Per chi, come me, non ha frequentato né conosciuto personalmente Nicola Zitara non è facile capire cosa in questo romanzo è vero, cosa verosimile, cosa inventato. Ma poco importa, quello che prepotentemente viene fuori è il profondo pensiero di Zitara sulla triste sorte toccata ai meridionali con la venuta dei piemontesi 150 anni fa. Siamo stati colonizzati, siamo stati annientati per fare spazio ai conquistatori padani. Il Sud non ha ricavato che danni dall'Unità. E' questo forse il libro più bello di Zitara, scritto quando aveva 67 anni.
L'io narrante del romanzo è Giacomo Mercugliano (alter ego di Zitara), ultimo discendente di una ricca famiglia di mercanti amalfitani, da parte di padre, e di benestanti agricoltori siciliani, da parte di madre; immigrati sulle terre delle Marine Joniche in Calabria ai tempi dell'età borbonica. Produssero e commerciarono con profitto olio ed agrumi (con i derivati succhi di limone e d'arancia), fino all'arrivo dei Savoia che bloccarono tutto. Il romanzo è come una saga di queste due famiglie, dalla fortuna economica dei padri fino alla sconfitta dell'ultimo Mercugliano, costretto a “mangiare il pane del governo” adattandosi a diventare dipendente statale. Ma sempre con grande dignità e senza scendere a compromessi. «Conosco poche persone che possono dire di essere state libere come me», è l'incipit del romanzo. E più avanti: «E' stato comunque bello non avere padroni politici, editori-padroni e tutele accademiche».
Il racconto - scrive Zitara - è un viaggio nella memoria alla scoperta della mia vera patria. E' un percorso intimo e sofferto dalla acquisita fanciullesca brodaglia risorgimentale, alla giovanile quasi inconsapevole coscienza fascista, fino alla matura consapevolezza della necessità della creazione di uno Stato dell'Italia meridionale, come «organizzazione politica che avrà la funzione di portare i megaelleni a non essere i caudatari del resto d'Italia, dell'Europa industriale e degli interessi petroliferi americani». Fino alla quasi provocatoria affermazione che il recupero delle radici deve essere totale, a cominciare dal suo simbolo politico e dalla sua forma concreta: Il Regno di Napoli, i Borbone. «Soltanto dopo che tale passaggio morale sarà avvenuto, potremo criticare l'evoluzione negativa dei Borbone e il loro cattivo governo», fa dire Zitara a Mercugliano. Percorso da quand'era incosciente italiano a quando è diventato consapevole meridionale. Al tempo della sua giovinezza l'Unità d'Italia rappresentava un bene prezioso. Ora ritiene che per risolvere i problemi del Meridione l'unico rimedio applicabile è la fondazione di uno Stato indipendente comprendente il vecchio Regno napoletano, la Sicilia e la Sardegna.
Mercugliano-Zitara non era un contadino, ma nel tempo aveva imparato ad amare i contadini. Anch'egli da ragazzo aveva creduto che il contadino fosse frutto della miseria e della chiusura culturale, testardamente ancorato al passato, che poneva la sua sola speranza nel possesso della terra, sordo a qualsiasi cambiamento. Ed invece poi, riflettendo sull'equivoco antropologico della mafiosità, capì che quel modo di concepire il mondo contadino proveniva da una manipolazione politica di fondo. I padroni proprietari terrieri, quando fu fatta l'unità d'Italia, offrirono un alibi letterario e politico al modello cavourriano, vero colpevole del disfacimento del mondo contadino. Scrive Zitara: «La passione con cui i contadini meridionali hanno amato, amano e prediligono l'America - l'aver disamorato l'uomo meridionale dalla sua terra - è il risultato più palpabile e italianamente ilotico della vicenda unitaria. Le castronerie che sono stampate nei libri di storia, quelle del tipo “il Nord era industriale e il Sud era agricolo”, hanno portato a un Sud né industriale né agricolo, ma soltanto migratorio e mafioso; in ogni caso putrefatto e disperato». Fu fatto passare il mito dell'arretratezza del Sud per distruggerne il suo capitale storico, portando via macchine e impianti. Ed ora, grida Zitara: «Merda. E che altro può fare il vinto se non urlare la sua rabbia in viso al vincitore?». Rinneghiamo Cavour, Sella, Crispi, Mussolini, Moro, Agnelli, Cuccia, la Banca Commerciale Italiana, la Barilla, le Cooperative rosse dell'edilizia che oggi sono capitalismo colonialista, la Scala di Milano. L'urbanizzazione dei contadini meridionali al Nord - scrive Zitara - è costata quattro volte quel che sarebbe costata l'industrializzazione dell'area meridionale.
E Zitara ritiene che vi furono tante illustri cantonate da parte di uomini di cultura, più o meno politicizzati, che contribuirono al permanere di questo equivoco sul mondo contadino. La simpatia di Gramsci per il mondo contadino fu puramente cerebrale, teorica, o forse strumentale; quella di Salvemini fu il frutto di un antropologismo politico fin troppo sintetizzato: o la borghesia corrotta o i sani contadini. Soltanto il liberale Nitti aveva capito che l'analisi sociale va contestualizzata col processo di sviluppo dei mezzi di produzione; ma egli non ebbe seguito né a destra né a sinistra. Morale e conclusione della favola fu che, mentre i contadini e gli artigiani emigravano per diventare operai a Milano, chi rimaneva al Sud finiva “con il muso nel fango” e con il movimento meridionale egemonizzato da schiere di piccoli borghesi e vecchi baroni che incassavano i voti dei contadini rimasti, per fare il deputato. In cambio della complicità - scrive ancora Zitara - il sistema padano permette alla classe infame degli intellettuali di galleggiare sul nostro mondo destrutturato. Chi nei giornali, chi in un'aula universitaria, chi in una professione, chi facendo il giornalista.
Mercugliano-Zitara è sempre stato affascinato dalla politica. Socialista di sinistra, con simpatia comunista, formatosi con la cultura umanistica a scuola, con l'insegnamento evangelico in chiesa, e sui testi marxisti in privato, guardava con grande partecipazione al sociale; riteneva immorale che venisse pagato ai lavoratori un salario insufficiente a coprire il minimo della sussistenza. «Tutta la prima parte della mia esistenza è stata un tragitto attraverso la miseria, mentre io ero in groppa a una immeritata condizione di benessere; tutta la seconda parte è stato il tragitto di un intellettuale che si chiede perché questo mio popolo non si batte». Zitara odia in modo razionale e rivoluzionario chi si approfitta dei lavoratori, e lotta per la fine del profitto, sia come meccanismo istintivo primordiale dell'agire economico, sia come morale corrente ed etica sociale. Per lui il partito socialista è stata una cosa importante, ma a un certo punto ha preferito tenersi l'idea e lasciare il partito.
Nella storiografia italiana - scrive Zitara - il tema della borghesia meridionale è quello che ha lasciato più spazio ai falsi e ai falsari. Si asserisce che al momento dell'Unità il Regno di Napoli non aveva una borghesia imprenditrice, per riversare l'intero peso della cosiddetta questione meridionale, non sulla colonizzazione padana, come in effetti è stato, ma sull'arretratezza del Sud, ed eventualmente sui Borbone. Il fatto che il Sud debba risparmiare soltanto per tenere vivace il tono dei consumi, e mai per investire in produzione, costituisce la base coloniale della Stato nazionale.
Mercugliano-Zitara mette in bocca ad un intellettuale russo cose alle quali lui crede e si auspica: «E' immaginabile che, mancando una seria guida politica, fra non molto al Sud si risentirà parlare di ribellioni, dell'incendio dei municipi e magari di brigantaggio politico. Non potendo organizzare un nuovo partito, tutto meridionale, credo opportuno passare dalle ribellioni inconcludenti a forme pianificate di ribellione, che riescano a preparare l'insurrezione generale e la presa del potere».
E in un comizio, alla presenza di suo padre, Giacomo Mercugliano indicando i cittadini e compagni presenti, appartenenti al “popolo meridionale”, contadini e proletari, afferma: «Non ripeterò l'errore dei rivoluzionari del Novantanove, né quello dei liberali del 1860. Starò con loro, papà. Anche a costo di infiocchettarmi con i gigli dei Borbone e d'andare sottobraccio con Carmine Crocco, starò con loro. Questo è il mio popolo».
Nicola Zitara è nato il 16 luglio 1927 a Siderno, dove è morto il 1° ottobre 2010.
Rocco Biondi
Nicola Zitara, Memorie di quand'ero italiano, romanzo storico, edito dall'autore, Siderno 1994, pp. 480