21 marzo 2016

Il brigantaggio postunitario in Terra di Lavoro, di Angelo D’Ambra


Libro snello, di sole 96 pagine, ma interessante per conoscere i fatti fondamentali del brigantaggio postunitario in Terra di Lavoro.
     Terra di Lavoro nel 1860 era un vasto territorio (provincia), situato a nord di Napoli, che comprendeva cinque distretti: Caserta (capoluogo), Gaeta, Sora, Nola, Piedimonte. La superfice complessiva era di circa 6.455 chilometri quadrati e gli abitanti 792.000. All’indomani del febbraio 1861, quando venne creata la provincia di Benevento, i comuni in Terra di Lavoro da 237 divennero 184.
     L’economia, che era prevalentemente agricola e pastorale, ma anche manifatturiera e industriale, faceva di questa provincia la più ricca del Regno delle Due Sicilie. Vere e proprie perle erano le aziende manifatturiere di San Leucio e di Piedimonte. Si stima che l’industria desse lavoro a più di 3.000 operai.
     Le sue montagne e foreste lo resero un luogo adatto alla guerriglia dei briganti.
     La sterminata documentazione, conservata presso l’Archivio di Stato di Caserta, scrive D’Ambra, sconfessa, singolarmente prese, le tre storiche letture che vengono date del brigantaggio, quella liberale-crociana che vede nel brigantaggio semplice delinquenza, quella marxista-gramsciana che individua nel brigantaggio la lotta di classe dei contadini, e quella legittimista che propone il brigantaggio come resistenza alla cacciata dei Borbone; nel brigantaggio infatti sono presenti contemporaneamente i tre aspetti: politico, sociale, delinquenziale, che debolmente si distinguono fra di loro accentuando ora l’uno ora l’altro.
     Il malcontento dei contadini delusi, impoveriti ed oppressi dai nuovi aggravi fiscali, dice ancora D’Ambra, incontrò l’ardore dei soldati del disciolto esercito borbonico e la devozione dei numerosi sostenitori dei Borbone.
     Il plebiscito con il quale si sancì l’annessione del Regno delle Due Sicilie al Regno sabaudo fu in realtà una truffa. Il voto fu palese. Pochi erano gli iscritti ed alta fu l’astensione. In molti Comuni non si votò per niente.
     Anche se il brigantaggio era disorganizzato, i suoi effetti allarmarono considerevolmente le autorità sabaude dei cinque distretti di Terra di Lavoro. Molte furono le bande armate brigantesche, i cui componenti variavano da dieci a duecento unità. I briganti erano ovunque in azione. Le loro azioni sono prevalentemente tratte dai verbali e dai telegrammi delle prefetture e dai proclami sia di parte piemontese che brigantesca.
     Nel libro sono sintetizzate le più importanti rivolte contadine e l’operato dei più famosi capi briganti. Viene anche riferito del doppio gioco del ceto aristocratico e della Guardia Nazionale. Si parla della quasi totale adesione del ceto ecclesiastico al movimento borbonico.
     Nei territori di Sora e Gaeta i briganti capeggiati da Luigi Alonzi, detto Chiavone, dettero grande filo da torcere all’esercito piemontese. La banda Chiavone, che nei momenti di maggior auge raggiunse i duemila uomini, era equipaggiata con fucili e carabine moderne, nonché quattro cannoni di montagna; sul finire del 1861 fu riorganizzata e divisa in otto compagnie; in essa vi erano anche sette trombettieri ed un sacerdote. I briganti di Chiavone erano in grado di marciare in modo regolare, eseguire azioni dimostrative, diversioni di posizione e attacchi disciplinati.
     Nel novembre 1861 la banda Chiavone, che contava circa 400 uomini, subì una grave sconfitta ad opera dell’esercito piemontese; una sessantina di briganti furono presi e fucilati. In quello stesso mese arrivò da Roma Rafael Tristany, mandato per assumere il ruolo di capo delle varie bande. Ma tra lo spagnolo Tristany e il capobrigante Chiavone scoppiò subito una grande inimicizia, che porterà alla fucilazione da parte dello spagnolo del capobrigante.
     All’inizio del decennio postunitario operarono in Terra di Lavoro anche i fratelli Cipriano, Giona e Domenico Della Gala evasi, nell’agosto del 1860, dal carcere di Castellammare; erano stati arrestati insieme ad altri nel 1854. La loro evasione segnò l’inizio del brigantaggio nel distretto di Nola. La loro banda, che raggiunse le cinquecento unità, si distinse per l’occupazione di vari paesi del circondario, per grassazioni, ma soprattutto per attacchi alle carceri; il 16 giugno 1861 liberarono cinquantasei (secondo altre cronache novantanove) detenuti dal carcere di Caserta.
     Il 18 dicembre 1861 la banda Della Gala subì, sull’Appennino tra la Valle Caudina e l’Agro Nolano, una pesantissima sconfitta; morirono centosessantatre uomini. Fu allora che Cipriano costituì quattro distinti nuclei.
     Ma la fine dei Della Gala era ormai vicina. Il 10 luglio 1863 furono arrestati, sulla nave francese Aunis, Cipriano e Giona e tre loro gregari: Pasquale D’Avanzo, Domenico Papa e Angelo Sarno. Ne nacque un caso diplomatico. Prima furono consegnati ai francesi e poi estradati in Italia. Processati i due fratelli furono condannati a morte (pena poi commutata nel carcere a vita), lavori forzati a vita per Papa, venti anni per D’Avanzo; nulla si sa del Sarno.
     Altri capi briganti della Terra di Lavoro, di cui si parla nel libro, sono Libero Albanese, Antonio Pace, Domenico Fuoco, Francesco Tommasini, Francesco Guerra, Luigi Andreozzi.
     Il brigantaggio, conclude D’Ambra, non ebbe alcuno sbocco politico, fu vinto con una repressione sanguinaria da parte piemontese, ma restarono vive le problematiche che lo avevano alimentato. Le aspettative di miglioramento sociale ed individuale finirono con l’essere riposte non più nella speranza di un ritorno del Borbone sul trono di Napoli, ma in un cambiamento strutturale della società, dell’ordine politico ed economico.
Rocco Biondi
    
Angelo D’Ambra, Il brigantaggio postunitario in Terra di Lavoro, Delta 3 Edizioni, Grottaminarda (Avellino) 2010, pp. 96, € 10,00

15 marzo 2016

Briganti e insorgenze: Gimigliano 1799-1874, di Alessandro Calogero



Gimigliano è un paese calabrese, in provincia di Catanzaro, che nel 1861 aveva circa 4.200 abitanti ed oggi ne conta circa 3.400; era collocato nella Calabria Ultra II.
     È stato interessato dal brigantaggio, ma su questo fenomeno nel paese, prima del libro di Alessandro Calogero, vi era un vuoto storiografico: nulla nella memoria popolare e quasi del tutto assente la bibliografia.
     Calogero, nella presentazione del libro, scrive che parlando di brigantaggio, si parla di briganti-sociali, di briganti-insorgenti, di briganti-criminali. E questi tre aspetti sono strettamente interconnessi tra di loro; in tutti e tre i casi si usa la forza per produrre un cambiamento. Quando la violenza è la regola, si assottiglia il confine tra morale e immorale, tra lecito e illecito. E questo vale anche per chi reprime, anch’esso trascende in condotte criminali.
     Oppressioni, insorgenze, repressione, devianza criminale rappresentano, scrive Calogero, «una sequenza, un canovaccio, anzi un copione ripetuto sul quale sono scritti tutti i movimenti, le speranze e gli orrori degli uomini».
     Nel libro vengono messe a fuoco storie locali mai scritte, si segnala come l’insorgenza gimiglianese fu una realtà con un proprio carattere.
     Si parla dei briganti, nati a Gimigliano, che operarono nei vari periodi: tre nel periodo sanfedista (fra essi Panzinero e Gàlano), dieci in quello napoleonico (più importanti Abramo e Soluri), sei in quello borbonico (fra essi Diego Mazza e Giuseppe Guzzo), trentacinque nel periodo postunitario (più importanti Pietro Bianchi, Giuseppe Critelli, Nicola Chiarella, Odoardo Trapasso, Raffaele Paonessa, Gesualdo Donato, Erasmo Rotella).
     Un ruolo particolare ebbero mogli e amanti dei briganti: Maria Giuseppa Itria (moglie del Donato), Vittoria Merenda Soluri (10 figli: 8 femmine e 2 maschi), Giuditta Rotundo (7 figli: 6 femmine e 1 maschio), Rachele Rotella (detta la Generalessa).
     Quello che Calogero scrive di Gimigliano rappresenta uno spaccato locale di quello che accadeva nei paesi delle province meridionali. Ben vengano quindi i libri con le storie locali dei briganti. Messe insieme queste storie si ha la percezione del clima e del vissuto comune di allora.
     Nel periodo postunitario, scrive Calogero, furono mandati nel Sud a combattere i briganti oltre 120.000 soldati, a cui si aggiunsero 84.000 uomini della Guardia Nazionale e 7.500 carabinieri. In totale quindi le forze impegnate contro i briganti furono circa 211.000.
     Era una forza imponente che si opponeva ad altrettanta forza. Si calcola infatti, scrive ancora Calogero, che gli uomini delle bande fossero 135-140.000.
     Alla fine, la cosiddetta tattica della persecuzione incessante ebbe la meglio, ma il bilancio fu spaventoso. Dal 1861 al 1870, si contarono 123.860 giustiziati, 130.364 feriti, 43.629 deportati, 10.760 condannati all’ergastolo e 382.637 a pene varie. Anche da parte piemontese le perdite furono cospicue, con 21.120 caduti, 1.073 morti per malattie o ferite, 820 dispersi.
     I deportati, scrive Calogero in una nota, furono soprattutto ex soldati borbonici, condotti nei famigerati campi di Fenestrelle e S. Maurizio Canavese.
     Quella contro il brigantaggio fu dunque una guerra fratricida, alla quale parteciparono anche i meridionali, contrapponendo paesani a paesani.
     Alla fine del libro sarebbe stato significativo riportare episodi briganteschi presenti nella tradizione orale; ma sembra, dice l’autore, che a Gimigliano, nello spazio di appena 4-5 generazioni, tutto sia stato cancellato. Nulla è rimasto del vissuto collettivo di allora, nulla dei nessi familiari e dei nomi stessi.
     Si è ricorso alla consultazione archivistica, ai giornali d’epoca, ai periodici, alle interviste. Anche se a volte i dati sono frammentari, i personaggi sono emersi comunque, così come il quadro d’insieme, i rapporti, il tessuto sociale.
     Alessandro Calogero è nato a Gimigliano nel 1945 e vive a Taranto. Neurologo. Professore a contratto dell’Università di Bari dal 1997 al 2009.
Rocco Biondi

Alessandro Calogero, Briganti e insorgenze. Gimigliano 1799-1874, Artebaria Edizioni, Taranto 2012, pp. 214, € 18,00

9 marzo 2016

Il Sud dalla Borbonia felix al carcere di Fenestrelle, di Gennaro De Crescenzo



Il libro è una risposta pacata e puntigliosa alle tesi presenti in altri due libri scritti da professori universitari, quello di Renata De Lorenzo sulla Borbonia felix e quello di Alessandro Barbero sui prigionieri dei Savoia.
     Essi, scrive Lorenzo Del Boca nella prefazione, sono stati trattati da Gennaro De Crescenzo come i pifferi di montagna che andarono per suonare e vennero suonati. Le loro tesi e affermazioni sono state sminuzzate, dimostrandone l’infondatezza, la parzialità e la partigianeria.
     La visione manichea del Risorgimento glorioso non regge più. La storia “vera”, e non una leggenda tramandata per sentito dire, gli Alianello, i Pedìo, i Molfese, gli Zitara hanno cominciato a raccontarla.
     Né, scrive De Crescenzo, «si può accettare che qualcuno crei ostacoli a questo inarrestabile processo di riappropriazione di verità storica, memoria e radici necessario alle nostre future, fiere, consapevoli e finalmente adeguate classi dirigenti».
     Il movimento neoborbonico, del quale Gennaro De Crescenzo è presidente, e tanti veri meridionalisti non vivono di nostalgia e non sperano nel ritorno di un re, ma vogliono ricostruire la memoria storica e preparare le future classi dirigenti, che facciano veramente gli interessi del Sud.
     Gli storici accademici, dei quali Barbero e la De Lorenzo sono degni rappresentanti, ritenendo di essere loro i depositari della verità, irridono gli storici irregolari e si sentono autorizzati a ripetere le tradizionali falsità, senza portare una almeno sufficiente documentazione (cosa peraltro impossibile).
     Ma nel mondo accademico vi sono sempre più studiosi che si avvicinano alle tesi degli storici irregolari. Il prof. Eugenio Di Rienzo, per esempio, riconosce il grande supporto britannico nell’abbattimento del Regno delle Due Sicilie. Solo ipotesi, dicono gli storici accademici. Ma gli storici irregolari ritengono che quella di Di Rienzo sia «una tesi dimostrata e documentata e per giunta contestualizzata sincronicamente e diacronicamente ed è una tesi che smantella gran parte delle storie e dei miti garibaldini, risorgimentali e antiborbonici».
     Altro motivo di irrisione da parte degli storici accademici è l’affermazione che gli storici irregolari fanno dei primati esistenti nel Regno delle Due Sicilie, rispetto agli altri Stati esistenti in Italia al momento dell’unificazione. Ma Vito Tanzi (del Fondo Monetario Internazionale), in suoi documentatissimi studi, «denuncia con chiarezza e dati la situazione preunitaria fallimentare piemontese confrontandola con quella positiva delle Due Sicilie»; Stéphanie Collet (dell’Università di Bruxelles) sostiene che, all’atto dell’unificazione e dal punto di vista finanziario, le Due Sicilie erano come la Germania di oggi; i prof. Fenoaltea e Ciccarelli (per la Banca d’Italia) sostengono che nel 1860 l’industrializzazione nelle Due Sicilie era pari e, in alcune aree, superiore a molte aree del centro-nord; lo stesso De Crescenzo, presso il fondo Ministero Agricoltura Industria e Commercio, ha verificato che nel Mezzogiorno continentale esistevano oltre 5.000 fabbriche.
     Due temi poi sono ricorrenti nella storiografia ufficiale: quello della ferocia delle repressioni borboniche e quello dell’analfabetismo delle popolazioni meridionali. Per confutare il primo basta riferire che, dopo la rivoluzione del 1848, non furono eseguite condanne a morte nel Regno delle Due Sicilie (eccetto quella di Agesilao Milano attentatore di Ferdinando II), mentre nel “civilissimo” Piemonte, nel solo periodo 1851-1855, vi furono 113 esecuzioni. Per quanto riguarda il tema del Sud “analfabeta”, nessuno storico ufficiale mette in risalto la parzialità dei dati (i documenti originali sono da anni spariti) e la scarsa attendibilità di quel censimento realizzato in pieno caos amministrativo; un dato però è certo: nelle università duosiciliane vi erano 10.528 iscritti, mentre nel resto d’Italia gli iscritti erano complessivamente 5.203, «e questi dati non possono che essere il frutto evidente di una scolarizzazione oggettiva e diffusa»; quando poi le scuole del Sud verranno chiuse dai piemontesi per oltre un decennio, è ovvio che le percentuali degli analfabeti qui aumenteranno.
     Altro tema molto discusso dagli storici accademici, sminuendolo, è quello del Brigantaggio; ma esso ebbe una grande incidenza nella guerra contro il Regno delle Due Sicilie se furono necessari oltre 200.000 soldati per sconfiggerlo. La rivolta dei briganti, secondo De Crescenzo, assunse chiare connotazioni di carattere politico-legittimistico prevalenti su tutte le altre connotazioni. Questa repressione violenta e feroce contro i briganti e contro le popolazioni del Sud durò oltre dieci anni; non è logica la censura operata da parte della storiografia ufficiale, che ammette che queste rivolte furono “anche” politiche “ma solo fino al 1865”, divenendo dopo questo anno delinquenza comune.
     Non regge poi l’affermazione degli storici ufficiali del grande contributo che i meridionali avrebbero dato al processo di unificazione. Di quali consensi parliamo, si chiede tra l’altro De Crescenzo, se la stessa De Lorenzo scrive che 71 su 81 sedi vescovili erano vacanti per le persecuzioni garibaldino-sabaude?
     Ed ancora prima del 1860 dal Regno delle Due Sicilie non partiva nessuno, mentre altrove nel resto dell’Italia e dell’Europa si emigrava; l’emigrazione dal Sud cominciò dopo quell’anno.
     La seconda parte del libro di De Crescenzo è dedicato al “genocidio” dei soldati e delle popolazioni meridionali all’indomani del 1860. Vengono controbattute sia le affermazioni presenti nel libro di Barbero che quelle fatte dallo stesso nel confronto di Bari con De Crescenzo il 5 dicembre 2012, in occasione della presentazione del libro I prigionieri dei Savoia. La vera storia della congiura di Fenestrelle di Alessandro Barbero presso la libreria Laterza (a quell’incontro io partecipai).
     Vengono contestati i numeri bassissimi dei soldati napoletani che secondo Barbero furono deportati e di quelli che morirono nel carcere di Fenestrelle, vicino Torino. Mentre De Crescenzo ritiene, documentandolo, che furono circa 60.000 i soldati meridionali deportati. Barbero ha visto i documenti di pochissimi archivi e non ha visitato nessun archivio meridionale e napoletano. Non è mai possibile non considerare il ruolo e l’importanza delle fonti dell’opposizione se si vuole un quadro completo ed esauriente di una situazione storica.
     Mi piace chiudere questa recensione con delle frasi del libro Terroni di Pino Aprile, che De Crescenzo riporta nel suo libro: l’unificazione portò al Sud “fucilazioni in massa, fosse comuni, paesi che bruciavano, profughi in marcia o campi di concentramento e sterminio in Europa… Io non sapevo che i piemontesi fecero al Sud quello che i nazisti fecero a Marzabotto. Ma tante volte, per anni”.
Rocco Biondi

Gennaro De Crescenzo, Il Sud dalla Borbonia felix al carcere di Fenestrelle, perché non sempre la storia è come ce la raccontano, prefazione di Lorenzo Del Boca, Magenes Editoriale, Milano 2014, pp. 150, € 12,00