Non scriverò dell'importanza e del significato della missione dei militari italiani in Libano. Annoto solamente che è un fatto significativo l'unanimità di consenso da parte di tutti i partiti che appoggiano l'attuale governo.
Dirò qualcosa invece dell'aspetto economico della missione.
I militari che partecipano alla missione percepiscono una buona, ottima direi, indennità. Andare in Libano costituisce un ottimo lavoro. Come per le altre missioni, del resto; ma questa in Libano è più vantaggiosa ancora. Chi è partito per il Libano riuscirà a mettersi da parte un bel gruzzoletto di soldi. La stragrande maggioranza dei militari sono giovani. I soldi possono servire per mettere su famiglia o per arricchire le dotazioni della propria casa, per chi già ce l'ha.
Si spiega per questo motivo l'entusiasmo con cui i militari partono. Il marito, militare, di una mia nipote è stato già due volte in Iraq. Vi ha partecipato con grande interesse. Talvolta nasce una gara fra chi vuol partire.
L'indennità media giornaliera è di 200 euro. Non poco.
L'entità della cifra varia a seconda dei gradi: ai caporali spettano 166 euro, da maresciallo a capitano 189 euro, da maresciallo capo a tenente colonnello 200 euro, da colonnello a generale 209 euro. Il generale di Corpo d'armata avrà 217 euro al giorno.
Io, dipendente statale, prendo circa 40 euro al giorno. Non mi lamento, ma noto la differenza. Forse avrei dovuto fare il militare. Non so però quanto prendono i militari pari grado che restano in Italia.
Aggiungo un'annotazione che non c'entra niente con quello che ho detto finora. I soldati italiani in Libano potranno imparare l'arabo tramite lezioni in formato Mp3 da ascoltare con l'i-Pod e sui cd audio. Fanno parte del kit in dotazione di ogni militare.
Militari italiani che siete partiti per il Libano, non so qual'è la formula d'augurio che si usa in questa occasione (non ho fatto il militare); comunque vi auguro un in culo alla balena. E tornate tutti.
30 agosto 2006
29 agosto 2006
Vecchietti arzilli e fregati
Un euro un bacio sulla guancia, due euro una pacca sul sedere, tre euro una mano fra le gambe, cinque euro una palpatina delle tette. E' il tariffario che belle e giovani romene, polacche, croate ed albanesi praticano nella villa Garibaldi di Gela ai vecchietti desiderosi. Niente di male se non si esagerasse. Pare che qualche vecchietto per questo innocente gioco di mani si bruciasse tutta la pensione.
Qualcuno poi, con la promessa di consumare completamente, si è lasciato portare sull'altare o al municipio per un matrimonio regolare. Ed essendo comuni a quell'età ipertensioni con ictus, ischemie e complicanze cardiovascolari, come ha sentenziato un medico, il passo dal piacere di una scopatina a letto alla pace eterna del cimitero è breve. E le vedove "assassine" ereditano case, terreni e pensioni di reversibilità; ma la migliore eredità è la cittadinanza italiana. Per le prime si inalberano i parenti italiani, per le seconde s'offendono i filoleghisti buntemponi.
Per non parlare poi di chi ottiene il divorzio, per incapacità dei vecchi alla consumazione, e si assicura il mantenimento con sentenza del tribunale. In questi casi la cittadinanza italiana diventa secondaria.
C’è chi ritiene una bufala i dettagli sul tariffario. Ma c’è pure chi conferma e confessa. Si dice anche che una scrittrice del luogo, che si travestiva da extracomunitaria per fare esperienza sul campo, abbia dato alle stampe un libro dove si narrano le avventure con i poveri ed ignari vecchietti.
Il sindaco comunista del luogo, che pare sia gay, in una dichiarazione all'Ansa, l'ha buttato sul morale e sul sociale: «In questa vicenda le vere vittime appaiono le ragazze extracomunitarie, giovani e belle che per necessità finiscono nelle mani dei vecchi. Ma c'é da provare un sentimento di commiserazione anche per questi anziani che non si rassegnano. Speriamo almeno - conclude il sindaco - che queste esperienze servano a che possano ritrovare sé stessi. Come il Manzoni ne "La Pentecoste", chiedo a Dio che conceda la serenità a questi anziani».
Sono sicuro che i buoni vecchi si stanno ancora toccando e che il voto a quel sindaco non glielo daranno più.
L'ideale sarebbe se si costituisse, e non solo a Gela, un'associazione di pie donne che dessero i loro servigi agli anziani gratis. Prima o poi potrebbe fare comodo anche a noi.
Qualcuno poi, con la promessa di consumare completamente, si è lasciato portare sull'altare o al municipio per un matrimonio regolare. Ed essendo comuni a quell'età ipertensioni con ictus, ischemie e complicanze cardiovascolari, come ha sentenziato un medico, il passo dal piacere di una scopatina a letto alla pace eterna del cimitero è breve. E le vedove "assassine" ereditano case, terreni e pensioni di reversibilità; ma la migliore eredità è la cittadinanza italiana. Per le prime si inalberano i parenti italiani, per le seconde s'offendono i filoleghisti buntemponi.
Per non parlare poi di chi ottiene il divorzio, per incapacità dei vecchi alla consumazione, e si assicura il mantenimento con sentenza del tribunale. In questi casi la cittadinanza italiana diventa secondaria.
C’è chi ritiene una bufala i dettagli sul tariffario. Ma c’è pure chi conferma e confessa. Si dice anche che una scrittrice del luogo, che si travestiva da extracomunitaria per fare esperienza sul campo, abbia dato alle stampe un libro dove si narrano le avventure con i poveri ed ignari vecchietti.
Il sindaco comunista del luogo, che pare sia gay, in una dichiarazione all'Ansa, l'ha buttato sul morale e sul sociale: «In questa vicenda le vere vittime appaiono le ragazze extracomunitarie, giovani e belle che per necessità finiscono nelle mani dei vecchi. Ma c'é da provare un sentimento di commiserazione anche per questi anziani che non si rassegnano. Speriamo almeno - conclude il sindaco - che queste esperienze servano a che possano ritrovare sé stessi. Come il Manzoni ne "La Pentecoste", chiedo a Dio che conceda la serenità a questi anziani».
Sono sicuro che i buoni vecchi si stanno ancora toccando e che il voto a quel sindaco non glielo daranno più.
L'ideale sarebbe se si costituisse, e non solo a Gela, un'associazione di pie donne che dessero i loro servigi agli anziani gratis. Prima o poi potrebbe fare comodo anche a noi.
28 agosto 2006
I bongo bongo siamo noi
E' ovvio che se l'honduregna Iris Palacios Cruz non fosse morta annegata in mare per salvare la bambina italiana di 10 anni alla quale badava, nessuno si sarebbe accorta di lei, nessuno avrebbe parlato di lei. L'altruismo e l'eroismo l'hanno resa grande e importante. E poi di fronte alla morte siamo tutti uguali, non fa differenza essere clandestini o irregolari, italiani o stranieri. Di fronte alla morte la cittadinanza non conta. Siamo uomini e donne con pari diritti.
Ma non solo di fronte alla morte, anche di fronte alla vita dovremmo essere considerati tutti uguali, con gli stessi diritti ad avere cibo per sfamarci, una casa per coprirci, una scuola che ci dia cultura. Chi fugge dal proprio paese povero per avventurarsi nei nostri paesi ricchi insegue quei bisogni primari.
E noi abbiamo l'obbligo di accoglierli e metterli in regola. Altrimenti gli irregolari siamo noi. L'Italia sarà veramente cattolica solo quando e se considererà tutti gli altri uguali a noi, da qualunque parte del mondo provengano. Solo chi è bongo bongo per conto suo può affibbiare questo appellativo agli altri.
I cosiddetti clandestini o irregolari contribuiscono in maniera rilevante alla nostra ricchezza nazionale; dovremmo ringraziarli.
Le badanti straniere, quasi un milione, sono una risorsa molto utile per il nostro paese. L'Italia è il paese con il più alto tasso nel mondo di ultra sessantacinquenni. Le badanti fanno risparmiare allo Stato una quantità ingente di risorse.
Di persone come Ines ne abbiamo assoluto bisogno, non perché muoiono per noi, ma perché ci aiutano a vivere di più e meglio.
Ma non solo di fronte alla morte, anche di fronte alla vita dovremmo essere considerati tutti uguali, con gli stessi diritti ad avere cibo per sfamarci, una casa per coprirci, una scuola che ci dia cultura. Chi fugge dal proprio paese povero per avventurarsi nei nostri paesi ricchi insegue quei bisogni primari.
E noi abbiamo l'obbligo di accoglierli e metterli in regola. Altrimenti gli irregolari siamo noi. L'Italia sarà veramente cattolica solo quando e se considererà tutti gli altri uguali a noi, da qualunque parte del mondo provengano. Solo chi è bongo bongo per conto suo può affibbiare questo appellativo agli altri.
I cosiddetti clandestini o irregolari contribuiscono in maniera rilevante alla nostra ricchezza nazionale; dovremmo ringraziarli.
Le badanti straniere, quasi un milione, sono una risorsa molto utile per il nostro paese. L'Italia è il paese con il più alto tasso nel mondo di ultra sessantacinquenni. Le badanti fanno risparmiare allo Stato una quantità ingente di risorse.
Di persone come Ines ne abbiamo assoluto bisogno, non perché muoiono per noi, ma perché ci aiutano a vivere di più e meglio.
27 agosto 2006
Moana Pozzi pensiero 8°: la casa e i vestiti
Moana ha utilizzato la maggior parte dei suoi guadagni nell'acquisto e nell'arredo della casa. Era il suo nido, nel quale si sentiva a suo agio e tranquilla. Costituiva la prosecuzione e l'esternazione del suo modo di essere. La curava fin nei minimi dettagli.
L'ultima casa di Moana si trova all'Olgiata in Roma. Ora è stata acquistata da una famiglia che non appartiene al mondo del porno, ma che è rimasta affascinata dal fatto che quella fosse stata la casa di Moana. E' stata molto modificata, ma sono restati intatti il bagno nero ed il terrazzo, così come li volle Moana.
Amo la mia casa, la curo in tutti i particolari e la arredo con oggetti e mobili ricercati (adoro gli stili Barocco e Neoclassico).
La mia prima casa, a cinquanta metri da piazza San Pietro. La mia casa è tutta azzurra: soffitti, pareti, moquette. Solo il bagno è nero e oro con tanti specchi e conchiglie e lo considero l'ambiente più importante. Qui mi rilasso e penso, mentre mi faccio lavare da un uomo che mi piace.
Mi piace circondarmi di oggetti di arte sacra e colleziono statue, inginocchiatoi e acquasantiere. Alle pareti ho messo numerosi quadri raffiguranti sacrifici, Gesù; di fronte al letto bianco c'è un angelo.
Ora dormo in una stanza tutta rosa in un letto a baldacchino Luigi XVI e preparo le mie cene in una cucina di marmo nero.
Cucinare è uno dei miei divertimenti, mi riesce bene e lo faccio quasi tutte le sere. Mangio molto, soprattutto insieme alla persona che amo. Questa è la mia cena ideale per un incontro d'amore: gnocchi al pesto con molto aglio, fegato alla veneta con molta cipolla e banane fritte.
Un'altra mia passione sono le fontane: in terrazza ne ho una seicentesca di marmo bianco e nell'ingresso due dell'Ottocento.
Se dipendesse da me, le giornate comincerebbero a mezzogiorno. Di notte mi piace stare in casa a fare l'amore e a guardare la televisione, oppure esco e vado nei miei locali preferiti, poco frequentati dalla gente tradizionale: bar e discoteche gay, club privati conosciuti solo da un piccolo giro di persone.
Amo tutto ciò che è d'oro. Possiedo gioielli bellissimi (regali di amanti e miei acquisti) e quando li indosso mi sento meglio fisicamente. Nell'agosto del 1987 mi ero fidanzata con Massimo, un noto gioielliere di Milano. Ricordo che prima di fare l'amore si divertiva a farmi indossare i gioielli che mi regalava. Io mi divertivo più di lui!
Il mio hobby preferito è collezionare vestititi e scarpe. Le scarpe (porto il numero quaranta) sono allineate dentro una vetrina e i loro tacchi non hanno mezze misure: o sono rasoterra o a spillo e altissimi (almeno dieci centimetri).
La maggior parte dei miei abiti li disegno da sola e poi li faccio realizzare da un mio amico costumista. Sono molto gelosa della stanza guardaroba, non faccio entrare nessuno e la tengo sempre chiusa a chiave.
Sono freddolosa e amo le pellicce morbide e calde. Ne possiede dieci che elenco in ordine di preferenza: visone bianco, visone rosa, visone rosso, marabù nero, zibellino, volpe bianca, volpe nera, visone selvaggio, visone nero e volpe rossa.
La biancheria la compro nei negozi più particolari di New York, Londra, Parigi.
La biancheria intima la porto sempre ed è la mia passione. La uso per sentirmi più femminile e per il gusto di farmela togliere. Di reggiseno porto la quarta misura, di mutandine la seconda, di reggicalze la prima.
Una cosa è certa: nessuno, anche se suonasse a casa mia alle ore più strane, mi troverà mai con i bigodini in testa.
[Marco Giusti, Moana, Mondadori, 2005, pp. 190, € 15,00]
Miei precedenti post su Moana
Moana Pozzi
Via Moana Pozzi - Cronache dal congresso radicale
Satira dissacrante
Moana Pozzi pornostar e spia
Moana tutta la verità - Libro
Moana Pozzi pensiero 1°: Chi sono
Moana Pozzi pensiero 2°: la giovinezza
Moana Pozzi pensiero 3°: la filosofia (collezionare vip)
Moana Pozzi pensiero 4°: educazione e sesso
Moana Pozzi pensiero 5°: sesso e pornografia
Moana Pozzi pensiero 6°: la solitudine
Moana Pozzi pensiero 7°: il corpo
L'ultima casa di Moana si trova all'Olgiata in Roma. Ora è stata acquistata da una famiglia che non appartiene al mondo del porno, ma che è rimasta affascinata dal fatto che quella fosse stata la casa di Moana. E' stata molto modificata, ma sono restati intatti il bagno nero ed il terrazzo, così come li volle Moana.
Amo la mia casa, la curo in tutti i particolari e la arredo con oggetti e mobili ricercati (adoro gli stili Barocco e Neoclassico).
La mia prima casa, a cinquanta metri da piazza San Pietro. La mia casa è tutta azzurra: soffitti, pareti, moquette. Solo il bagno è nero e oro con tanti specchi e conchiglie e lo considero l'ambiente più importante. Qui mi rilasso e penso, mentre mi faccio lavare da un uomo che mi piace.
Mi piace circondarmi di oggetti di arte sacra e colleziono statue, inginocchiatoi e acquasantiere. Alle pareti ho messo numerosi quadri raffiguranti sacrifici, Gesù; di fronte al letto bianco c'è un angelo.
Ora dormo in una stanza tutta rosa in un letto a baldacchino Luigi XVI e preparo le mie cene in una cucina di marmo nero.
Cucinare è uno dei miei divertimenti, mi riesce bene e lo faccio quasi tutte le sere. Mangio molto, soprattutto insieme alla persona che amo. Questa è la mia cena ideale per un incontro d'amore: gnocchi al pesto con molto aglio, fegato alla veneta con molta cipolla e banane fritte.
Un'altra mia passione sono le fontane: in terrazza ne ho una seicentesca di marmo bianco e nell'ingresso due dell'Ottocento.
Se dipendesse da me, le giornate comincerebbero a mezzogiorno. Di notte mi piace stare in casa a fare l'amore e a guardare la televisione, oppure esco e vado nei miei locali preferiti, poco frequentati dalla gente tradizionale: bar e discoteche gay, club privati conosciuti solo da un piccolo giro di persone.
Amo tutto ciò che è d'oro. Possiedo gioielli bellissimi (regali di amanti e miei acquisti) e quando li indosso mi sento meglio fisicamente. Nell'agosto del 1987 mi ero fidanzata con Massimo, un noto gioielliere di Milano. Ricordo che prima di fare l'amore si divertiva a farmi indossare i gioielli che mi regalava. Io mi divertivo più di lui!
Il mio hobby preferito è collezionare vestititi e scarpe. Le scarpe (porto il numero quaranta) sono allineate dentro una vetrina e i loro tacchi non hanno mezze misure: o sono rasoterra o a spillo e altissimi (almeno dieci centimetri).
La maggior parte dei miei abiti li disegno da sola e poi li faccio realizzare da un mio amico costumista. Sono molto gelosa della stanza guardaroba, non faccio entrare nessuno e la tengo sempre chiusa a chiave.
Sono freddolosa e amo le pellicce morbide e calde. Ne possiede dieci che elenco in ordine di preferenza: visone bianco, visone rosa, visone rosso, marabù nero, zibellino, volpe bianca, volpe nera, visone selvaggio, visone nero e volpe rossa.
La biancheria la compro nei negozi più particolari di New York, Londra, Parigi.
La biancheria intima la porto sempre ed è la mia passione. La uso per sentirmi più femminile e per il gusto di farmela togliere. Di reggiseno porto la quarta misura, di mutandine la seconda, di reggicalze la prima.
Una cosa è certa: nessuno, anche se suonasse a casa mia alle ore più strane, mi troverà mai con i bigodini in testa.
[Marco Giusti, Moana, Mondadori, 2005, pp. 190, € 15,00]
Miei precedenti post su Moana
Moana Pozzi
Via Moana Pozzi - Cronache dal congresso radicale
Satira dissacrante
Moana Pozzi pornostar e spia
Moana tutta la verità - Libro
Moana Pozzi pensiero 1°: Chi sono
Moana Pozzi pensiero 2°: la giovinezza
Moana Pozzi pensiero 3°: la filosofia (collezionare vip)
Moana Pozzi pensiero 4°: educazione e sesso
Moana Pozzi pensiero 5°: sesso e pornografia
Moana Pozzi pensiero 6°: la solitudine
Moana Pozzi pensiero 7°: il corpo
25 agosto 2006
Dopo di me il diluvio
Al Meeting di Comunione e Liberazione a Rimini ritorna la macchietta dell'uomo della provvidenza. L'affarista che si crede statista.
Il berlusca è tranquillo: «Qui infiltrati della sinistra che mi fischiano non ce ne sono..»
E si dichiara «condannato a restare in politica». Non vi può essere altro capo all'infuori di lui. Tutti i Casini sono avvertiti.
L'ingresso del cavaliere alla Fiera di Rimini è stato salutato da trombe e cori da stadio e dall'immancabile "Chi non salta comunista é!".
Ha parlato di tutto: di economia, della sinistra, del Ponte di Messina, delle banche, del Libano, del trapianto di capelli.
Ma il piatto più forte l'ha servito quando ha parlato di immigrazione. «Cinque anni sono pochi, però ribadisco che per diventare cittadini italiani devono dimostrare di conoscere la nostra lingua, la storia, la geografia e i fondamenti dello Stato, come la Costituzione».
Lui insomma, il berlusca, è un extracomunitario. E chissà se gli basta una vita intera per diventare italiano.
Propone di trasformare la Cdl in una "federazione di partiti".
Roberto Calderoli si iscrive subito. «È lui l´unico vero leader, lui ha i coglioni, la sinistra invece è votata dai coglioni». E ho detto tutto.
Il berlusca è tranquillo: «Qui infiltrati della sinistra che mi fischiano non ce ne sono..»
E si dichiara «condannato a restare in politica». Non vi può essere altro capo all'infuori di lui. Tutti i Casini sono avvertiti.
L'ingresso del cavaliere alla Fiera di Rimini è stato salutato da trombe e cori da stadio e dall'immancabile "Chi non salta comunista é!".
Ha parlato di tutto: di economia, della sinistra, del Ponte di Messina, delle banche, del Libano, del trapianto di capelli.
Ma il piatto più forte l'ha servito quando ha parlato di immigrazione. «Cinque anni sono pochi, però ribadisco che per diventare cittadini italiani devono dimostrare di conoscere la nostra lingua, la storia, la geografia e i fondamenti dello Stato, come la Costituzione».
Lui insomma, il berlusca, è un extracomunitario. E chissà se gli basta una vita intera per diventare italiano.
Propone di trasformare la Cdl in una "federazione di partiti".
Roberto Calderoli si iscrive subito. «È lui l´unico vero leader, lui ha i coglioni, la sinistra invece è votata dai coglioni». E ho detto tutto.
24 agosto 2006
Poeti, andate a zappare
Umberto Eco, che ormai può permettersi il lusso di vivere di rendita, nella sua ultima bustina di Minerva de L'espresso forse ha scritto per sentito dire, senza leggere l'originale. A meno che internet non abbia fatto qualche brutto scherzo anche a me.
Eco scrivendo, criticandola, di una intervista a Nanni Balestrini, pubblicata su Liberazione, nella quale si parla del ruolo positivo svolto da internet per la poesia, dice che Balestrini segnala alcuni indirizzi internet affidabili, che parlano di poesia.
Io di indirizzi internet che parlano di poesia non ho trovato traccia nell'intervista di Balestrini. Alcuni indirizzi internet sulla poesia invece ho trovato in un articolo non firmato sul Corriere della Sera.it, dove si parla dell'intervento di Balestrini.
Eco invita, non tanto garbatamente, i tanti poeti che pubblicano le loro poesie su internet (l'ho fatto anch'io nel mio sito personale) ad andare a zappare.
E' ovvio che noi dilettanti che pubblichiamo le nostre poesie su internet potremmo mandare lui a fare in c...
Nanni Balestrini aveva detto nell'intervista: «Per fortuna c’è internet, che permette di far circolare ovunque, rapidamente e economicamente, le poesie di tutti. E’ un ottimo strumento, il solo inconveniente è che si fa un po’ fatica ad orientarsi in mezzo a tutta questa abbondanza. Ma con un po’ di pazienza si arriva a individuare dove si trovano le cose che interessano, e in più si possono avere rapporti diretti con gli autori. Rimane certo la nostalgia per la carta stampata e rilegata, che del resto esiste solo da pochi secoli, ma tutto sommato penso che i vantaggi della rete siano superiori, si possono far circolare anche immagini e suoni, cosa interessante con l’importanza crescente che mi sembra abbia l’aspetto orale nella poesia oggi».
Concordo totalmente con Balestrini.
Non concordo per niente con Giuseppe Conte che ha scritto: «se vai su Internet a cercare la poesia, trovi tanto materiale inerte, esternazioni emozionali da scemi del villaggio: i blog sono fatti per lo più da esibizionisti. Si trova la fuffa peggiore, senza un orientamento». Da querela morale.
Mauro Bersani assume una posizione più conciliante: «A un editore la rete offre la possibilità di fare scouting, ma tendenzialmente si continua a lavorare con i sistemi tradizionali, leggendo le riviste e valutando gli invii che arrivano spontaneamente. Quanti? Due o tre al giorno...».
Balestrini: «Poeti, abbandonate i libri, scrivete e conoscetevi su internet»
Oggi Montale pubblicherebbe su Internet
Dove mandare i poeti?
Eco scrivendo, criticandola, di una intervista a Nanni Balestrini, pubblicata su Liberazione, nella quale si parla del ruolo positivo svolto da internet per la poesia, dice che Balestrini segnala alcuni indirizzi internet affidabili, che parlano di poesia.
Io di indirizzi internet che parlano di poesia non ho trovato traccia nell'intervista di Balestrini. Alcuni indirizzi internet sulla poesia invece ho trovato in un articolo non firmato sul Corriere della Sera.it, dove si parla dell'intervento di Balestrini.
Eco invita, non tanto garbatamente, i tanti poeti che pubblicano le loro poesie su internet (l'ho fatto anch'io nel mio sito personale) ad andare a zappare.
E' ovvio che noi dilettanti che pubblichiamo le nostre poesie su internet potremmo mandare lui a fare in c...
Nanni Balestrini aveva detto nell'intervista: «Per fortuna c’è internet, che permette di far circolare ovunque, rapidamente e economicamente, le poesie di tutti. E’ un ottimo strumento, il solo inconveniente è che si fa un po’ fatica ad orientarsi in mezzo a tutta questa abbondanza. Ma con un po’ di pazienza si arriva a individuare dove si trovano le cose che interessano, e in più si possono avere rapporti diretti con gli autori. Rimane certo la nostalgia per la carta stampata e rilegata, che del resto esiste solo da pochi secoli, ma tutto sommato penso che i vantaggi della rete siano superiori, si possono far circolare anche immagini e suoni, cosa interessante con l’importanza crescente che mi sembra abbia l’aspetto orale nella poesia oggi».
Concordo totalmente con Balestrini.
Non concordo per niente con Giuseppe Conte che ha scritto: «se vai su Internet a cercare la poesia, trovi tanto materiale inerte, esternazioni emozionali da scemi del villaggio: i blog sono fatti per lo più da esibizionisti. Si trova la fuffa peggiore, senza un orientamento». Da querela morale.
Mauro Bersani assume una posizione più conciliante: «A un editore la rete offre la possibilità di fare scouting, ma tendenzialmente si continua a lavorare con i sistemi tradizionali, leggendo le riviste e valutando gli invii che arrivano spontaneamente. Quanti? Due o tre al giorno...».
Balestrini: «Poeti, abbandonate i libri, scrivete e conoscetevi su internet»
Oggi Montale pubblicherebbe su Internet
Dove mandare i poeti?
23 agosto 2006
Stroncare è un'arte?
Chissà Alberto Arbasino, che ha scritto un articolo sulle categorie dei critici (L'espresso 32/2006), a quale categoria appartenga lui? Forse a quella dei critici dei critici.
Forse ha scritto quell'articolo tanto per scrivere. Per dovere di contratto. Mostrandosi oggettivo ha criticato tutti.
O forse ha voluto semplicemente sostenere che siamo tutti critici e quindi non esiste critica. Che poi forse è la cosa più sensata. Ognuno in un libro o in un'opera d'arte ci vede quello che vuole lui e non quello che vogliono gli altri.
Il critico stronca perché non è stato contattato opportunamente dall'autore dell'opera o da chi per lui. Un critico appartenente alla scuderia di una casa editrice non criticherà mai gli altri cavalli della stessa scuderia, siano essi di razza o ronzini.
I critici di norma scrivono per mestiere e per la pagnotta, e per lo più per i pari loro.
In fondo i loro pareri non contano niente. Conta il parere dei fruitori. I critici spessissimo non ci azzeccano. Opere da loro stroncate diventano bestseller.
E qui si apre un altro discorso. I bestseller possono essere opere d'arte? Ma cos'è l'arte?
Ma in fondo siamo tutti critici: critici professionali, accademici, teoretici, moralisti, specialisti, marxisti, psicanalisti, problematici, apolitici, militanti, apocalittici, integrati, formalisti, strutturalisti, realisti, esistenzialisti, nichilisti, bovaristi, decostruzionisti, religiosi, atei, terzomondisti. Ognuno di noi potrebbe farsi una sua categoria.
Ma forse siamo tutti pubblico senza patente.
O se volete consumatori colti, affratellati da Internet.
Forse ha scritto quell'articolo tanto per scrivere. Per dovere di contratto. Mostrandosi oggettivo ha criticato tutti.
O forse ha voluto semplicemente sostenere che siamo tutti critici e quindi non esiste critica. Che poi forse è la cosa più sensata. Ognuno in un libro o in un'opera d'arte ci vede quello che vuole lui e non quello che vogliono gli altri.
Il critico stronca perché non è stato contattato opportunamente dall'autore dell'opera o da chi per lui. Un critico appartenente alla scuderia di una casa editrice non criticherà mai gli altri cavalli della stessa scuderia, siano essi di razza o ronzini.
I critici di norma scrivono per mestiere e per la pagnotta, e per lo più per i pari loro.
In fondo i loro pareri non contano niente. Conta il parere dei fruitori. I critici spessissimo non ci azzeccano. Opere da loro stroncate diventano bestseller.
E qui si apre un altro discorso. I bestseller possono essere opere d'arte? Ma cos'è l'arte?
Ma in fondo siamo tutti critici: critici professionali, accademici, teoretici, moralisti, specialisti, marxisti, psicanalisti, problematici, apolitici, militanti, apocalittici, integrati, formalisti, strutturalisti, realisti, esistenzialisti, nichilisti, bovaristi, decostruzionisti, religiosi, atei, terzomondisti. Ognuno di noi potrebbe farsi una sua categoria.
Ma forse siamo tutti pubblico senza patente.
O se volete consumatori colti, affratellati da Internet.
Il Web sarà come noi
«Entro il 2016 il Web sarà l'unico sistema operativo (Web OS) degno di nota. Ci potremo connettere ovunque, da qualsiasi tipo di apparecchio (computer, palmare, smartphone, videocamera, tivù, lettore Mp3), e lasciar fare tutto a lui», lo ha detto in un'intervista a L'espresso (n. 33/2006), Kevin Kelly, fondatore di "Wired", il mensile dell'avanguardia digitale.
Chi vivrà allora, spero anch'io, potrà connettersi sempre ed ovunque. Non mi capiterà più, come invece mi è successo nei giorni scorsi, di sentire la mancanza di Internet, perché costretto a vivere tre giorni lontano dal mio computer di casa. Da tutti gli strumenti multimediali ci si potrà connettere. Come ora negli alberghi, insieme alla chiave della camera ci viene consegnato il telecomando della tv satellitare, allora ci verrà consegnata una card per navigare in internet.
Potremo sempre essere connessi.
Allora il web sarà come noi. Potrà in qualsiasi momento apprendere qualcosa da noi e noi potremmo apprendere da lui tutto quello che i miliardi di internauti, nostri fratelli, gli avranno insegnato.
La Macchina sarà, anzi lo è già oggi, in grado di espandere il suo livello di complessità/conoscenza ben oltre quello del cervello umano.
I link formeranno una rete neuronale in grado di auto-apprenedere da se stessa.
La Macchina diventerà la nostra memoria. Ricorderà più lei di noi, non avremo più bisogno di sforzarci a ricordare.
La Macchina, contrariamente a quello che avviene per noi uomini, potrà sempre rigenerarsi, cambiando i pezzi obsoleti. Non morirà mai.
La Macchina riuscirà a realizzare per sé il sogno che noi uomini vorremmo realizzare per noi: diventerà eterna. E chissà forse poi insegnerà anche a noi come fare.
Chi vivrà allora, spero anch'io, potrà connettersi sempre ed ovunque. Non mi capiterà più, come invece mi è successo nei giorni scorsi, di sentire la mancanza di Internet, perché costretto a vivere tre giorni lontano dal mio computer di casa. Da tutti gli strumenti multimediali ci si potrà connettere. Come ora negli alberghi, insieme alla chiave della camera ci viene consegnato il telecomando della tv satellitare, allora ci verrà consegnata una card per navigare in internet.
Potremo sempre essere connessi.
Allora il web sarà come noi. Potrà in qualsiasi momento apprendere qualcosa da noi e noi potremmo apprendere da lui tutto quello che i miliardi di internauti, nostri fratelli, gli avranno insegnato.
La Macchina sarà, anzi lo è già oggi, in grado di espandere il suo livello di complessità/conoscenza ben oltre quello del cervello umano.
I link formeranno una rete neuronale in grado di auto-apprenedere da se stessa.
La Macchina diventerà la nostra memoria. Ricorderà più lei di noi, non avremo più bisogno di sforzarci a ricordare.
La Macchina, contrariamente a quello che avviene per noi uomini, potrà sempre rigenerarsi, cambiando i pezzi obsoleti. Non morirà mai.
La Macchina riuscirà a realizzare per sé il sogno che noi uomini vorremmo realizzare per noi: diventerà eterna. E chissà forse poi insegnerà anche a noi come fare.
21 agosto 2006
Immigrazione: oltre la pietà
E' la ricerca e la speranza di un modo migliore di vita, per sé e per la propria famiglia, a spingere uomini donne e bambini a rischiare la vita per fuggire dai propri paesi di origine e approdare nei paesi "ricchi". Lo hanno fatto i nostri nonni, i nostri genitori, i nostri fratelli, i nostri parenti. Correndo forse meno rischi, perché non dovevano attraversare il mare.
Chi fugge dalla propria terra non è colpevole. Colpevoli sono semmai i governanti di quelle terre, che non fanno tutto quello che sarebbe necessario per elevare le condizioni di vita dei loro connazionali. Più colpevoli siamo noi, paesi ricchi, che siamo andati in quelle terre per sfruttarle economicamente, senza badare agli uomini chi ci vivono.
Ed ora quegli uomini, disperati, ci raggiungono nei nostri paesi ricchi, per pretendere quello che spetta loro in quanto uomini e donne come noi, con gli gli stessi nostri diritti.
Ed è emergenza. Il problema da affrontare subito non è come cacciarli, ma come accoglierli.
Bisogna fare di tutto per evitare le tragedie. Magari collaborando con i paesi di origine di questi nostri fratelli bisognosi, non esclusivamente bloccandoli per non farli partire, ma principalmente regolando partenze ed arrivi, creando le opportune condizioni.
Noi abbiamo bisogno di loro per lavori che che noi non facciamo più: in agricoltura, nell'assistenza gli anziani, ma anche in altri settori produttivi e sociali.
E comunque non possiamo lasciarli morire in mare.
I migranti arrivati nei giorni scorsi, originari dell'Eritrea, del Niger, dell'Egitto e del Sudan, erano partiti dalla Libia ed erano rimasti in mare per circa 5 giorni. Al secondo giorno di navigazione erano già senza acqua e cibo.
Sulla vicenda è intervenuto il ministro dell'Interno Giuliano Amato. Quello che ha detto mi convince poco. «Quella di oggi [19 agosto 2006] non è solo una tragedia, ma un vero e proprio crimine - ha detto - E se i crimini non riusciamo a punirli, si ripetono. E si ripetono anche le tragedie. Confido perciò che la magistratura dedicherà alla ricerca dei responsabili lo stesso impegno interno e internazionale che giustamente dedica a reati meno gravi di questo. Vediamo se riusciamo a scardinare una buona volta le organizzazioni criminali che mettono quotidianamente a repentaglio tante vite nella traversata del Mediterraneo».
Ministro Amato, quello che tu proponi è solo l'aspetto repressivo. Necessario, anche. Ma più necessario è capire e contribuire ad eliminare le cause che sono all'origine del fenomeno dell'immigrazione.
E poi, forse, bisognerebbe cominciare col punire e neutralizzare i molti criminali nostrani, a tutti i livelli, che dall'immigrazione ricevono e ricercano utili illeciti.
La strada da percorrere è lunga ed impegnativa. Ma è un lavoro, pulito e necessario questa volta, che noi paesi ricchi occidentali siamo in dovere di fare.
Il problema ovviamente non lo si risolve sparando sulle carrette del mare, come qualche incosciente di politico italiano continua ancora a dire oggi. Ma per fortuna in Italia non c'è più un governo che quegli incoscienti li annoverava tra i suoi ministri.
Chi fugge dalla propria terra non è colpevole. Colpevoli sono semmai i governanti di quelle terre, che non fanno tutto quello che sarebbe necessario per elevare le condizioni di vita dei loro connazionali. Più colpevoli siamo noi, paesi ricchi, che siamo andati in quelle terre per sfruttarle economicamente, senza badare agli uomini chi ci vivono.
Ed ora quegli uomini, disperati, ci raggiungono nei nostri paesi ricchi, per pretendere quello che spetta loro in quanto uomini e donne come noi, con gli gli stessi nostri diritti.
Ed è emergenza. Il problema da affrontare subito non è come cacciarli, ma come accoglierli.
Bisogna fare di tutto per evitare le tragedie. Magari collaborando con i paesi di origine di questi nostri fratelli bisognosi, non esclusivamente bloccandoli per non farli partire, ma principalmente regolando partenze ed arrivi, creando le opportune condizioni.
Noi abbiamo bisogno di loro per lavori che che noi non facciamo più: in agricoltura, nell'assistenza gli anziani, ma anche in altri settori produttivi e sociali.
E comunque non possiamo lasciarli morire in mare.
I migranti arrivati nei giorni scorsi, originari dell'Eritrea, del Niger, dell'Egitto e del Sudan, erano partiti dalla Libia ed erano rimasti in mare per circa 5 giorni. Al secondo giorno di navigazione erano già senza acqua e cibo.
Sulla vicenda è intervenuto il ministro dell'Interno Giuliano Amato. Quello che ha detto mi convince poco. «Quella di oggi [19 agosto 2006] non è solo una tragedia, ma un vero e proprio crimine - ha detto - E se i crimini non riusciamo a punirli, si ripetono. E si ripetono anche le tragedie. Confido perciò che la magistratura dedicherà alla ricerca dei responsabili lo stesso impegno interno e internazionale che giustamente dedica a reati meno gravi di questo. Vediamo se riusciamo a scardinare una buona volta le organizzazioni criminali che mettono quotidianamente a repentaglio tante vite nella traversata del Mediterraneo».
Ministro Amato, quello che tu proponi è solo l'aspetto repressivo. Necessario, anche. Ma più necessario è capire e contribuire ad eliminare le cause che sono all'origine del fenomeno dell'immigrazione.
E poi, forse, bisognerebbe cominciare col punire e neutralizzare i molti criminali nostrani, a tutti i livelli, che dall'immigrazione ricevono e ricercano utili illeciti.
La strada da percorrere è lunga ed impegnativa. Ma è un lavoro, pulito e necessario questa volta, che noi paesi ricchi occidentali siamo in dovere di fare.
Il problema ovviamente non lo si risolve sparando sulle carrette del mare, come qualche incosciente di politico italiano continua ancora a dire oggi. Ma per fortuna in Italia non c'è più un governo che quegli incoscienti li annoverava tra i suoi ministri.
20 agosto 2006
La storia bandita - I Briganti
Sono mancato tre giorni dal blog perché mi sono messo in cammino per un itinerario lucano sulle tracce dei briganti meridionali.
Ho visitato Potenza, Brindisi di Montagna, Avigliano, Lagopesole, Rionero in Vulture, Monticchio.
Luoghi dove hanno operato i briganti Carmine Crocco, Ninco Nanco, Romaniello, Masiello, Rocco Serra, Grippo e La Rocca; ma anche il generale spagnolo José Borges. Siamo negli anni immediatamente successivi all'unità d'Italia, il 1861. Il popolo del sud cerca di rivendicare la sua identità contro un'unità imposta dall'alto dai piemontesi.
A capaggiare questa rivolta, senza speranza di riuscita, furono appunto i briganti.
Carlo Levi ha scritto che in quelle terre tutto li ricorda: non c'é monte, burrone, bosco, pietra, fontana o grotta, che non sia legata a qualche loro impresa memorabile, o che non abbia servito da rifugio o nascondiglio. Quei luoghi spesso hanno preso nome dai loro fatti.
Nella storia ufficiale il fenomeno del brigantaggio viene liquidato come fatto meramente criminale. Ma, come un fiume carsico, riemergono dalle pieghe della memoria le ragioni, le aspettative e i desideri che diedero vita alla rivolta dei cafoni. Di fronte al tribunale della Storia, Carmine Crocco ed i briganti riprendono la parola, con la speranza di veder riaprire il processo.
Ieri, sabato 19 agosto 2006, nel Parco storico rurale ed ambientale della Grancìa, nel territorio di Brindisi di Montagna in provincia di Potenza, ho assistito al Cinespattacolo "La storia bandita", il brigantaggio bandito dai libri di storia ufficiali che si studiano nelle nostre scuole.
Lo spettacolo è il racconto delle rivolte e delle insorgenze contadine meridionali, vissute attraverso le vicende tragiche della famiglia Crocco. Il periodo della rivoluzione napoletana, la lunga marcia del Cardinale Ruffo, il risorgimento e il brigantaggio post-unitario vengono osservati con lo sguardo dei ceti più umili. La Storia Bandita è una trasposizione in chiave lirica ed epica del desiderio di riscatto di un popolo. Un inno all'amore e alla libertà contro l'arroganza e gli abusi del potere.
450 attori, 35 danzatori, 12 cavalieri, più di 500 proiettori, musiche in multidiffusione, luci, schermo ad acqua con proiezioni cinematografiche, grandi immagini e suggestivi effetti pirotecnici danno vita ad un avvenimento artistico multimediale che fonde insieme le più moderne forme di rappresentazione (teatro, cinema, musical, danza), dando vita ad un'ora e dieci minuti di grandi emozioni.
Alla realizzazione del cinespettacolo hanno contribuito i nomi più prestigiosi della scena artistica internazionale, dalla direzione tecnica ed artistica curata da Jean-François Touillaud fino alla regia di scena curata da Victor Rambaldi.
Tra le voci narranti ritroviamo quelle di Michele Placido (nella parte di Crocco), Lina Sastri (nella parte della brigantessa), Paolo Ferrari (nella parte di Zio Martino) e Orso Maria Guerrini (nella parte del generale spagnolo Borges).
La colonna sonora è firmata da Antonello Venditti, Lucio Dalla, Luciano Di Giandomenico, Eddy Napoli, Eldo Papiri, Davide Petrosino, Joel Fajermann e altri giovani autori.
In un anfiteatro con circa 3.600 posti a sedere, proiezioni di grandi immagini sulla montagna che fa da sfondo naturale ed immenso alla scena di oltre 25.000 metri quadrati, schermi d'acqua sui quali viene scritto "Amore è Libertà", fuochi d'artificio.
L'impatto visivo ed emozionale è grande. Ci si augura anche che il contenuto dello spettacolo contribuisca a formare le coscienze alla rivalutazione della storia del sud d'Italia.
Ho visitato Potenza, Brindisi di Montagna, Avigliano, Lagopesole, Rionero in Vulture, Monticchio.
Luoghi dove hanno operato i briganti Carmine Crocco, Ninco Nanco, Romaniello, Masiello, Rocco Serra, Grippo e La Rocca; ma anche il generale spagnolo José Borges. Siamo negli anni immediatamente successivi all'unità d'Italia, il 1861. Il popolo del sud cerca di rivendicare la sua identità contro un'unità imposta dall'alto dai piemontesi.
A capaggiare questa rivolta, senza speranza di riuscita, furono appunto i briganti.
Carlo Levi ha scritto che in quelle terre tutto li ricorda: non c'é monte, burrone, bosco, pietra, fontana o grotta, che non sia legata a qualche loro impresa memorabile, o che non abbia servito da rifugio o nascondiglio. Quei luoghi spesso hanno preso nome dai loro fatti.
Nella storia ufficiale il fenomeno del brigantaggio viene liquidato come fatto meramente criminale. Ma, come un fiume carsico, riemergono dalle pieghe della memoria le ragioni, le aspettative e i desideri che diedero vita alla rivolta dei cafoni. Di fronte al tribunale della Storia, Carmine Crocco ed i briganti riprendono la parola, con la speranza di veder riaprire il processo.
Ieri, sabato 19 agosto 2006, nel Parco storico rurale ed ambientale della Grancìa, nel territorio di Brindisi di Montagna in provincia di Potenza, ho assistito al Cinespattacolo "La storia bandita", il brigantaggio bandito dai libri di storia ufficiali che si studiano nelle nostre scuole.
Lo spettacolo è il racconto delle rivolte e delle insorgenze contadine meridionali, vissute attraverso le vicende tragiche della famiglia Crocco. Il periodo della rivoluzione napoletana, la lunga marcia del Cardinale Ruffo, il risorgimento e il brigantaggio post-unitario vengono osservati con lo sguardo dei ceti più umili. La Storia Bandita è una trasposizione in chiave lirica ed epica del desiderio di riscatto di un popolo. Un inno all'amore e alla libertà contro l'arroganza e gli abusi del potere.
450 attori, 35 danzatori, 12 cavalieri, più di 500 proiettori, musiche in multidiffusione, luci, schermo ad acqua con proiezioni cinematografiche, grandi immagini e suggestivi effetti pirotecnici danno vita ad un avvenimento artistico multimediale che fonde insieme le più moderne forme di rappresentazione (teatro, cinema, musical, danza), dando vita ad un'ora e dieci minuti di grandi emozioni.
Alla realizzazione del cinespettacolo hanno contribuito i nomi più prestigiosi della scena artistica internazionale, dalla direzione tecnica ed artistica curata da Jean-François Touillaud fino alla regia di scena curata da Victor Rambaldi.
Tra le voci narranti ritroviamo quelle di Michele Placido (nella parte di Crocco), Lina Sastri (nella parte della brigantessa), Paolo Ferrari (nella parte di Zio Martino) e Orso Maria Guerrini (nella parte del generale spagnolo Borges).
La colonna sonora è firmata da Antonello Venditti, Lucio Dalla, Luciano Di Giandomenico, Eddy Napoli, Eldo Papiri, Davide Petrosino, Joel Fajermann e altri giovani autori.
In un anfiteatro con circa 3.600 posti a sedere, proiezioni di grandi immagini sulla montagna che fa da sfondo naturale ed immenso alla scena di oltre 25.000 metri quadrati, schermi d'acqua sui quali viene scritto "Amore è Libertà", fuochi d'artificio.
L'impatto visivo ed emozionale è grande. Ci si augura anche che il contenuto dello spettacolo contribuisca a formare le coscienze alla rivalutazione della storia del sud d'Italia.
18 agosto 2006
L'uso della forza rafforza il terrorismo
A qualcuno forse è dispiaciuto che la guerra in Libano sia finita. Bisognava completare il lavoro iniziato. A seconda dell'appartenenza, si sperava che a finirlo fossero stati o gli hezbollah o Israele.
Noi invece apparteniamo a quelli che ritengono che quella guerra non avrebbe dovuto mai cominciare.
Chi l'ha voluta ha fallito. «Dopo questa disgraziata guerra, la popolarità di Hezbollah, in Libano e in tutto il mondo arabo, è enormemente cresciuta», ha detto D'Alema ed io concordo con lui. Bella lezione per i guerrafondai di Israele.
Meir Shalev, affermato scrittore israeliano, ha detto: «La società israeliana non esce rafforzata da questo conflitto. I governanti israeliani si sono dimostrati assolutamente inadeguati a fra fronte a una situazione del genere. Il mandato morale che avevano avuto dall'opinione pubblica israeliana e di buona parte di quella mondiale era di colpire Hezbollah distruggendone le infrastrutture nel Sud del Libano e non di distruggere il Libano trasformando la guerra contro un'organizzazione terroristica in una guerra contro un popolo».
Per qualcuno purtroppo, anche in Italia, dire hezbollah è dire Libano; il Libano viene identificato con gli hezbollah.
«L'uso della forza e la guerra rafforzano l'estremismo e danno nuova forza al terrorismo», ha detto ancora il nostro ministro degli esteri.
La guerra ha contribuito a far diventare gli hezbollah degli eroi, agli occhi della popolazione libanese.
Ma per fortuna è prevalso il buon senso, che ha fatto tacere, speriamo per sempre, le armi.
Il governo libanese, i ministri hezbollah compresi quindi, ha deciso all'unanimità di accettare la risoluzione 1701 dell'Onu.
Per uscire dal fallimento politico della guerra in Libano si è imboccata finalmente la strada del dialogo e della diplomazia.
Solo una pace giusta può garantire la sicurezza.
Noi invece apparteniamo a quelli che ritengono che quella guerra non avrebbe dovuto mai cominciare.
Chi l'ha voluta ha fallito. «Dopo questa disgraziata guerra, la popolarità di Hezbollah, in Libano e in tutto il mondo arabo, è enormemente cresciuta», ha detto D'Alema ed io concordo con lui. Bella lezione per i guerrafondai di Israele.
Meir Shalev, affermato scrittore israeliano, ha detto: «La società israeliana non esce rafforzata da questo conflitto. I governanti israeliani si sono dimostrati assolutamente inadeguati a fra fronte a una situazione del genere. Il mandato morale che avevano avuto dall'opinione pubblica israeliana e di buona parte di quella mondiale era di colpire Hezbollah distruggendone le infrastrutture nel Sud del Libano e non di distruggere il Libano trasformando la guerra contro un'organizzazione terroristica in una guerra contro un popolo».
Per qualcuno purtroppo, anche in Italia, dire hezbollah è dire Libano; il Libano viene identificato con gli hezbollah.
«L'uso della forza e la guerra rafforzano l'estremismo e danno nuova forza al terrorismo», ha detto ancora il nostro ministro degli esteri.
La guerra ha contribuito a far diventare gli hezbollah degli eroi, agli occhi della popolazione libanese.
Ma per fortuna è prevalso il buon senso, che ha fatto tacere, speriamo per sempre, le armi.
Il governo libanese, i ministri hezbollah compresi quindi, ha deciso all'unanimità di accettare la risoluzione 1701 dell'Onu.
Per uscire dal fallimento politico della guerra in Libano si è imboccata finalmente la strada del dialogo e della diplomazia.
Solo una pace giusta può garantire la sicurezza.
16 agosto 2006
Diario di guerra
Nel febbraio del 1861, con la capitolazione di Gaeta, ultima roccaforte borbonica, il Regno delle Due Sicilie cessa - di fatto - di esistere. Francesco II ripara a Roma, ospite degli ambienti pontifici a lui non ostili. Il re borbone si illude in un suo ritorno immediato sul trono. Crede che le popolazioni del sud siano rimaste a lui fedeli e che siano pronte a ribellarsi e a sollevarsi contro i piemontesi, che hanno imposto l'unità d'Italia.
Ma i piani di riscossa peccano di pressapochismo e di velleitarismo, essendo in gran parte fantasiosi ed inattuabili.
Gli strateghi del sovrano non riescono a progettare nessun serio ed efficace piano controrivoluzionario.
Francesco II si aggrappa all'idea che la riconquista del regno possa concretizzarsi anche attraverso un'iniziativa isolata, capace di coinvolgere le popolazioni. E affida il comando di una spedizione al generale spagnolo José Borges.
L'11 settembre 1861 Borges s'imbarca da Malta per raggiungere la Calabria, con appena una ventina di uomini. Nella notte del 13 settembre sbarca fra Bruzzano e Brancaleone. In Calabria non trova né popolo né soldati ad attenderlo.
L'unico gruppo di uomini armati che in qualche modo lo aiuterà è quello capeggiato dal brigante Carmine Crocco.
Ma Borges e Crocco appartengono a due mondi diversi, hanno due modi diversi di vedere e valutare le cose.
Borges vuol condurre la sua campagna militare con onestà e coerenza, si oppone al saccheggio sistematico dei paesi, illudendosi di poter trasformare una massa ingovernabile di gente senza futuro in un esercito organizzato, disciplinato e con un proprio codice d'onore.
Crocco combatte invece una sua guerra personale, contro tutto e contro tutti: capisce che la posta politica è persa in partenza; la sua è lotta di classe, lotta contadina, condotta alla giornata; taglieggia - in quanto tali - tutti i proprietari terrieri, senza distinzione, anche quelli filoborbonici; consente il saccheggio, anche quando non ne è convinto perché sa che è l'unico mezzo per approvvigionare i suoi uomini e il solo collante di una massa di sbandati. Crocco è consapevole della superiorità numerica del nemico: attua alla perfezione la tattica del "mordi e fuggi" che oggi si definirebbe di guerriglia.
Quando Crocco si rende conto che Borges non gli è più utile l'abbandona.
Uno scrittore, contemporaneo di Borges, lo descrive come «... don Chisciotte di una causa perduta e screditata, combattè i mulini a vento ma li combattè colla fede del soldato d'onore e di convinzione».
L'8 dicembre 1861 Borges, tradito, viene catturato da un battaglione di bersaglieri, con l'ausilio delle Guardie Nazionali, e fucilato a Tagliacozzo. Con Borges furono fucilati otto spagnoli e otto italiani.
Borges se non si fosse lasciato prendere dalla sua generosità ed umanità si sarebbe salvato. Si era fermato in una cascina, poco prima dei confini dello Stato pontificio, per far riposare gli uomini che lo seguivano a piedi. Lui ed alcuni ufficiali spagnoli erano a cavallo.
Crocco invece, arrestato successivamente e condannato all'ergastolo, morì 44 anni dopo, il 18 giugno 1905.
Borges nel suo diario descrive gli avvenimenti succedutesi dalla sua partenza da Malta fino al giorno prima della sua fucilazione.
Il Diario, pubblicato la prima volta già nel 1862, ha avuto un grande successo editoriale che continua ancora oggi.
L'edizione che io ho letto nella giornata di ferragosto, pubblicata da Adda Editore nel 2003, è stata curata da Valentino Romano, appassionato e competente studioso del brigantaggio meridionale. Grande merito di questa edizione è che la traduzione del diario, per la prima volta, è avvenuta sul testo autografo, scritto in francese e conservato nell'Archivio Storico Diplomatico del Ministero degli Esteri Italiano.
Quest'opera di Valentino Romano, come le sue altre, s'inserisce nel solco della rilettura e rivalutazione del fenomeno del brigantaggio, inteso non più come fenomeno negativo e malavitoso, ma come aspirazione delle classi più umili, prima fra tutte quelle contadine, ad una vita migliore su questa terra.
Scrive Valentino Romano, in un'altra opera: «Oggi nessuno studioso, degno di tal nome, mette in discussione l'unità d'Italia: ci si chiede, semmai, se le sue modalità di attuazione abbiano risposto alle reali aspettative delle popolazioni interessate; ci si chiede se abbiano prevalso gli ideali politici e culturali o gli interessi economici di lobbies nazionali ed internazionali; ci si chiede se ci sia stato un reale e democratico coinvolgimento di tutte le classi sociali o una imposizione manu militari della legge del più forte.
Don José Borges, Diario di guerra, a cura di Valentino Romano, Adda Editore 2003, pp. 193, € 12,00
Ma i piani di riscossa peccano di pressapochismo e di velleitarismo, essendo in gran parte fantasiosi ed inattuabili.
Gli strateghi del sovrano non riescono a progettare nessun serio ed efficace piano controrivoluzionario.
Francesco II si aggrappa all'idea che la riconquista del regno possa concretizzarsi anche attraverso un'iniziativa isolata, capace di coinvolgere le popolazioni. E affida il comando di una spedizione al generale spagnolo José Borges.
L'11 settembre 1861 Borges s'imbarca da Malta per raggiungere la Calabria, con appena una ventina di uomini. Nella notte del 13 settembre sbarca fra Bruzzano e Brancaleone. In Calabria non trova né popolo né soldati ad attenderlo.
L'unico gruppo di uomini armati che in qualche modo lo aiuterà è quello capeggiato dal brigante Carmine Crocco.
Ma Borges e Crocco appartengono a due mondi diversi, hanno due modi diversi di vedere e valutare le cose.
Borges vuol condurre la sua campagna militare con onestà e coerenza, si oppone al saccheggio sistematico dei paesi, illudendosi di poter trasformare una massa ingovernabile di gente senza futuro in un esercito organizzato, disciplinato e con un proprio codice d'onore.
Crocco combatte invece una sua guerra personale, contro tutto e contro tutti: capisce che la posta politica è persa in partenza; la sua è lotta di classe, lotta contadina, condotta alla giornata; taglieggia - in quanto tali - tutti i proprietari terrieri, senza distinzione, anche quelli filoborbonici; consente il saccheggio, anche quando non ne è convinto perché sa che è l'unico mezzo per approvvigionare i suoi uomini e il solo collante di una massa di sbandati. Crocco è consapevole della superiorità numerica del nemico: attua alla perfezione la tattica del "mordi e fuggi" che oggi si definirebbe di guerriglia.
Quando Crocco si rende conto che Borges non gli è più utile l'abbandona.
Uno scrittore, contemporaneo di Borges, lo descrive come «... don Chisciotte di una causa perduta e screditata, combattè i mulini a vento ma li combattè colla fede del soldato d'onore e di convinzione».
L'8 dicembre 1861 Borges, tradito, viene catturato da un battaglione di bersaglieri, con l'ausilio delle Guardie Nazionali, e fucilato a Tagliacozzo. Con Borges furono fucilati otto spagnoli e otto italiani.
Borges se non si fosse lasciato prendere dalla sua generosità ed umanità si sarebbe salvato. Si era fermato in una cascina, poco prima dei confini dello Stato pontificio, per far riposare gli uomini che lo seguivano a piedi. Lui ed alcuni ufficiali spagnoli erano a cavallo.
Crocco invece, arrestato successivamente e condannato all'ergastolo, morì 44 anni dopo, il 18 giugno 1905.
Borges nel suo diario descrive gli avvenimenti succedutesi dalla sua partenza da Malta fino al giorno prima della sua fucilazione.
Il Diario, pubblicato la prima volta già nel 1862, ha avuto un grande successo editoriale che continua ancora oggi.
L'edizione che io ho letto nella giornata di ferragosto, pubblicata da Adda Editore nel 2003, è stata curata da Valentino Romano, appassionato e competente studioso del brigantaggio meridionale. Grande merito di questa edizione è che la traduzione del diario, per la prima volta, è avvenuta sul testo autografo, scritto in francese e conservato nell'Archivio Storico Diplomatico del Ministero degli Esteri Italiano.
Quest'opera di Valentino Romano, come le sue altre, s'inserisce nel solco della rilettura e rivalutazione del fenomeno del brigantaggio, inteso non più come fenomeno negativo e malavitoso, ma come aspirazione delle classi più umili, prima fra tutte quelle contadine, ad una vita migliore su questa terra.
Scrive Valentino Romano, in un'altra opera: «Oggi nessuno studioso, degno di tal nome, mette in discussione l'unità d'Italia: ci si chiede, semmai, se le sue modalità di attuazione abbiano risposto alle reali aspettative delle popolazioni interessate; ci si chiede se abbiano prevalso gli ideali politici e culturali o gli interessi economici di lobbies nazionali ed internazionali; ci si chiede se ci sia stato un reale e democratico coinvolgimento di tutte le classi sociali o una imposizione manu militari della legge del più forte.
Don José Borges, Diario di guerra, a cura di Valentino Romano, Adda Editore 2003, pp. 193, € 12,00
14 agosto 2006
E' suonata l'ora della pace
In Libano è suonata l'ora della pace. Forse. Nessuna sirena però l'ha annunciata. Alle ore sette italiane del 14 agosto 2006 l'hanno annunciata i ragazzini libanesi tuffandosi felici nelle acque del porto di Tiro e i soldati israeliani abbracciandosi al fronte. Intanto nei 33 giorni di guerra, assurda come tutte le guerre, erano stati ammazzati 1100 persone in Libano, soprattutto civili, e 156 israeliani, tra cui 116 soldati.
Militari israeliani ed hezbollah libanesi, con il cronometro in mano, hanno sparato fino all'ultimo minuto utile, prima dell'ora della tregua fissata dal Consiglio di sicurezza dell'Onu il giorno prima. Sia gli uni che gli altri, come ha scritto Luca Landò, hanno cercato di ottenere il miglior risultato in termini di metri conquistati, postazioni demolite, nemici abbattuti. Si è fatto di tutto per "completare il lavoro".
Suonata l'ora della pace, migliaia di profughi hanno iniziato a mettersi in marcia per far ritorno nei loro villaggi nel sud del Libano.
Sia gli israeliani che gli hezbollah si sono dichiarati vincitori. E forse hanno ragione entrambi, con la fine della guerra abbiamo vinto tutti.
Gli israeliani hanno comunque ribadito che i loro soldati si ritireranno dal Libano solo quando arriverà la forza internazionale - di cui l'Italia dovrebbe costituire la seconda forza in campo dopo la Francia - forza che impiegherà una decina di giorni per potersi dispiegare.
Gli hezbollah, che hanno accettata la tregua, hanno pure ribadito che continueranno a combattere fino a quando i soldati israeliani non usciranno dal Libano.
La pace sembra di paglia.
Il buon risultato della tregua non deve far dimenticare le responsabilità e gli errori, affinché non possano ripetersi in futuro.
Io continuo ad essere convinto che gli errori più grandi e le responsabilità maggiori delle distruzioni e dei morti sono degli israeliani. E' stata spropositata la loro reazione alle provocazioni degli hezbollah.
Nella sinistra italiana a difendere, senza se e senza ma, la posizione israeliana pare sia rimasto solo Furio Colombo. Ha scritto su l'Unità di domenica 13 agosto 2006: «L'isolamento di Israele nell'opinione di gran parte degli italiani - o almeno dei suoi media - va molto al di là dell'antagonismo con cui di volta in volta si dedica ai Paesi e governi da cui si dissente. Per esempio le sue voci pacifiste sono continuamente ignorate e i suoi grandi scrittori - tutti votati alla pace - vengono anch'essi isolati e ignorati se esprimono solidarietà al loro governo in momento di dura prova». E' ovvio che Colombo si riferisce a voci e scrittori israeliani, che sarebbero stati silenziati dai media italiani.
Ma, ancora una volta, Colombo sulla guerra nel Libano manca di lucidità ed equilibrio. Proprio su l'Unità dello stesso 13 agosto è riportata un'intervista, che l'autore Umberto De Giovannangeli definisce «uno spot all'intelligenza di quei politici che sanno rivedere con coraggio e onestà intellettuale le proprie posizioni». Si tratta di un'intervista all'israeliano Yariv Oppenheimer, parlamentare laburista e leader di Peace Now. In un primo momento aveva pensato che quella contro il Libano fosse una guerra giusta, ma poi ha capito che era un errore. Ed esprime sulle scelte del governo Olmert «un giudizio fortemente negativo. Il governo ha perso la bussola quando ha deciso di ordinare una profonda penetrazione in Libano. In questo modo ha trasformato una guerra nata come atto di difesa dalla minaccia hezbollah in un'avventura militare senza sbocchi se non quello, sciagurato, della disintegrazione territoriale del Libano o della sua rioccupazione».
Colombo farebbe bene a non silenziare queste voci di pacifisti israeliani, e non marginali, che condannano l'intervento israeliano in Libano.
Ma per ora godiamoci la pace, per il massimo tempo possibile.
Militari israeliani ed hezbollah libanesi, con il cronometro in mano, hanno sparato fino all'ultimo minuto utile, prima dell'ora della tregua fissata dal Consiglio di sicurezza dell'Onu il giorno prima. Sia gli uni che gli altri, come ha scritto Luca Landò, hanno cercato di ottenere il miglior risultato in termini di metri conquistati, postazioni demolite, nemici abbattuti. Si è fatto di tutto per "completare il lavoro".
Suonata l'ora della pace, migliaia di profughi hanno iniziato a mettersi in marcia per far ritorno nei loro villaggi nel sud del Libano.
Sia gli israeliani che gli hezbollah si sono dichiarati vincitori. E forse hanno ragione entrambi, con la fine della guerra abbiamo vinto tutti.
Gli israeliani hanno comunque ribadito che i loro soldati si ritireranno dal Libano solo quando arriverà la forza internazionale - di cui l'Italia dovrebbe costituire la seconda forza in campo dopo la Francia - forza che impiegherà una decina di giorni per potersi dispiegare.
Gli hezbollah, che hanno accettata la tregua, hanno pure ribadito che continueranno a combattere fino a quando i soldati israeliani non usciranno dal Libano.
La pace sembra di paglia.
Il buon risultato della tregua non deve far dimenticare le responsabilità e gli errori, affinché non possano ripetersi in futuro.
Io continuo ad essere convinto che gli errori più grandi e le responsabilità maggiori delle distruzioni e dei morti sono degli israeliani. E' stata spropositata la loro reazione alle provocazioni degli hezbollah.
Nella sinistra italiana a difendere, senza se e senza ma, la posizione israeliana pare sia rimasto solo Furio Colombo. Ha scritto su l'Unità di domenica 13 agosto 2006: «L'isolamento di Israele nell'opinione di gran parte degli italiani - o almeno dei suoi media - va molto al di là dell'antagonismo con cui di volta in volta si dedica ai Paesi e governi da cui si dissente. Per esempio le sue voci pacifiste sono continuamente ignorate e i suoi grandi scrittori - tutti votati alla pace - vengono anch'essi isolati e ignorati se esprimono solidarietà al loro governo in momento di dura prova». E' ovvio che Colombo si riferisce a voci e scrittori israeliani, che sarebbero stati silenziati dai media italiani.
Ma, ancora una volta, Colombo sulla guerra nel Libano manca di lucidità ed equilibrio. Proprio su l'Unità dello stesso 13 agosto è riportata un'intervista, che l'autore Umberto De Giovannangeli definisce «uno spot all'intelligenza di quei politici che sanno rivedere con coraggio e onestà intellettuale le proprie posizioni». Si tratta di un'intervista all'israeliano Yariv Oppenheimer, parlamentare laburista e leader di Peace Now. In un primo momento aveva pensato che quella contro il Libano fosse una guerra giusta, ma poi ha capito che era un errore. Ed esprime sulle scelte del governo Olmert «un giudizio fortemente negativo. Il governo ha perso la bussola quando ha deciso di ordinare una profonda penetrazione in Libano. In questo modo ha trasformato una guerra nata come atto di difesa dalla minaccia hezbollah in un'avventura militare senza sbocchi se non quello, sciagurato, della disintegrazione territoriale del Libano o della sua rioccupazione».
Colombo farebbe bene a non silenziare queste voci di pacifisti israeliani, e non marginali, che condannano l'intervento israeliano in Libano.
Ma per ora godiamoci la pace, per il massimo tempo possibile.
12 agosto 2006
Moana Pozzi pensiero 7°: il corpo
Il suo grande corpo bianco riempie lo schermo cinematografico e le mani degli uomini.
Moana è Jessica Rabbit, Moana è Ava Gardner, Moana è Marilyn Monroe.
Moana è quasi una divinità femminile, specialmente quando è nuda: seno abbondante, busto sottile, sedere vistoso, gambe slanciate.
Moana ha cura del suo corpo in modo maniacale, non solo perché è il suo strumento di lavoro, ma anche perché Moana è il suo corpo.
Per Moana non vi è una morale del corpo. Il corpo è semplicemente un mezzo per dare e ricevere piacere.
Mostrarmi agli altri è una cosa che adoro, sono un'esibizionista convinta... Nuda mi sono sempre sentita invincibile.
Una donna bella deve riempire le mani di un uomo o no?
Passo la mia vita a curare il mio corpo, a cercare di migliorarlo, facendo ore di sport, da sempre, non da quando faccio questo lavoro, ma da quando ero piccola.
Bisognerebbe fermare il tempo oppure fare il famoso patto col diavolo di Dorian Gray, io francamente la darei la mia anima al diavolo.
Io non mi guardo, io mi viviseziono. Sono una professionista: il corpo è uno strumento che io uso fino ai limiti estremi. Non improvviso niente, ormai. Sono molto allenata dagli esercizi di danza e di ginnastica che faccio tutti i giorni. In più sono anche una esperta sub.
Il corpo può fare tutto, non lascia tracce dentro di me. Se non c'è la testa, il sesso non esiste.
Perché no? Io dico sì alla chirurgia estetica e al silicone, se serve, perché tutto ciò che è imperfetto mi dà fastidio. Fa male? Bisogna pur morire.
Le mani devono essere belle, soprattutto quelle femminili.
Voglio parlarvi di una parte del mio corpo molto desiderata dagli uomini: il culo. Qualcuno lo giudica un po' troppo grosso ed effettivamente è piuttosto ingombrante e vistoso. A Fellini è sempre piaciuto moltissimo. La prima volta che andai nel suo ufficio a Cinecittà mi salutò con una pacca sul sedere. Nel film Ginger e Fred, dove ebbi una piccola parte, ne lo fece mostrare alla macchina da presa mentre lui diceva a sua moglie: «Guarda che bel culo ha la Moana!». La Masina sorrideva...
La parte più bella della donna è il suo didietro. Seni e gambe sono sempre delle belle carte, ma sono lì. Un bel sedere va oltre: è più misterioso, segreto. E con lui una donna deve sapersi esprimere!
A me piace farmelo toccare, stringere e «usare», ma quest'ultima cosa soltanto se l'uomo è veramente esperto e sa come fare... Comunque, tengo sempre in casa un librificante veramente eccezionale che risolve tutti i problemi: «Anal Cream».
[Marco Giusti, Moana, Mondadori, 2005, pp. 190, € 15,00]
Miei precedenti post su Moana
Moana Pozzi
Via Moana Pozzi - Cronache dal congresso radicale
Satira dissacrante
Moana Pozzi pornostar e spia
Moana tutta la verità - Libro
Moana Pozzi pensiero 1°: Chi sono
Moana Pozzi pensiero 2°: la giovinezza
Moana Pozzi pensiero 3°: la filosofia (collezionare vip)
Moana Pozzi pensiero 4°: educazione e sesso
Moana Pozzi pensiero 5°: sesso e pornografia
Moana Pozzi pensiero 6°: la solitudine
Moana è Jessica Rabbit, Moana è Ava Gardner, Moana è Marilyn Monroe.
Moana è quasi una divinità femminile, specialmente quando è nuda: seno abbondante, busto sottile, sedere vistoso, gambe slanciate.
Moana ha cura del suo corpo in modo maniacale, non solo perché è il suo strumento di lavoro, ma anche perché Moana è il suo corpo.
Per Moana non vi è una morale del corpo. Il corpo è semplicemente un mezzo per dare e ricevere piacere.
Mostrarmi agli altri è una cosa che adoro, sono un'esibizionista convinta... Nuda mi sono sempre sentita invincibile.
Una donna bella deve riempire le mani di un uomo o no?
Passo la mia vita a curare il mio corpo, a cercare di migliorarlo, facendo ore di sport, da sempre, non da quando faccio questo lavoro, ma da quando ero piccola.
Bisognerebbe fermare il tempo oppure fare il famoso patto col diavolo di Dorian Gray, io francamente la darei la mia anima al diavolo.
Io non mi guardo, io mi viviseziono. Sono una professionista: il corpo è uno strumento che io uso fino ai limiti estremi. Non improvviso niente, ormai. Sono molto allenata dagli esercizi di danza e di ginnastica che faccio tutti i giorni. In più sono anche una esperta sub.
Il corpo può fare tutto, non lascia tracce dentro di me. Se non c'è la testa, il sesso non esiste.
Perché no? Io dico sì alla chirurgia estetica e al silicone, se serve, perché tutto ciò che è imperfetto mi dà fastidio. Fa male? Bisogna pur morire.
Le mani devono essere belle, soprattutto quelle femminili.
Voglio parlarvi di una parte del mio corpo molto desiderata dagli uomini: il culo. Qualcuno lo giudica un po' troppo grosso ed effettivamente è piuttosto ingombrante e vistoso. A Fellini è sempre piaciuto moltissimo. La prima volta che andai nel suo ufficio a Cinecittà mi salutò con una pacca sul sedere. Nel film Ginger e Fred, dove ebbi una piccola parte, ne lo fece mostrare alla macchina da presa mentre lui diceva a sua moglie: «Guarda che bel culo ha la Moana!». La Masina sorrideva...
La parte più bella della donna è il suo didietro. Seni e gambe sono sempre delle belle carte, ma sono lì. Un bel sedere va oltre: è più misterioso, segreto. E con lui una donna deve sapersi esprimere!
A me piace farmelo toccare, stringere e «usare», ma quest'ultima cosa soltanto se l'uomo è veramente esperto e sa come fare... Comunque, tengo sempre in casa un librificante veramente eccezionale che risolve tutti i problemi: «Anal Cream».
[Marco Giusti, Moana, Mondadori, 2005, pp. 190, € 15,00]
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11 agosto 2006
Il muro di Padova
A Padova è stato un gioco facile e scontato per la destra attaccare l'amministrazione comunale di sinistra (sindaco ds) per il muro innalzato nel ghetto di Via Anelli. Il gioco sarebbe avvenuto anche a parti invertite, forse anche a dosi rafforzate.
Onestamente però un ex assessore di destra, il senatore padovano di An Maurizio Saia, ricorda a tutti: «La realtà è che l'idea del muro l'avevo avuta già io, quando ero assessore comunale alla sicurezza. Era anche scritta nel nostro programma, se fossimo rimasti in Municipio l'avremmo realizzata nei primi cento giorni. Alcuni miei alleati dovrebbero capire che non è obbligatorio attaccare il centrosinistra sempre e su tutto, altrimenti si rischiano brutte figure».
Non tutti quindi, nemmeno nel centrodestra, gridano allo scandalo.
Sono almeno quindici anni che quel quartiere è diventato una "discarica" per immigrati, magrebini e nigeriani, subentrati agli studenti per i quali le palazzine erano state costruite.
Il quartiere "La Serenissima" infatti era nato negli anni '80 quando Padova, città universitaria, scoprì il business delle case per gli studenti. Appartamentini di 27 metri quadrati. Dopo la laurea i genitori, che li avevano comprati per i loro figli studenti, li hanno affidati a immobiliari e un poco alla volta alla popolazione universitaria si è sostituita quella immigrata. I fitti vanno dai 400 ai 1000 euro mensili.
Per la giunta di centro sinistra il muro è una soluzione provvisoria; la soluzione finale è l'abbattimento del ghetto. Tre delle sei palazzine a quattro piani sono state già sgombrate e i residenti trasferiti in abitazioni più idonee in altre parti della città. Ma la guerra contro i proprietari, che lucrano sui fitti, è dura. Contro gli sgomberi fioccano i ricorsi al Tar.
Il muro, tre metri di altezza per ottantaquattro di lunghezza, lastre d'acciaio spesse quattro millimetri, conficcate nel terreno per un metro e venti, è stato innalzato fra le palazzine di via Anelli e via De Besi per impedire che spacciatori e tossici entrino ed escano di lì.
I residenti padovani del versante indigeno lamentano che la notte non riescono a dormire per le liti e gli schiamazzi provenienti dall'altro versante immigrato.
L'ultima guerra fra clan è di dieci giorni fa. «Ma è una consuetudine estiva - dice Paolo Manfrin, coordinatore del comitato di quartiere dei residenti. Ogni estate gli spacciatori delle altre zone vanno in vacanza, seguendo i clienti sulle spiagge. E via Anelli rimane un punto fermo per il grande business. Le grandi risse sono solo un problema di controllo del territorio e del mercato».
Al forzista Giancarlo Galan, presidente della regione Veneto, che ha strepitato contro il "muro della vergogna", ancora Manfrin risponde a distanza: «Polemiche sterili, quel muro lo abbiamo voluto noi e le giunte di centro destra non hanno fatto niente per risolvere la situazione. Questi almeno ci stanno provando e hanno già sgomberato tre palazzine».
Un muro è sempre un diaframma. E quello di Padova bello non è: muro d'acciaio, grigio, tetro, avvilente. Ma talvolta serve.
Una storia di funzione positiva del muro l'ho vissuta sulla mia pelle. Sono stato costretto a ricorrere al Tar, contro l'amministrazione comunale del mio paese, per vedermi riconoscere il diritto alla recinzione di un mio giardino nel centro urbano. Era diventato rifugio abituale ed incontrollato di drogati. In pochissimi giorni avevo raccolto una cinquantina di siringhe. Dopo cinque anni e non pochi soldi spesi per avvocati il Tar mi ha dato ragione. Il muro è lì, alto tre metri. Non è in ferro, ma in tufi imbiancati. Per drogarsi vanno altrove. E' ovvio che la soluzione del problema dell'uso della droga è altrove.
Onestamente però un ex assessore di destra, il senatore padovano di An Maurizio Saia, ricorda a tutti: «La realtà è che l'idea del muro l'avevo avuta già io, quando ero assessore comunale alla sicurezza. Era anche scritta nel nostro programma, se fossimo rimasti in Municipio l'avremmo realizzata nei primi cento giorni. Alcuni miei alleati dovrebbero capire che non è obbligatorio attaccare il centrosinistra sempre e su tutto, altrimenti si rischiano brutte figure».
Non tutti quindi, nemmeno nel centrodestra, gridano allo scandalo.
Sono almeno quindici anni che quel quartiere è diventato una "discarica" per immigrati, magrebini e nigeriani, subentrati agli studenti per i quali le palazzine erano state costruite.
Il quartiere "La Serenissima" infatti era nato negli anni '80 quando Padova, città universitaria, scoprì il business delle case per gli studenti. Appartamentini di 27 metri quadrati. Dopo la laurea i genitori, che li avevano comprati per i loro figli studenti, li hanno affidati a immobiliari e un poco alla volta alla popolazione universitaria si è sostituita quella immigrata. I fitti vanno dai 400 ai 1000 euro mensili.
Per la giunta di centro sinistra il muro è una soluzione provvisoria; la soluzione finale è l'abbattimento del ghetto. Tre delle sei palazzine a quattro piani sono state già sgombrate e i residenti trasferiti in abitazioni più idonee in altre parti della città. Ma la guerra contro i proprietari, che lucrano sui fitti, è dura. Contro gli sgomberi fioccano i ricorsi al Tar.
Il muro, tre metri di altezza per ottantaquattro di lunghezza, lastre d'acciaio spesse quattro millimetri, conficcate nel terreno per un metro e venti, è stato innalzato fra le palazzine di via Anelli e via De Besi per impedire che spacciatori e tossici entrino ed escano di lì.
I residenti padovani del versante indigeno lamentano che la notte non riescono a dormire per le liti e gli schiamazzi provenienti dall'altro versante immigrato.
L'ultima guerra fra clan è di dieci giorni fa. «Ma è una consuetudine estiva - dice Paolo Manfrin, coordinatore del comitato di quartiere dei residenti. Ogni estate gli spacciatori delle altre zone vanno in vacanza, seguendo i clienti sulle spiagge. E via Anelli rimane un punto fermo per il grande business. Le grandi risse sono solo un problema di controllo del territorio e del mercato».
Al forzista Giancarlo Galan, presidente della regione Veneto, che ha strepitato contro il "muro della vergogna", ancora Manfrin risponde a distanza: «Polemiche sterili, quel muro lo abbiamo voluto noi e le giunte di centro destra non hanno fatto niente per risolvere la situazione. Questi almeno ci stanno provando e hanno già sgomberato tre palazzine».
Un muro è sempre un diaframma. E quello di Padova bello non è: muro d'acciaio, grigio, tetro, avvilente. Ma talvolta serve.
Una storia di funzione positiva del muro l'ho vissuta sulla mia pelle. Sono stato costretto a ricorrere al Tar, contro l'amministrazione comunale del mio paese, per vedermi riconoscere il diritto alla recinzione di un mio giardino nel centro urbano. Era diventato rifugio abituale ed incontrollato di drogati. In pochissimi giorni avevo raccolto una cinquantina di siringhe. Dopo cinque anni e non pochi soldi spesi per avvocati il Tar mi ha dato ragione. Il muro è lì, alto tre metri. Non è in ferro, ma in tufi imbiancati. Per drogarsi vanno altrove. E' ovvio che la soluzione del problema dell'uso della droga è altrove.
9 agosto 2006
Cinema: viva Roma, abbasso Venezia
Quest'anno dalla Mostra del Cinema di Venezia non mi hanno dato l'accredito culturale. Anche se, rispetto allo scorso anno quando l'accredito mi fu dato, ho presentata una documentazione più ricca. Misteri di Venezia.
Comunque mi è stato risolto un dubbio amletico. Non potendo essere ad ambo le parti, per ragioni di lavoro, dove essere: a Venezia o a Roma?
Starò quindi a Roma. Tra l'altro l'alloggio a Roma non mi costerà niente. A Venezia i dieci giorni furono un salasso.
Assisterò alla nascita della Festa del Cinema di Roma. Quasi a prosecuzione dei molto lontani trascorsi cinematografici romani, quando mi vedevo tre quattro film al giorno, quando vivevo nelle sale d'essai e nel Filmstudio, quando per la stesura della mia tesi di laurea frequentai tutti i registi del cinema d'avanguardia ed underground romani. Bei tempi, quelli. Quasi si ritorna alle origini.
Ed allora per me contano poco le polemiche fra i sostenitori di Roma e quelli di Venezia. Il cinema è sempre il cinema.
Ben vengano due o più festival del cinema, se questo offre più occasioni di vedere e fare cinema. L'Italia, nel settore, non vive giorni felici. Se aumenta la domanda di cinema, potrà aumentare anche l'offerta.
Fra Roma e Venezia, chi ha più filo da tessere, più tesserà. Per intanto l'amministrazione comunale di Veltroni ha reperito autonomamente 10 milioni di euro. Roma quindi non sottrae fondi statali a Venezia. Un appunto però è da fare. Contro i molti milioni reperiti dagli enti locali romani, quelli veneziani alla loro Mostra danno solo 160 mila euro.
Lo stile quindi e l'entusiasmo è diverso. Concordo pienamente con il presidente della Festa del Cinema di Roma, Goffredo Bettini, allorquando dice: «L' offerta di cultura genera altra cultura, la Festa di Roma non sarà né Sanremo, né una festa dell'Unità, piuttosto una fabbrica popolare, ma di qualità, aperta a tutti i linguaggi. Applicheremo al cinema lo stile Auditorium. Anche Giuliano Ferrara quando aprimmo il Parco della Musica dichiarò che si sentiva odore di salsicce, ora siamo la prima istituzione europea per spettatori paganti».
Viva Roma, abbasso Venezia. Suvvia, viva anche Venezia. Sperando che se chiederò ancora a Venezia, nei prossimi anni, un accredito, mi venga concesso. Se dopo Roma ne sentirò ancora il desiderio.
Comunque mi è stato risolto un dubbio amletico. Non potendo essere ad ambo le parti, per ragioni di lavoro, dove essere: a Venezia o a Roma?
Starò quindi a Roma. Tra l'altro l'alloggio a Roma non mi costerà niente. A Venezia i dieci giorni furono un salasso.
Assisterò alla nascita della Festa del Cinema di Roma. Quasi a prosecuzione dei molto lontani trascorsi cinematografici romani, quando mi vedevo tre quattro film al giorno, quando vivevo nelle sale d'essai e nel Filmstudio, quando per la stesura della mia tesi di laurea frequentai tutti i registi del cinema d'avanguardia ed underground romani. Bei tempi, quelli. Quasi si ritorna alle origini.
Ed allora per me contano poco le polemiche fra i sostenitori di Roma e quelli di Venezia. Il cinema è sempre il cinema.
Ben vengano due o più festival del cinema, se questo offre più occasioni di vedere e fare cinema. L'Italia, nel settore, non vive giorni felici. Se aumenta la domanda di cinema, potrà aumentare anche l'offerta.
Fra Roma e Venezia, chi ha più filo da tessere, più tesserà. Per intanto l'amministrazione comunale di Veltroni ha reperito autonomamente 10 milioni di euro. Roma quindi non sottrae fondi statali a Venezia. Un appunto però è da fare. Contro i molti milioni reperiti dagli enti locali romani, quelli veneziani alla loro Mostra danno solo 160 mila euro.
Lo stile quindi e l'entusiasmo è diverso. Concordo pienamente con il presidente della Festa del Cinema di Roma, Goffredo Bettini, allorquando dice: «L' offerta di cultura genera altra cultura, la Festa di Roma non sarà né Sanremo, né una festa dell'Unità, piuttosto una fabbrica popolare, ma di qualità, aperta a tutti i linguaggi. Applicheremo al cinema lo stile Auditorium. Anche Giuliano Ferrara quando aprimmo il Parco della Musica dichiarò che si sentiva odore di salsicce, ora siamo la prima istituzione europea per spettatori paganti».
Viva Roma, abbasso Venezia. Suvvia, viva anche Venezia. Sperando che se chiederò ancora a Venezia, nei prossimi anni, un accredito, mi venga concesso. Se dopo Roma ne sentirò ancora il desiderio.
8 agosto 2006
Grandi opere col buco
Ve lo ricordate il berlusca calare dal cielo, in elicottero, fra bandiere gonfaloni e fanfare, per tagliare nastri e farsi inquadrare da telecamere amiche?
Ve lo ricordate il berlusca piantare bandierine sulla cartina geografica per annunciare, nello studio dell'amico Vespa, come barzellete, l'inizio di grandi opere?
I componenti del trio Berlusconi-Tremonti-Lunardi annunciavano ogni giorno che avrebbero realizzato mari, monti, ponti, strade, autostrade, valichi, dorsali, corridoi, interporti, aeroporti. Tutte fantasie per buttare fumo negli occhi.
Le 253 grandi opere , annunciate in sogno dal berlusca, nel 2001 sarebbero costate 125 miliardi di euro, nel 2006 il costo era salito a 173 miliardi di euro, anzi il costo reale stimato è di 263 miliardi di euro. Tutte opere iniziate senza copertura finanziaria sufficiente. In pratica i soldi disponibili sono serviti a pagare i progettisti e a metter la prima pietra. E niente più.
Il buco delle grandi opere del berlusca sfonda i 150 miliardi di euro.
La stragrande maggioranza dei cantieri inaugurati sono ora chiusi e fermi.
Le dighe del Mose a Venezia sono in alto mare. Non si potranno mai completare.
I valichi dal Frejus al Brennero sono vicini alla paralisi.
La Salerno-Reggio Calabria è stata lasciata a metà.
Il faraonico Ponte sullo Stretto di Messina resta solo sulla carta.
Si impongono scelte prioritarie. I pochi soldi che si hanno bisogna utilizzarli per opere veramente utili e fattibili.
E per fare queste scelte bisognerebbe interpellare anche i cittadini.
Ve lo ricordate il berlusca piantare bandierine sulla cartina geografica per annunciare, nello studio dell'amico Vespa, come barzellete, l'inizio di grandi opere?
I componenti del trio Berlusconi-Tremonti-Lunardi annunciavano ogni giorno che avrebbero realizzato mari, monti, ponti, strade, autostrade, valichi, dorsali, corridoi, interporti, aeroporti. Tutte fantasie per buttare fumo negli occhi.
Le 253 grandi opere , annunciate in sogno dal berlusca, nel 2001 sarebbero costate 125 miliardi di euro, nel 2006 il costo era salito a 173 miliardi di euro, anzi il costo reale stimato è di 263 miliardi di euro. Tutte opere iniziate senza copertura finanziaria sufficiente. In pratica i soldi disponibili sono serviti a pagare i progettisti e a metter la prima pietra. E niente più.
Il buco delle grandi opere del berlusca sfonda i 150 miliardi di euro.
La stragrande maggioranza dei cantieri inaugurati sono ora chiusi e fermi.
Le dighe del Mose a Venezia sono in alto mare. Non si potranno mai completare.
I valichi dal Frejus al Brennero sono vicini alla paralisi.
La Salerno-Reggio Calabria è stata lasciata a metà.
Il faraonico Ponte sullo Stretto di Messina resta solo sulla carta.
Si impongono scelte prioritarie. I pochi soldi che si hanno bisogna utilizzarli per opere veramente utili e fattibili.
E per fare queste scelte bisognerebbe interpellare anche i cittadini.
7 agosto 2006
Movimenti neoborbonici
Nella serata di sabato 5 agosto 2006 mi sono ritrovato a presenziare ad una "Serata Tradizionalista Borbonica", dove si celebrava la "Festa dell'amicizia duosiciliana". Ero stato invitato da un recente amico, profondo conoscitore del fenomeno del brigantaggio meridionale, che diede vita attorno al 1861 ad una resistenza contro l'annessione da parte dei piemontesi delle regioni meridionali appartenenti al Regno di Napoli.
Gli studi sul brigantaggio meridionale, che sono sempre esistiti, in questi ultimi tempi hanno preso nuovo vigore. I fatti che portarono all'unità d'Italia vengono sempre più studiati anche dalla parte dei vinti.
I briganti non vengono più liquidati come comuni delinquenti, grassatori, che hanno infestato terre e masserie del sud. Vengono rivalutati all'interno di un più generale movimento politico che voleva salvaguardare gli elementi positivi dell'essere meridionali.
Variegati sono gli approcci al fenomeno del brigantaggio, preunitario e postunitario, che partono dall'estrema sinistra ed arrivano all'estrema destra. Tutti però hanno come comune denominatore il meridionalismo.
E' ovvio che è antistorico favoleggiare di secessionismo e di improbabili ritorni a passati reami. Ma queste cose, forse, non le vogliono nemmeno i neoborbonici.
Il brigantaggio ha suscitato l'interesse di cinema, stampa, televisione. E' un fenomeno di grande presa nell'immaginario collettivo.
Insieme ad un gruppo di amici stiamo organizzando, per fine settembre, una settimana di studi sul brigantaggio meridionale.
Tornerò a parlarne in questo blog.
Gli studi sul brigantaggio meridionale, che sono sempre esistiti, in questi ultimi tempi hanno preso nuovo vigore. I fatti che portarono all'unità d'Italia vengono sempre più studiati anche dalla parte dei vinti.
I briganti non vengono più liquidati come comuni delinquenti, grassatori, che hanno infestato terre e masserie del sud. Vengono rivalutati all'interno di un più generale movimento politico che voleva salvaguardare gli elementi positivi dell'essere meridionali.
Variegati sono gli approcci al fenomeno del brigantaggio, preunitario e postunitario, che partono dall'estrema sinistra ed arrivano all'estrema destra. Tutti però hanno come comune denominatore il meridionalismo.
E' ovvio che è antistorico favoleggiare di secessionismo e di improbabili ritorni a passati reami. Ma queste cose, forse, non le vogliono nemmeno i neoborbonici.
Il brigantaggio ha suscitato l'interesse di cinema, stampa, televisione. E' un fenomeno di grande presa nell'immaginario collettivo.
Insieme ad un gruppo di amici stiamo organizzando, per fine settembre, una settimana di studi sul brigantaggio meridionale.
Tornerò a parlarne in questo blog.
6 agosto 2006
Moana Pozzi pensiero 6°: la solitudine
La solitudine è stata una compagna quotidiana di Moana. Come per tutti i grandi. Moana ne era consapevole e cercava di razionalizzare questa sua situazione esistenziale. Rimuoveva i dubbi che talvolta l'assalivano sulla sua scelta di vita. Fare l'attrice di porno è un mestiere che naturalmente isola e porta ad essere condannati dai benpensanti, in pratica tutti gli uomini e donne che nel segreto del loro animo forse apprezzano ma non possono darlo ad intendere. Si parla bene e si razzola male. Moana invece sul bisogno e sul desiderio di sesso aveva il coraggio di dire quello che pensava. E per questo era condannata a restare sola. Salvo poi a fare la fila per andare a vedere un suo film porno o un suo spettacolo hard dal vivo.
La solitudine? Ci sono abituata, e poi c'è il lavoro che non mi permette di pensarci troppo...
Non ho amici. Quando sto male o quando sto bene, quando ho bisogno di parlare con qualcuno chiamo mia madre, è lei l'unica persona importante della mia vita.
Vivo giorno per giorno, non temo la solitudine, non voglio figli, non sopporterei di essere giudicata per le mie scelte di vita. Voglio restare sola com me stessa. Al massimo, se sarà possibile, con un uomo che non mi tormenti e mi accetti come sono.
Ho avuto il coraggio e ho il coraggio di vivere come mi piace, non mi è mai importato nulla, prima di tutto di quello che gli altri potessero pensare di me.
Mi piace così, mi trovo bene così e non devo niente a nessuno, non voglio niente di più di quello che mi spetta.
La normalità non mi piace, non mi ci trovo bene, affatto.
Non mi va di essere giudicata per il lavoro che faccio, i giudizi degli altri mi entrano da una parte e mi escono dall'altra.
Non mi importa di quello che la gente pensa di me e comunque nell'essere una puttana non ci vedo niente di male.
Io non ascolto nessuno. Ascolto solo me stessa.
L'ambizione mi ha sempre spinta ad andare avanti nella vita con testardaggine, metodo e volontà. Il successo mi piace e vorrei diventare un personaggio conosciuto in tutto il mondo.
Alle volte penso di aver fatto una scelta senza ritorno un po' mi pesa. Per esempio, mi sento più grande di quello che sono, praticamente non ho mai potuto vivere la mia gioventù normalmente. Qualche rimpianto ce l'ho.
[Marco Giusti, Moana, Mondadori, 2005, pp. 190, € 15,00]
Miei precedenti post su Moana
Moana Pozzi
Via Moana Pozzi - Cronache dal congresso radicale
Satira dissacrante
Moana Pozzi pornostar e spia
Moana tutta la verità - Libro
Moana Pozzi pensiero 1°: Chi sono
Moana Pozzi pensiero 2°: la giovinezza
Moana Pozzi pensiero 3°: la filosofia (collezionare vip)
Moana Pozzi pensiero 4°: educazione e sesso
Moana Pozzi pensiero 5°: sesso e pornografia
La solitudine? Ci sono abituata, e poi c'è il lavoro che non mi permette di pensarci troppo...
Non ho amici. Quando sto male o quando sto bene, quando ho bisogno di parlare con qualcuno chiamo mia madre, è lei l'unica persona importante della mia vita.
Vivo giorno per giorno, non temo la solitudine, non voglio figli, non sopporterei di essere giudicata per le mie scelte di vita. Voglio restare sola com me stessa. Al massimo, se sarà possibile, con un uomo che non mi tormenti e mi accetti come sono.
Ho avuto il coraggio e ho il coraggio di vivere come mi piace, non mi è mai importato nulla, prima di tutto di quello che gli altri potessero pensare di me.
Mi piace così, mi trovo bene così e non devo niente a nessuno, non voglio niente di più di quello che mi spetta.
La normalità non mi piace, non mi ci trovo bene, affatto.
Non mi va di essere giudicata per il lavoro che faccio, i giudizi degli altri mi entrano da una parte e mi escono dall'altra.
Non mi importa di quello che la gente pensa di me e comunque nell'essere una puttana non ci vedo niente di male.
Io non ascolto nessuno. Ascolto solo me stessa.
L'ambizione mi ha sempre spinta ad andare avanti nella vita con testardaggine, metodo e volontà. Il successo mi piace e vorrei diventare un personaggio conosciuto in tutto il mondo.
Alle volte penso di aver fatto una scelta senza ritorno un po' mi pesa. Per esempio, mi sento più grande di quello che sono, praticamente non ho mai potuto vivere la mia gioventù normalmente. Qualche rimpianto ce l'ho.
[Marco Giusti, Moana, Mondadori, 2005, pp. 190, € 15,00]
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3 agosto 2006
In Iraq la guerra continua
In Iraq la guerra continua con la sua tragica sequela di morti quotidiani. Ormai l'attenzione dell'opinione pubblica e dei mezzi di informazione è rivolta altrove. Forse questo sviamento è voluto dall'amministrazione Bush o comunque fa il gioco di Bush.
In Iraq si avvera, di giorno in giorno sempre più, quello che i pacifisti (e non solo) avevano preconizzato fin dal primo giorno di guerra. L'intervento americano non avrebbe fatto diminuire il terrorismo, anzi l'avrebbe accresciuto. E' quello che è avvenuto in Iraq.
L'ammissione di questo scontato fallimento viene ormai fatta anche da uomini ed istituzioni ufficiali.
L'ambasciatore britannico in Iraq, William Patey, in un rapporto confidenziale inviato al governo di Londra, ha scritto: «L'eventualità di una guerra civile a bassa intensità e una divisione de facto dell'Iraq in questa fase è probabilmente più verosimile di una riuscita e salda transizione verso una democrazia stabile».
Vi ricordate della tragica contraddizione dell'esportazione ed imposizione della democrazia, di cui favoleggiava Bush per giustificare l'invasione dell'Iraq? Miseramente ed ovviamente fallita.
Nel rapporto di Patey, che smentisce l´ottimismo ufficiale dell´amministrazione Blair sull´Iraq, si prevede che l'Iraq rimarrà «nel caos e in difficoltà» per cinque, dieci anni a venire e che la prospettiva per il Paese è che venga smembrato sulla base delle divisioni etniche e tribali.
«Se vogliamo evitare - dice ancora l'ambasciatore - una guerra civile e uno stato di anarchia allora deve essere prioritario scongiurare che l'Esercito al Mahdi (milizie legate al leader radicale sciita Muqtada al Sadr) diventi uno Stato nello Stato, come gli Hezbollah in Libano».
Altro che lotta al terrorismo.
Ed intanto due bombe hanno provocato ieri a Bagdad, nella zona sudovest della capitale, la morte di 12 persone, per lo più bambini, e il ferimento di altre 14: la strage è avvenuta mentre un gruppo di ragazzini stava giocando a calcio.
E sempre ieri, nel tardo pomeriggio, tre bambini che stavano giocando a pallone erano stati uccisi per l'esplosione di un proiettile di mortaio a Doura, altro quartiere sciita di Baghdad, nella zona sud.
In Iraq si avvera, di giorno in giorno sempre più, quello che i pacifisti (e non solo) avevano preconizzato fin dal primo giorno di guerra. L'intervento americano non avrebbe fatto diminuire il terrorismo, anzi l'avrebbe accresciuto. E' quello che è avvenuto in Iraq.
L'ammissione di questo scontato fallimento viene ormai fatta anche da uomini ed istituzioni ufficiali.
L'ambasciatore britannico in Iraq, William Patey, in un rapporto confidenziale inviato al governo di Londra, ha scritto: «L'eventualità di una guerra civile a bassa intensità e una divisione de facto dell'Iraq in questa fase è probabilmente più verosimile di una riuscita e salda transizione verso una democrazia stabile».
Vi ricordate della tragica contraddizione dell'esportazione ed imposizione della democrazia, di cui favoleggiava Bush per giustificare l'invasione dell'Iraq? Miseramente ed ovviamente fallita.
Nel rapporto di Patey, che smentisce l´ottimismo ufficiale dell´amministrazione Blair sull´Iraq, si prevede che l'Iraq rimarrà «nel caos e in difficoltà» per cinque, dieci anni a venire e che la prospettiva per il Paese è che venga smembrato sulla base delle divisioni etniche e tribali.
«Se vogliamo evitare - dice ancora l'ambasciatore - una guerra civile e uno stato di anarchia allora deve essere prioritario scongiurare che l'Esercito al Mahdi (milizie legate al leader radicale sciita Muqtada al Sadr) diventi uno Stato nello Stato, come gli Hezbollah in Libano».
Altro che lotta al terrorismo.
Ed intanto due bombe hanno provocato ieri a Bagdad, nella zona sudovest della capitale, la morte di 12 persone, per lo più bambini, e il ferimento di altre 14: la strage è avvenuta mentre un gruppo di ragazzini stava giocando a calcio.
E sempre ieri, nel tardo pomeriggio, tre bambini che stavano giocando a pallone erano stati uccisi per l'esplosione di un proiettile di mortaio a Doura, altro quartiere sciita di Baghdad, nella zona sud.
2 agosto 2006
Guerra ai bambini
I bambini vengono ammazzati senza pietà, in Libano e nella Striscia di Gaza. Lo denuncia l'Unicef, l'agenzia dell'Onu per l'infanzia.
L'attacco israeliano a Cana dimostra in modo drammatico che, come sempre, sono i bambini a pagare per la guerra. Senza alcuna colpa e senza nessuna responsabilità propria.
Le loro morti sono il più grande oltraggio all'umanità, alla natura, a dio.
Gli adulti guerrafondai tentano di salvarsi la coscienza dicendo che sono i necessari effetti collaterali della macelleria delle guerre.
Le bombe e le armi israeliane hanno ammazzato, nei ventuno giorni di guerra contro il Libano, già 200 bambini, su 820 morti. In 3.200 sono i bambini feriti.
L'Unicef stima anche che circa il 45% delle persone sfollate siano bambini.
Drammatico è anche il numero di vittime tra i bambini palestinesi a causa dell'interveto armato israeliano. Nei territori palestinesi sono stati uccisi 63 minori nel corso di questo anno.
Inoltre «l'aumentato livello di violenza costringe i bambini a vivere in una situazione di paura ed insicurezza costante», denuncia ancora l'Unicef.
Molto gravi sono, inoltre, i traumi psicologici provocati ai bambini per la perdita di familiari ed amici, lo shoch causato dai bombardamenti e dalla operazioni militari.
Salvate i bambini. Basta con le guerre.
L'attacco israeliano a Cana dimostra in modo drammatico che, come sempre, sono i bambini a pagare per la guerra. Senza alcuna colpa e senza nessuna responsabilità propria.
Le loro morti sono il più grande oltraggio all'umanità, alla natura, a dio.
Gli adulti guerrafondai tentano di salvarsi la coscienza dicendo che sono i necessari effetti collaterali della macelleria delle guerre.
Le bombe e le armi israeliane hanno ammazzato, nei ventuno giorni di guerra contro il Libano, già 200 bambini, su 820 morti. In 3.200 sono i bambini feriti.
L'Unicef stima anche che circa il 45% delle persone sfollate siano bambini.
Drammatico è anche il numero di vittime tra i bambini palestinesi a causa dell'interveto armato israeliano. Nei territori palestinesi sono stati uccisi 63 minori nel corso di questo anno.
Inoltre «l'aumentato livello di violenza costringe i bambini a vivere in una situazione di paura ed insicurezza costante», denuncia ancora l'Unicef.
Molto gravi sono, inoltre, i traumi psicologici provocati ai bambini per la perdita di familiari ed amici, lo shoch causato dai bombardamenti e dalla operazioni militari.
Salvate i bambini. Basta con le guerre.
1 agosto 2006
Scopatevi una robot
L'ultimo numero de L'espresso (n.30/2006) porta nella copertina agostana una foto di due donne, troppo belle per essere vere. Ed infatti si tratta di due meravigliosi robot dalle forme femminili.
Si è parlato di questi speciali androidi a Genova, durante cinque giornate di studi, all'Euron Roboethics Atélier. Sono macchine create per dare piacere, al posto "degli obsoleti giocattoli", quali i vibratori elettrici e le bambole gonfiabili.
Lo scienziato inglese David Levy, di 61 anni, ha detto: «Il futuro della robotica passa anche per le sex machines. Sono convinto che presto i robot diventeranno partner sessuali per un vastissimo numero di persone. Per averne un'idea, basta vedere come sono diventati popolari i vibratori o le bambole e immaginare quanto più divertente ed eccitante potrebbe essere per una persona possedere un robot che, oltre al resto, è in grado di stringerla tra le braccia, baciarla e magari dirle pure qualche frase romantica o erotica. Le persone saranno libere di scegliere le caratteristiche fisiche e l'aspetto del loro partner artificiale, esattamente come ora scegliamo molti prodotti da un catalogo sul Web».
Ma per ora costano ancora troppo. Michael Harriman, un meccanico aeronautico tedesco, ha costruito Andy, umanoide femmina, che vende in internet al prezzo di euro 5.280. Gli esemplari vengono costruiti artigianalmente a mano uno per uno. Andy ha al suo interno un cuore artificiale che accelera i battiti durante il rapporto sessuale, un radiatore che alza la temperatura corporea a simulare l'eccitazione, uno speaker collegato al cuore artificiale che produce ansimi in modo direttamente proporzionale al ritmo dell'amplesso, un dispositivo azionabile in remoto per muovere i fianchi, un sistema per l'emissione di finte secrezioni vaginali e un silicone ultra morbido che riproduce la sensazione del contatto con la pelle umana. E'dotata anche di un microchip nelle orecchie: basta pronunciare alcune frasi standard e Andy amorevolmente risponde al suo interlocutore umano. E' alta un metro e cinquantanove, pesa 38 chili. Ma è in arrivo la top model Linny (1,85 metri).
Per ovviare a questi prezzi spropositati, in Giappone sono già in funzione degli speciali hotel dell'amore dove con circa 85 euro ci si può intrattenere poco più di un'ora con una Venere sintetica.
E' iniziato l'attacco alla tradizionale prostituzione.
Riccardo Campa, docente di Sociologia della Scienza all'Università di Cracovia, nel convegno ha detto: «Ci sarà un momento in cui i robot saranno quasi indistinguibili dagli esseri umani, ma più belli e privi di difetti. A quel punto, il loro utilizzo anche a fini sessuali sarà inevitabile».
Henrik Christensen, docente di Robotica all'Università di Stoccolma, prevede che «entro cinque anni al massimo la gente comincerà a far sesso con i robot e l'esperienza diventerà sempre più appagante quando queste macchine impareranno dalla loro stessa esperienza».
Ma allora cominceranno i problemi, anche le bambole al silicone potrebbero ribellarsi.
E non esistono solo le androidi femmine, vi sono anche gli androidi maschi per il piacere delle donne.
Chissà di tutto questo cosa ne pensa Ruini (per dire la chiesa cattolica)?
Si è parlato di questi speciali androidi a Genova, durante cinque giornate di studi, all'Euron Roboethics Atélier. Sono macchine create per dare piacere, al posto "degli obsoleti giocattoli", quali i vibratori elettrici e le bambole gonfiabili.
Lo scienziato inglese David Levy, di 61 anni, ha detto: «Il futuro della robotica passa anche per le sex machines. Sono convinto che presto i robot diventeranno partner sessuali per un vastissimo numero di persone. Per averne un'idea, basta vedere come sono diventati popolari i vibratori o le bambole e immaginare quanto più divertente ed eccitante potrebbe essere per una persona possedere un robot che, oltre al resto, è in grado di stringerla tra le braccia, baciarla e magari dirle pure qualche frase romantica o erotica. Le persone saranno libere di scegliere le caratteristiche fisiche e l'aspetto del loro partner artificiale, esattamente come ora scegliamo molti prodotti da un catalogo sul Web».
Ma per ora costano ancora troppo. Michael Harriman, un meccanico aeronautico tedesco, ha costruito Andy, umanoide femmina, che vende in internet al prezzo di euro 5.280. Gli esemplari vengono costruiti artigianalmente a mano uno per uno. Andy ha al suo interno un cuore artificiale che accelera i battiti durante il rapporto sessuale, un radiatore che alza la temperatura corporea a simulare l'eccitazione, uno speaker collegato al cuore artificiale che produce ansimi in modo direttamente proporzionale al ritmo dell'amplesso, un dispositivo azionabile in remoto per muovere i fianchi, un sistema per l'emissione di finte secrezioni vaginali e un silicone ultra morbido che riproduce la sensazione del contatto con la pelle umana. E'dotata anche di un microchip nelle orecchie: basta pronunciare alcune frasi standard e Andy amorevolmente risponde al suo interlocutore umano. E' alta un metro e cinquantanove, pesa 38 chili. Ma è in arrivo la top model Linny (1,85 metri).
Per ovviare a questi prezzi spropositati, in Giappone sono già in funzione degli speciali hotel dell'amore dove con circa 85 euro ci si può intrattenere poco più di un'ora con una Venere sintetica.
E' iniziato l'attacco alla tradizionale prostituzione.
Riccardo Campa, docente di Sociologia della Scienza all'Università di Cracovia, nel convegno ha detto: «Ci sarà un momento in cui i robot saranno quasi indistinguibili dagli esseri umani, ma più belli e privi di difetti. A quel punto, il loro utilizzo anche a fini sessuali sarà inevitabile».
Henrik Christensen, docente di Robotica all'Università di Stoccolma, prevede che «entro cinque anni al massimo la gente comincerà a far sesso con i robot e l'esperienza diventerà sempre più appagante quando queste macchine impareranno dalla loro stessa esperienza».
Ma allora cominceranno i problemi, anche le bambole al silicone potrebbero ribellarsi.
E non esistono solo le androidi femmine, vi sono anche gli androidi maschi per il piacere delle donne.
Chissà di tutto questo cosa ne pensa Ruini (per dire la chiesa cattolica)?
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