Il grande sogno del '68 è rimasto un puro sogno. I sognatori di allora si sono quasi tutti integrati e sono stati fagocitati dal capitalismo borghese.
Chi ha vissuto direttamente quegli anni potrebbe non riconoscersi o non volersi riconoscere nelle storie come raccontate nel film.
Chi è nato dopo quegli anni potrebbe dedurne un'idea sbagliata della realtà.
Io, che in quegli anni frequentavo l'Università a Roma e che nel '69 partecipai attivamente all'occupazione dell'università internazionale Pro Deo di Padre Morlion, ne ho un ricordo un po' diverso.
Rocco Biondi
Trama
Il grande sogno è un film ambientato in Italia nel 1968, quando i giovani sognavano di cambiare il mondo, quando le regole venivano infrante, l’amore era libero e tutto sembrava possibile. Nicola è un bel giovane pugliese che fa il poliziotto ma sogna di fare l'attore, e si trova a dover fare l'infiltrato nel mondo studentesco in forte fermento. All'università incontra Laura una ragazza della buona borghesia cattolica, brillante e appassionata studentessa che sogna un mondo senza ingiustizie, e Libero, uno studente operaio, leader del movimento studentesco che sogna la rivoluzione. Tra i tre nascono sentimenti e forti passioni e Laura - sedotta da entrambi - dovrà scegliere chi dei due amare. Anche i fratelli minori di Laura, Giulio e Andrea, sentendosi coinvolti dal clima di contestazione, portano lo scompiglio in famiglia.
Il personaggio di Nicola è ispirato alla gioventù di Michele Placido che si trasferì a Roma dalla Puglia per diventare attore e che per guadagnarsi da vivere entrò nel corpo della Polizia prima di frequentare l'Accademia di arte drammatica.
Interpreti e personaggi
Luca Argentero: Libero
Riccardo Scamarcio: Nicola
Jasmine Trinca: Laura
Michele Placido: Andrea
Laura Morante: Maddalena
Massimo Popolizio: Domenico
Dajana Roncione: Isabella
Alessandra Acciai: Francesca
Marco Iermanò: Andrea
Brenno Placido: Giulio
Crediti e note
Regia: Michele Placido
Sceneggiatura: Doriana Leondeff, Angelo Pasquini, Michele Placido
Fotografia: Arnaldo Catinari
Montaggio: Consuelo Catucci
Musiche: Nicola Piovani
Scenografia: Francesco Frigeri
Costumi: Claudio Cordaro
Paese: Italia
Anno: 2009
Produttore: Pietro Valsecchi
Casa di produzione: Taodue Film S.r.l.
Distribuzione: Medusa
Durata: 101 min
Data uscita in Italia: 11 settembre 2009
Genere: drammatico, storico
Mostra del cinema di Venezia 2009
PREMIO MASTROIANNI ATTORE/ATTRICE EMERGENTE
Jasmine Trinca
Trailer
20 settembre 2009
13 settembre 2009
Briganti e società nell'Ottocento: il caso Calabria, di Alfonso Scirocco
Alfonso Scirocco è un intellettuale che, dalla sua cattedra di Storia del Risorgimento nell'Università di Napoli, ha contribuito a rinverdire il falso mito del Risorgimento e di Garibaldi.
Il suo interesse per il Brigantaggio è strumentale e funzionale alla dimostrazione che i Piemontesi non avevano altro strumento per estirparlo che la repressione.
Per lui «i briganti sono autentici professionisti del crimine, che sono riusciti a sfuggire a lungo alla cattura o all'uccisione per la debolezza dell'apparato repressivo».
Anche se spesso pare cadere in contraddizione. Nella premessa al suo libro Scirocco afferma di prendere le mosse per la sua analisi sul brigantaggio dagli studi di Hobsbawm e Molfese, ma per dire subito che il brigantaggio non fu una reazione borbonico-clericale e nemmeno un fenomeno politico-militare. Ma in tutte le pagine che seguono vuol dimostrare che il brigantaggio non ebbe nemmeno carattere sociale. Si vuole comunque salvare la coscienza scrivendo, a chiusa del suo libro, «nei fatti ai sequestri, ai ricatti, ai vandalismi dei briganti, lo Stato sistematicamente risponde con una violenza diversamente motivata, ma non meno cieca, e quindi sterile».
Come altri libri di autori che scrivono per minimizzare e screditare i briganti, anche questo di Scirocco può essere utile a chi ritiene che i briganti non furono comuni delinquenti ma espressione di un movimento di liberazione (anche se non sempre consapevole) dalla oppressione e dalla miseria. In quei libri si possono trovare notizie e fonti che, lette con un'ottica diversa, fanno capire l'estensione del fenomeno brigantaggio, che in alcuni periodi diventa quasi di massa, e che fa dedurre che un intero popolo non può essere diventato criminale.
Il libro, che vorrebbe dimostrare un'ininterrotta continuità della persistenza del brigantaggio nella Calabria in tutti i primi settanta anni dell'Ottocento in forme e modi quasi sempre uguali, si divide in quattro capitoli.
I periodi storici che vengono affrontati partono dal 1799 quando il cardinale Ruffo sconfisse la Repubblica partenopea riconsegnando Napoli a Ferdinando IV di Borbone, proseguono con il decennio francese (1806-1815) di Giuseppe Bonaparte e Gioacchino Murat, la restaurazione borbonica fino al 1860, la fine del Regno delle Due Sicilie, il Regno dei Savoia ed il decennio postunitario (1860-1870).
Nel primo capitolo si accenna ai briganti Angelo Paonessa (Panzanera), Arcangelo Scozzafava (Galano), Natale Di Pascale (Cavalcante), Lorenzo Benincasa, Francesco Muscato (Bizzarro), Paolo Mancuso (Parafante). Per reprimerli fu mandato da Murat in Calabria il feroce generale Manhès.
Altri briganti: Vito Caligiuri, Carlo Cironte, Nicola Mazza (Carne di Cane), Vincenzo e Carmine Villella, Pietro Genovese, Antonio Renzo, Saverio Colacino (Zibecco), Gennaro Valle.
Il più famoso di tutti fu Vito Caligiuri di Soveria Mannelli, sul capo del quale fu posta una taglia di ben 1300 ducati per l'uccisione e 2100 per la cattura. Contro di lui fu schierata una imponente forza: 100 militi a paga, 50 uomini di truppa di linea, squadriglie a carico dei proprietari, colonne mobili. Ma fu tutto inutile, Caligiuri era imprendibile. Fu ucciso dal brigante traditore Giovanni Bitonto (Incrocca), allettato dalla promessa di impunità e dalla taglia che aveva raggiunto l'ingente somma di ducati 1900.
Tantissimi altri nomi di briganti sono elencati dallo Scirocco. Ma fra tutti spicca quello di Giosafatte Talarico, al quale è dedicato l'intero secondo capitolo.
Prima seminarista, intraprese poi gli studi di farmacista senza però poterli terminare. Fu costretto infatti a darsi alla macchia, intorno al 1820, dopo aver ucciso un ricco giovinastro che aveva violentato una sua sorella. Un delitto d'onore quindi. Da allora Giosafatte Talarico regnò sui monti della Sila per più di vent'anni, riverito e temuto perché forte, audace, coraggioso. Non era feroce, ma aveva indiscutibili doti di capo ed incuteva ai suoi compagni grande terrore. Frequentava, protetto da amici potenti ed influenti, «or travestito da prete, or da ricco signore, i caffé, i teatri, e passeggiava per le strade più frequentate». Aveva provveduto di dote fanciulle povere e compiuto molte altre azioni generose. Ma anche faceva fuori chi lo tradiva.
Dopo tanti tentativi andati a vuoto di catturarlo, per liberarsene non restava che trattare la resa. Gli fu proposto una pensione di sei ducati ed una casetta nell'isola d'Ischia. Talarico accettò, ma a condizione che il beneficio fosse esteso ai suoi compagni.
Terminava così la carriera del brigante che aveva “fatto tremare le tre Calabrie”, ma il cui nome sarebbe stato ricordato “con lode più che con biasimo come quello di un protettore del povero contro il ricco, del debole contro il forte”.
Talarico prese moglie ed ebbe una figlia. Morì ultraottantenne.
Alfonso Scirocco riprende questi cenni biografici del brigante Giosafatte Talarico dallo scrittore calabrese Nicola Misasi. Ma poi tenta di smontare quanto di positivo Misasi aveva accreditato a Talarico, per farlo diventare un delinquente comune. Ma contraddicendosi ancora una volta, Scirocco così chiude il capitolo su Talarico: «Forte, astuto, coraggioso, crudele ma solo se necessario, inafferrabile e quasi invulnerabile, Talarico possedeva tutte le doti per divenire nella tradizione orale il protettore dei perseguitati, l'eroe del mondo contadino, il simbolo di aspirazioni represse, proiettate dalla fantasia popolare sul piano sfumato della leggenda».
Il terzo capitolo parla della persistenza del brigantaggio in Calabria fino all'Unità del 1860. Si accenna ai briganti Natale Faraca, Pietro Maria Buonofiglio, Pasquale D'Ardes, Giuseppe Scarcelli (Vozzo), Saverio Lopez (Pedecase), Nicola Rende, Raffaele Arnone, Pietro Branca, Fortunato Federico, Gennaro Emanuele. E questi erano i capi banda, vi sono poi i nomi o i numeri dei componeti le singole banda, che comunque non superavano in media la decina di adepti.
L'ultimo capitolo tratta del brigantaggio postunitario. In Calabria i briganti più famosi furono Domenico Straface (Palma) e Carmine Franzese.
Nel Cosentino, tra il settembre del 1860 e l'agosto del 1863, erano stati fucilati o uccisi 198 briganti o manutengoli. La legge Pica del 15 agosto 1863 venne a dare nuovo impulso alla repressione. La Calabria ripiombava nell'arbitrio e nella illegalità. Vennero arrestati e condannati i parenti, donne e bambini, dei briganti.
In coda al brigantaggio postunitario Scirocco accenna al brigante Giuseppe Musolino, che appassionò l'opione pubblica italiana alla fine del secolo.
In appendice al libro sono riprodotti significativi documenti dell'epoca ed interessanti liste di fuorbanditi, con tantissimi nomi con motivo e data dell'arresto o dell'uccisione.
Rocco Biondi
Alfonso Scirocco, Briganti e società nell'Ottocento: il caso Calabria, Capone Editore, Lecce 1991, pagg. 172
Il suo interesse per il Brigantaggio è strumentale e funzionale alla dimostrazione che i Piemontesi non avevano altro strumento per estirparlo che la repressione.
Per lui «i briganti sono autentici professionisti del crimine, che sono riusciti a sfuggire a lungo alla cattura o all'uccisione per la debolezza dell'apparato repressivo».
Anche se spesso pare cadere in contraddizione. Nella premessa al suo libro Scirocco afferma di prendere le mosse per la sua analisi sul brigantaggio dagli studi di Hobsbawm e Molfese, ma per dire subito che il brigantaggio non fu una reazione borbonico-clericale e nemmeno un fenomeno politico-militare. Ma in tutte le pagine che seguono vuol dimostrare che il brigantaggio non ebbe nemmeno carattere sociale. Si vuole comunque salvare la coscienza scrivendo, a chiusa del suo libro, «nei fatti ai sequestri, ai ricatti, ai vandalismi dei briganti, lo Stato sistematicamente risponde con una violenza diversamente motivata, ma non meno cieca, e quindi sterile».
Come altri libri di autori che scrivono per minimizzare e screditare i briganti, anche questo di Scirocco può essere utile a chi ritiene che i briganti non furono comuni delinquenti ma espressione di un movimento di liberazione (anche se non sempre consapevole) dalla oppressione e dalla miseria. In quei libri si possono trovare notizie e fonti che, lette con un'ottica diversa, fanno capire l'estensione del fenomeno brigantaggio, che in alcuni periodi diventa quasi di massa, e che fa dedurre che un intero popolo non può essere diventato criminale.
Il libro, che vorrebbe dimostrare un'ininterrotta continuità della persistenza del brigantaggio nella Calabria in tutti i primi settanta anni dell'Ottocento in forme e modi quasi sempre uguali, si divide in quattro capitoli.
I periodi storici che vengono affrontati partono dal 1799 quando il cardinale Ruffo sconfisse la Repubblica partenopea riconsegnando Napoli a Ferdinando IV di Borbone, proseguono con il decennio francese (1806-1815) di Giuseppe Bonaparte e Gioacchino Murat, la restaurazione borbonica fino al 1860, la fine del Regno delle Due Sicilie, il Regno dei Savoia ed il decennio postunitario (1860-1870).
Nel primo capitolo si accenna ai briganti Angelo Paonessa (Panzanera), Arcangelo Scozzafava (Galano), Natale Di Pascale (Cavalcante), Lorenzo Benincasa, Francesco Muscato (Bizzarro), Paolo Mancuso (Parafante). Per reprimerli fu mandato da Murat in Calabria il feroce generale Manhès.
Altri briganti: Vito Caligiuri, Carlo Cironte, Nicola Mazza (Carne di Cane), Vincenzo e Carmine Villella, Pietro Genovese, Antonio Renzo, Saverio Colacino (Zibecco), Gennaro Valle.
Il più famoso di tutti fu Vito Caligiuri di Soveria Mannelli, sul capo del quale fu posta una taglia di ben 1300 ducati per l'uccisione e 2100 per la cattura. Contro di lui fu schierata una imponente forza: 100 militi a paga, 50 uomini di truppa di linea, squadriglie a carico dei proprietari, colonne mobili. Ma fu tutto inutile, Caligiuri era imprendibile. Fu ucciso dal brigante traditore Giovanni Bitonto (Incrocca), allettato dalla promessa di impunità e dalla taglia che aveva raggiunto l'ingente somma di ducati 1900.
Tantissimi altri nomi di briganti sono elencati dallo Scirocco. Ma fra tutti spicca quello di Giosafatte Talarico, al quale è dedicato l'intero secondo capitolo.
Prima seminarista, intraprese poi gli studi di farmacista senza però poterli terminare. Fu costretto infatti a darsi alla macchia, intorno al 1820, dopo aver ucciso un ricco giovinastro che aveva violentato una sua sorella. Un delitto d'onore quindi. Da allora Giosafatte Talarico regnò sui monti della Sila per più di vent'anni, riverito e temuto perché forte, audace, coraggioso. Non era feroce, ma aveva indiscutibili doti di capo ed incuteva ai suoi compagni grande terrore. Frequentava, protetto da amici potenti ed influenti, «or travestito da prete, or da ricco signore, i caffé, i teatri, e passeggiava per le strade più frequentate». Aveva provveduto di dote fanciulle povere e compiuto molte altre azioni generose. Ma anche faceva fuori chi lo tradiva.
Dopo tanti tentativi andati a vuoto di catturarlo, per liberarsene non restava che trattare la resa. Gli fu proposto una pensione di sei ducati ed una casetta nell'isola d'Ischia. Talarico accettò, ma a condizione che il beneficio fosse esteso ai suoi compagni.
Terminava così la carriera del brigante che aveva “fatto tremare le tre Calabrie”, ma il cui nome sarebbe stato ricordato “con lode più che con biasimo come quello di un protettore del povero contro il ricco, del debole contro il forte”.
Talarico prese moglie ed ebbe una figlia. Morì ultraottantenne.
Alfonso Scirocco riprende questi cenni biografici del brigante Giosafatte Talarico dallo scrittore calabrese Nicola Misasi. Ma poi tenta di smontare quanto di positivo Misasi aveva accreditato a Talarico, per farlo diventare un delinquente comune. Ma contraddicendosi ancora una volta, Scirocco così chiude il capitolo su Talarico: «Forte, astuto, coraggioso, crudele ma solo se necessario, inafferrabile e quasi invulnerabile, Talarico possedeva tutte le doti per divenire nella tradizione orale il protettore dei perseguitati, l'eroe del mondo contadino, il simbolo di aspirazioni represse, proiettate dalla fantasia popolare sul piano sfumato della leggenda».
Il terzo capitolo parla della persistenza del brigantaggio in Calabria fino all'Unità del 1860. Si accenna ai briganti Natale Faraca, Pietro Maria Buonofiglio, Pasquale D'Ardes, Giuseppe Scarcelli (Vozzo), Saverio Lopez (Pedecase), Nicola Rende, Raffaele Arnone, Pietro Branca, Fortunato Federico, Gennaro Emanuele. E questi erano i capi banda, vi sono poi i nomi o i numeri dei componeti le singole banda, che comunque non superavano in media la decina di adepti.
L'ultimo capitolo tratta del brigantaggio postunitario. In Calabria i briganti più famosi furono Domenico Straface (Palma) e Carmine Franzese.
Nel Cosentino, tra il settembre del 1860 e l'agosto del 1863, erano stati fucilati o uccisi 198 briganti o manutengoli. La legge Pica del 15 agosto 1863 venne a dare nuovo impulso alla repressione. La Calabria ripiombava nell'arbitrio e nella illegalità. Vennero arrestati e condannati i parenti, donne e bambini, dei briganti.
In coda al brigantaggio postunitario Scirocco accenna al brigante Giuseppe Musolino, che appassionò l'opione pubblica italiana alla fine del secolo.
In appendice al libro sono riprodotti significativi documenti dell'epoca ed interessanti liste di fuorbanditi, con tantissimi nomi con motivo e data dell'arresto o dell'uccisione.
Rocco Biondi
Alfonso Scirocco, Briganti e società nell'Ottocento: il caso Calabria, Capone Editore, Lecce 1991, pagg. 172
5 settembre 2009
Vittorio Feltri fai schifo
Su Feltri rompo il silenzio che mi ero imposto cinque anni fa in questo blog.
Mutuando un termine molto congeniale al suo vocabolario, per quello che ha scritto e fatto contro Dino Boffo, direttore del quotidiano Avvenire, nasce spontaneo apostrofarlo con un bel “Vittorio Feltri fai schifo”.
Si è inventato o comunque ha usato un falso documento per colpire il direttore di un giornale, che si era permesso di criticare il suo (di Feltri) padrone Silvio Berlusconi.
Nella falsa informativa si leggerebbe: «Il Boffo è stato a suo tempo querelato da una signora di Terni destinataria di telefonate sconce e offensive e di pedinamenti volti a intimidirla, onde lasciasse libero il marito con il quale il Boffo, noto omosessuale già attenzionato dalla Polizia di Stato per questo genere di frequentazioni, aveva una relazione».
Tutto completamente falso dalla a alla zeta, in perfetto stile berlusconiano. Ma bisognava infangare. Se Berlusconi è porco, anche i suoi detrattori lo sono altrettanto. Tutti porci, nessun porco.
Ma Berlusconi e Feltri avevano fatto il conto senza l'oste. La reazione della Chiesa, alla quale appartiene il giornale che Boffo dirigeva, è stata spietata.
Cardinali, vescovi e cattolici hanno parlato di killeraggio, bassa macelleria, delitto, dove killer, macellaio e sicario è sempre Vittorio Feltri. Sottintendendo che killer macellaio sicario è anche il mandante Berlusconi.
Berlusconi dice di non sapere niente di quello che scrive Feltri. Mente come sempre. Ha assunto Feltri come direttore del suo giornale di famiglia proprio per fare questo sporco lavoro.
Ed intanto Boffo ha gettato la spugna, dimettendosi.
Tutto finito allora? Ha vinto Berlusconi? Penso proprio di no.
I tempi della Chiesa sono più lunghi di quelli della politica di Berlusconi. Un alto esponete del Vaticano ha detto: «La prepotenza, la mancanza di rispetto umano di fronte a chi si è permesso di criticare, sono manifestazioni alle quali il mondo cattolico è sensibile... C'è da dubitare che chi ha voluto tutto questo possa cantar vittoria».
Berlusconi è avvertito. Non può dormire sonni tranquilli. Ha i giorni contati. A meno che nella Chiesa non prevalgano altri calcoli politici.
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