25 febbraio 2020

C’era una volta il Brigante, di Vittorio e Giuseppe Savini


Il brigante del libro non è contro il potere, ma contro il suo abuso, dice Eduardo Zarelli nella sua prefazione. Il brigante qui si è formato nella tradizione popolare, che l’accosta al perdente e testimonia il seme della rivolta. Si muore per essere uomini che la violenza e l’illusione non piegano.
     Il libro è una raccolta di fotografie, sia in prevalenza di briganti uccisi che dei soldati che li hanno uccisi, ai quali tutti il libro è dedicato. Il libro pone sullo stesso piano briganti e soldati, ma così non è: i secondi invasero, i primi non volevano essere invasi. Le fotografie si susseguono in modo confuso; si parte dalla regina Maria Sofia e si termina con il brigante Barone e un suo compagno dopo la loro fucilazione del 1865. Ad ognuna delle foto è dedicata l’intera pagina dispari con breve didascalia, l’altra pagina pari raccoglie una frase famosa. Due fotografie riproducono quella che si dice anche qui essere Michelina De Cesare; in realtà si tratta di una modella messa in posa nello studio fotografico; manca invece la foto del cadavere della vera Michelina.
     Una pagina è dedicata, dai due autori, ai briganti che vollero farsi re. Divennero re-briganti e il loro regno fu la macchia, dove si muovevano come caprioli. Re furono il Passatore, Tiburzi, Crocco, Caruso e altri capobriganti. Alcuni sostengono che i re-briganti scomparvero perché non sapevano leggere e scrivere, mentre per i due autori i re-briganti cominciarono a morire proprio nel momento in cui presero a leggere e scrivere.
Rocco Biondi

C’era una volta il Brigante, a cura di Vittorio Savini e Giuseppe Savini, Macro edizioni, San Martino di Sarsina (FO) 1996, pp. 132

19 febbraio 2020

La vera storia del brigante Marlino Zappa, di Pietro Familiari


Familiari in questo romanzo narra la “vera storia” del brigante Marlino Zappa, le cui avventure in Calabria ebbero inizio nel 1931 ai tempi del fascismo, che si sviluppò in Italia dal 1922 al 1943.
     Questo romanzo ha la prefazione di Mariano Meligrana, antropologo italiano e calabrese, che collaborò con il professore universitario Luigi Maria Lombardi Satriani. Da quella prefazione sappiamo che il romanzo fu scritto tra il febbraio 1966 e l’agosto 1968, poco prima della morte dell’autore, e trattando di un brigante offre la possibilità di versioni contrastanti: “perseguitato e condiviso, braccato e protetto, pericoloso e difensore”, il brigante si situa tra i due versanti della società: quello legalitario-poliziesco e quello popolare-oppresso che vive nel brigante la rivendicazione e la possibilità di un riscatto. Alla biografia di Ferdinando Ambesà segue la vicenda di Marlino Zappa, che lascia ampio spazio ad altre storie. Anche il fascismo, con il suo dilagante proselitismo, assume aspetti positivi. A Tuccino comunque affamati erano prima, affamati si trovarono dopo e l’emigrazione continuò ad essere il suo destino.
     L’anno in cui si svolge la vicenda fa pensare che il brigantaggio postunitario non abbracciò solo il decennio 1860/1870 ma arriva fino ai giorni nostri, pur in forma diversa. Sotto i Borbone, dice Familiari, la Calabria nulla aveva da invidiare alla Lombardia, al Piemonte, alla Toscana, all’Emilia. C’era lavoro dovunque e per ciascuno, si costruivano ponti e strade, si aprivano scuole, fiorivano arti e scienze insieme alle lettere, l’agricoltura si sviluppava, i commerci ed i traffici aumentavano, l’onestà e la lealtà erano universalmente praticate; comunque era destino che il regno delle due Sicilie divenisse parte dello stato italiano ed è perfettamente inutile arzigogolare su cosa sarebbe successo se Francesco II avesse schivato la sberla del 1860; anzi Francesco Tassone, nel risvolto di copertina, scrive che queste non sono espressioni di nostalgia borbonica, ma prime forme di opposizione, anche se ancora confuse.
     Ferdinando Ambesà, scrive Familiari, “era nipote di prete, figlio di brigante e fu anche mio nonno”; morì nel 1948, quando i Savoia lasciarono l’Italia. Non uccideva, né rubava e per questo non aveva nemici. Molti luoghi natali portano ancora il suo nome, derivante da sue avventure. Non lavorava, perché era signore; in casa sua regnava l’abbondanza, perché veniva colmato di doni in ogni circostanza. Divenne l’autorità e non si muoveva foglia se lui non voleva. «La fame fa il ladro», aveva sentenziato don Ferdinando; e al governatore disse: «Siccome però non c’è più nulla da rubare perché già tutto avete rubato voi, questa volta la fame produrrà briganti».
     Marlino Zappa nacque a Sarrò, frazione del Comune di Tuccino, nel 1912; il padre, Fortunato, emigrato in America, fu travolto da una frana; alla famiglia lontana non provvide nessuno perché era emigrato clandestinamente. Marlino, benché fosse accusato di tanti misfatti, non commise mai ciò di cui era accusato, come uccisione e ladrocinio; una volta però aveva tolto ad un cavaliere 250.000 lire per darle ad una vedova, alla quale le era stato ucciso un figlio dallo stesso cavaliere. Don Ferdinando consegnò alla giustizia Marlino, che con il processo venne assolto. Le nozze fra Merlino e Celestina si celebrarono nel 1937. I suoi cinque figli sono studiosissimi; qualcuno s’è già laureato.
     Da metà novembre ai primi di febbraio, con l’arrivo dal nord del marchese Ruggero de Frigeros, del cavaliere Raimondo Poretta e del barone Edgardo Incorsi, proprietari terrieri, era festa a Tuccino perché arrivava il vagheggiato lavoro per la raccolta del bergamotto. Oltre agli addetti alla raccolta del prezioso frutto, anche ai carpentieri, falegnami, fabbri, maniscalchi, carrai, saldatori era richiesta la loro opera.
     La guerra contro l’Etiopia, scoppiata nel 1935, fu accolta con entusiasmo dai tuccinoti, che speravano partecipando ad essa di vincere la fame e la disperazione che li attanagliava. Partirono in circa duecento. Molti ebbero fortuna, ma non tutti. Marlino in Etiopia prese il diploma di maestro e nel 1937 ebbe una cattedra nelle scuole elementari di Zarri.
Rocco Biondi

Pietro Familiari, La vera storia del brigante Marlino Zappa, Qualecultura editrice, Vibo Valentia 1971, pp. 280