I
briganti e i meridionali, scrive Guerri, non si sentivano «italiani».
Lottavano per scacciare degli «stranieri» che sbandieravano una
fratellanza forzata e che erano considerati usurpatori, colonizzatori
arrivati per conquistarli e per cancellare la loro storia, i costumi,
i legami e le appartenenze.
Il
testo di Guerri, nella denuncia contro l'operato dei cosiddetti
«padri della patria», va oltre l'intenzione dell'autore. Il
sottotitolo del libro è "Antistoria del Risorgimento e del
brigantaggio", sottintendendo quindi che vi è una Storia
ufficiale della quale si fanno degli aggiustamenti. Io invece credo
che vi sia un'altra storia, diversa e indipendente da quella scritta
dai vincitori, la storia della stragrande maggioranza del popolo
meridionale che dal 1860 in poi si oppose agli invasori piemontesi.
Il libro di Guerri si presta ad essere letto in quest'ottica.
La
"guerra in-civile" di quegli anni non aveva nulla di cui i
vincitori potessero vantarsi: si preferì quindi nascondere o
addirittura distruggere i documenti, perché non fossero accessibili
neppure agli storici. I briganti scontano, scrive Guerri, oltre alla
sconfitta, anche il destino della "damnatio memoriae". A
loro, non spetta l'onore delle armi.
Gli
italiani erano indifferenti all'Italia, chiedevano soltanto
un'esistenza più umana. Le aspirazioni dei poveri e quelle degli
idealisti non avevano niente in comune. La gente chiedeva pane,
mentre gli intellettuali volevano la Costituzione. Il popolo italiano
non esisteva. C'erano solo individui - appartenenti a Stati diversi,
con storie e lingue diverse - che avrebbero potuto anche essere uniti
a patto che si partisse dai loro bisogni: cosa che non fu fatta.
Nei
piani dello stesso Cavour non vi era l'Unità d'Italia; lui pensava
ad una confederazione di tre regni sotto la presidenza onoraria del
papa: uno settentrionale sotto i Savoia, uno meridionale sotto i
Borbone, l'altro centrale «sotto il re che più conviene». Non era
mai sceso più a sud di Firenze; non gli interessava affatto
conoscere il Meridione, tanto era pieno di pregiudizi. Furono gli
avvenimenti e interessi economici superiori a portare ad unificare il
tutto sotto i Savoia piemontesi.
L'annessione
del Regno delle Due Sicilie fu un bel boccone per i Savoia. Al di là
delle falsità propagandistiche le Due Sicilie rappresentavano la
parte più ricca della Penisola. Possedevano oltre i due terzi
dell'oro di tutti gli altri Stati messi insieme. Per fare un esempio,
mentre il Regno delle Due Sicilie possedeva 445,2 milioni di lire il
Regno del Piemonte ne possedeva soltanto 27 milioni (6,06% rispetto
alle Due Sicilie). Con i soldi del Sud furono appianati i debiti del
Nord. Almeno nei trent'anni successivi all'Unità, l'Italia del Sud
fu come una colonia del Piemonte.
Nel
Regno delle Due Sicilie arrivarono in anticipo rispetto agli altri
Stati italiani gas, telegrafo e ferrovia. Bastarono solo 270 giorni
per ricostruire il Teatro San Carlo, dopo un incendio. Furono
inaugurati il Museo Archeologico, l'Osservatorio Sismologico
Vesuviano, la Biblioteca Nazionale di Napoli. All'inizio
dell'Ottocento nacquero l'Accademia delle Belle Arti, l'accademia
Reale Militare, l'Istituto statale per i sordomuti, il convitto di
chirurgia e medicina, il convitto di musica. Nei numerosi ospedali e
ospizi prestavano servizio ben 9000 medici. Le industrie
siderurgiche, meccaniche, cotoniere, della carta si erano sviluppate
con ritmi altrove impensabili, impiegando fino a 1.600.000 addetti
contro il milione del resto d'Italia. La flotta mercantile e quella
militare erano ai primi posti a livello mondiale. Disoccupazione e
emigrazione erano pressoché assenti.
Ma
la base dell'economia meridionale, scrive Guerri, restava
l'agricoltura. A reggere lo Stato erano i contadini; a goderne,
altri. La redistribuzione della proprietà terriera non fu mai presa
seriamente in considerazione dai Borbone. Nemmeno con l'arrivo dei
«forestieri piemontesi» venne affrontata la questione agraria, che
era l'unica via per favorire un processo moderno di economia. E
questa mancanza sarà una delle principali cause del brigantaggio.
Impossibile fornire un identikit del
contadino che diventa brigante e del brigante che si trasforma in
generale. Ognuno ha una sua storia. Ma ciò che li accomuna e li
incita alla battaglia sono valori come terra, giustizia, onore,
tradizione, orgoglio, cacciata dello straniero. La componente
dell'insorgenza e della ribellione sociale rappresenta la spinta
maggiore. Ma i briganti erano anche «partigiani», lottavano per
avere la possibilità di scegliere da chi essere comandati e come. E
fra i Borbone e i Savoia sceglievano i Borbone.
I
piemontesi per contrastare i briganti e i meridionali scelsero la via
peggiore: la forza cieca che sfociò anche in episodi da sterminio di
massa. Nel momento più aspro della guerra, tra il 1862 e il 1863,
l'esercito di stanza al Sud nella lotta al brigantaggio contò fino a
120.000 uomini, quasi la metà dell'intero esercito unitario. Fu
un'immane carneficina.
La
Chiesa e i Borbone favorirono la lotta dei briganti. Ma l'appoggio
maggiore venne dato dalla stragrande maggioranza della popolazione.
Guerri
narra le imprese di alcuni fra i capi briganti più significativi:
Pasquale Domenico Romano (Sergente Romano), Luigi Alonzi (Chiavone),
Carmine Crocco (il Re dei Briganti), José Borges (legittimista
spagnolo). Parla anche di diverse brigantesse.
Il
colpo di grazia al brigantaggio venne dato dalla Legge Pica, che
instaurò nel Sud la dittatura militare. Fu operativa dal 15 agosto
1863 al 31 dicembre 1865.
La
miseria nel Sud aumentò. Per i vinti rimaneva la desolazione. L'unica
alternativa divenne l'emigrazione.
L'Italia
che nacque allora, conclude Guerri, dopo un secolo e mezzo, continua
a portarsi dietro i malanni della sua infanzia.
Rocco Biondi
Giordano
Bruno Guerri, Il sangue del Sud. Antistoria del Risorgimento e del
brigantaggio, Mondadori, Milano 2010, pp. 298, €. 20,00