque
capitoli. L’ultimo, intitolato “Veleni, una rivoluzione illiberale”, lo abbiamo
sostanzialmente sintetizzato in quello che abbiamo scritto finora. Nei
precedenti, facendo una scelta fra i briganti che ritiene più importanti,
scrive di Carmine Crocco, José Borges, Luigi Alonzi detto Chiavone, fratelli
Cipriano e Giona La Gala, Marianna Oliverio detta Ciccilla, Pietro Monaco.
Il capitolo che parla di Crocco e di Borges
è intitolato “L’armata stracciona”. Di questa armata infatti facevano parte
principalmente i contadini senza terra. Ma vi erano anche il clero, i vecchi
impiegati borbonici rimasti senza posto, i soldati dell’armata sconfitta.
Crocco era nato a Rionero in Vulture della Basilicata il 5 giugno 1830. Ebbe un
poco d’istruzione dallo zio Martino. Nel 1849 Carmine andò soldato sotto i
Borbone. Ma la vita da militare non durò molto. Regolò alcuni conti aperti
all’onore della sua famiglia e si diede alla campagna. La vita da brigante gli
offriva fascino e rispetto dei baroni e dei proprietari. Ma venne catturato e
il 1855 venne rinchiuso nel carcere di Brindisi, dal quale riuscì a fuggire nel
1859. Nel 1860 si arruolò nell’esercito garibaldino, sperando nell’annullamento
delle sue condanne. Ma così non fu, e allora Crocco riprese la vita dei boschi
divenendo filoborbonico. La banda da lui capitanata, nei periodi di maggiore
auge, riuscì a mettere insieme fino a duemila uomini. Assaltò vari paesi,
principalmente della Basilicata, riportandoli nominalmente, ogni volta per
pochi giorni, sotto il governo borbonico.
L’avventura del generale catalano José
Borges, che ebbe l’ultima illusione di riportare il re borbone Francesco II sul
trono del Regno delle Due Sicilie, è strettamente legata a Crocco. I due
stabilirono di assaltare e prendere Potenza, capoluogo della Basilicata; ciò
avrebbe costituito un grande successo politico e militare. Ma l’operazione, per
contrasto fra i due, fallì. Borges, successivamente tentò di raggiungere il
territorio pontificio, ma prima di raggiungerlo fu arrestato e fucilato con i
suoi a Tagliacozzo in Abruzzo.
Crocco nel 1864, divenuto ormai scomodo, fu
arrestato dai pontifici. Dopo Porta Pia, passato lo Stato pontificio ai
piemontesi, fu processato e condannato a Potenza nel 1872. Dopo oltre
quarant’anni di carcere, morì il 18 giugno 1905.
Il capitolo in cui si parla di Luigi Alonzi
alias Chiavone è intitolato “il generale con le cioce”. Chiavone fu il brigante
più fotografato del Sud. Un giornalista e un fotografo dell’autorevole
settimanale “L’Illustration-Journal universel” si recarono a intervistarlo; il
loro servizio uscì ai primi di gennaio 1862; il brigante si lasciò fotografare
prima con le cioce ai piedi e poi con l’alta uniforme. Era nato a Sora, in
Terra di Lavoro, nel 1825. Ebbe un ampio seguito ed il consenso popolare non
gli mancò. Conseguì diverse vittorie contro i piemontesi. Chiavone il 28 giugno
1862 fu arrestato, processato e fucilato da Rafael Tristany, per i contrasti
che c’erano fra i legittimisti stranieri e i briganti del Sud.
Altro capitolo è intitolato “intrigo
internazionale” e parla dell’avventura dei fratelli Cipriano e Giona La Gala.
Questi capibriganti avevano la loro base sui monti del Taburno, ma operavano
nella vasta zona comprendente il Casertano, il Nolano, l’Irpinia e il
Beneventano. Arrivarono ad attruppare anche più di cinquecento uomini.
Riportarono varie vittorie contro i piemontesi; da questi erano braccati;
finché puntarono sul territorio pontificio. Si decise di mandarli all’estero e
si inscenò la mascherata sull’Aunis. Quest’ultima era una nave a vapore dell’Imperiali
Messaggerie Francesi; su di essa dai piemontesi vennero arrestati i La Gala;
vennero consegnati, su richiesta, ai francesi, con l’obbligo dell’estradizione.
Nel 1864 vennero dai piemontesi processati; con decreto reale la condanna a
morte fu commutata nel carcere a vita.
Il re e viceré del penultimo capitolo sono
rispettivamente il brigante (Re della campagna) e chi comanda il regno. Si
parla della brigantessa Marianna Oliverio, detta Ciccilla, che fu la più
celebre “fuorilegge” di tutto il Sud. Fu moglie di Pietro Monaco, altro
brigante della Sila; fu ucciso da briganti della sua banda, per intascarne la
taglia. Il pentitismo dava i suoi frutti. Ciccilla riuscì a fuggire e continuò
a battere la campagna, finché non fu presa.
Rocco Biondi
Salvatore Scarpino, La guerra cafona. Il brigantaggio
meridionale contro lo Stato unitario, Boroli Editore, Milano 2005, pp. 174