23 febbraio 2018

Briganti!, di Pietro Seddio



Seddio chiude il suo saggio, intitolato “Briganti!”, dedicandolo ai tanti morti, sia dell’una che dell’altra parte (sia i briganti del Sud che i piemontesi del nord). E’ vero che i morti sono tutti uguali, ma per noi avrebbe fatto bene a fare una scelta: o i briganti o i piemontesi. Anche se, leggendo il libro, sembra che scelga i briganti.
     Compito, dice Seddio, è quello di esporre i fatti storici, al solo scopo di avere una conoscenza di quel periodo. Ognuno poi, dando una propria valutazione, può arrivare anche a conclusioni opposte.
     Ma l’autore scrive anche nel libro che, sulla scorta dei documenti, è stato rilevato che alla fine ci furono quasi un milione di morti, 54 paesi del Sud distrutti dai piemontesi perpetrando inenarrabili violenze, superando così tutte le guerre risorgimentali messe insieme.
     In questa affermazione, come in tante altre del libro, sembra esserci una contraddittorietà; ma l’autore ne è cosciente, riportando il pensiero contrapposto di diversi “storici”; ma lo ripeto sua pecca è non aver fatto una scelta di campo.
     Il brigantaggio fu la violenta risposta ad una politica voluta dal governo rilevatasi del tutto sbagliata. E si tornerà a rimarcare come quel fenomeno abbia avuto connotati omogenei e i briganti, pur trovandosi in luoghi distanti, hanno agito seguendo una medesima tattica e metodi di lotta assai simili, come se tutti fossero alle dipendenze di un unico capo banda; questo scrive Seddio.
     Con la complicità dei contadini e dei pastori, i briganti trovarono rifugio nelle terre montuose, nelle fitte boscaglie, negli anfratti, nelle caverne. E di questa “consorteria” fecero parte attiva non solo uomini, ma anche donne audaci e coraggiose.
     A tale situazione i governanti risposero con una durissima repressione, impiegando nel Sud quasi 120.000 soldati. Acuendo così la differenza tra nord e Sud, il quale ultimo considerò i briganti come loro eroi buoni.
     Da Gramsci il fenomeno del brigantaggio venne considerato come lotta di classe e la guerra delle bande fu definita una lotta armata dei contadini contro le classi dominanti. Ma l’opposizione armata fu uno dei tanti aspetti della resistenza antiunitaria. Dopo il 1860 vi furono forme più articolate che coinvolsero il parlamento, la magistratura, i suffragi elettorali, la coscrizione obbligatoria, l’emigrazione, la stampa clandestina, la questione demaniale, la cultura contadina, l’intromissione della Chiesa.
     Il fenomeno si allargò a macchia d’olio in tutte le regioni del Meridione. Briganti importanti furono Gaetano Manzo, Michele Caruso, Giuseppe Schiavone, Gaetano Tranchella, Luigi Alonzi, Pietro Monaco, Antonio Trapasso, Ferdinando Mittica, Domenico Straface, Vincenzo Macrini.
     Nel libro si parla diffusamente del capo brigante Carmine Crocco, che da umile bracciante divenne comandante di circa duemila uomini. Era nato in Basilicata a Rionero in Vulture; per un episodio banale la sua vita cambiò radicalmente: un cane levriero aveva ucciso un coniglio di proprietà dei Crocco e Donato (fratello di Carmine) uccise il cane a bastonate, il padrone del cane colpì violentemente con un frustino Donato. La madre di Donato intervenne per difendere il figlio, ricevendo da don Vincenzo calci nel ventre; in seguito a questo abortì e successivamente venne richiusa in un manicomio. Carmine decise di vendicarsi. Fu arruolato nell’esercito borbonico e prestò servizio prima a Palermo e poi a Gaeta. Uccise a coltellate un signore che respinto aveva sfregiato il viso della sorella. Rinchiuso nel carcere di Brindisi riuscì però ad evadere. Si arruolò con Garibaldi, sperando di aver condonati i suoi reati. Ma così non fu. Ed allora si diede alla macchia, difendendo il re borbonico. Occupò molti paesi. Incontrò il generale spagnolo José Borges, che poi abbandonò. Quest’ultimo venne fucilato a Tagliacozzo. Crocco, che pian piano venne indebolito, fuggì nello Stato Pontificio. Ma fu arrestato. Ed infine, dopo varie peripezie, finì nell’isola d’Elba, nel carcere di Portoferraio, dove morì il 18 giugno 1905.
     Si parla anche di Giuseppe Nicola Summa (detto Ninco-Nanco), di Nicola Napoletano (detto Caprariello), di Vincenzo Mastronardi (detto Staccone), di Rocco Chirichigno (detto Cppolone).
     Ma Seddio scrive anche di briganti precedenti e successivi al periodo postunitario: Michele Arcangelo Pezza (Fra’ Diavolo), Stefano Pelloni (Passatore), Eustachio Chita (Chitarridd), Giuseppe Musolino, Salvatore Giuliano, e di tanti altri (non solo del Sud Italia).
     Fra le brigantesse vengono riportate, tra le altre, Maria Capitanio, Filomena Pennacchio, Maria Giovanna Tito, Marianna Oliviero (Ciccilla), Serafina Ciminelli, Michelina Di Cesare, Maria Maddalena De Lellis (Padovella), Maria Brigida, Maria Luisa Ruscitti.
     Fra le fortezze in cui vennero rinchiusi i detenuti del Sud famosa è quella di Finestrelle, nel territorio piemontese.
Rocco Biondi

Pietro Seddio, Briganti!, Editrice Montecovello, 2011, pp. 224

1 febbraio 2018

I due manutengoli, di Giuseppe Osvaldo Lucera


Le due storie che vengono narrate sono inserite nel secolo XVII e nel secolo XIX. La prima, che abbraccia il capitolo diciassettesimo (da punto uno a undici), parte dall’anno 1647, e narra principalmente, con l’espediente della scoperta e lettura di un manoscritto, l’avventura del brigante (proditores) Abate Casare.
     La seconda storia, che abbraccia la prima parte del primo volume e tutto il secondo, racconta quello che avvenne nel Regno di Napoli e principalmente nel foggiano (Capitanata) a cominciare dal decennio francese (1806-1815) e finire nei primi anni della venuta nel Sud dei piemontesi (1860-1861).
     Le due epoche hanno in comune lo stesso territorio e la stessa società. Nella prima v’era un viceré, che governava in nome delle dinastia spagnola. Nella seconda il Sud era governato prima dai Borbone e poi dai Savoia; «un cambio – scrive Lucera – di nome e di vessilli che nulla porterà di nuovo alle condizioni sociali del popolo del nostro Meridione».
     Quasi tutti i personaggi della seconda storia hanno gli stessi nomi di quelli della prima e sono loro discendenti.
     Le categorie sociali delle storie narrate sono sostanzialmente due: i ricchi da una parte ed i poveri dall’altra. Ma provengono sia dall’una che dall’altra quelli di una terza categoria, i cosiddetti briganti; questi ultimi però sono prevalentemente poveri. A Lucera non interessano i delinquenti comuni, nel suo romanzo i briganti sono banditi sociali, che si manifestano sia in società antiche che moderne quando vi è lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo o di una classe su di un’altra. «Non è quindi – scrive Lucera – la democrazia o il totalitarismo, la monarchia o la repubblica che producono i ribelli, ma è l’aspetto economico su cui poggia la gerarchia sociale a produrli e nient’altro».
     La delinquenza comune è sempre presente in qualsiasi società. Il banditismo sociale – dice ancora Lucera – o il fenomeno del brigantaggio, invece, nasce, si evolve, si irrobustisce e poi scompare, apparentemente riassorbito dalla stessa società. Esso cova sotto la cenere ed è pronto a riapparire quando le contraddizioni interne al sistema raggiungono la fase estrema.
     Dal mondo di sofferenze, di miserie, atrocità e speranze di tempi migliori nascono gli eroi. Il brigante diventa l’eroe che ha la forza di ribellarsi e di fronteggiare il potere costituito. Il brigante di fronte alle ingiustizie riesce a portare una qualche giustizia laddove era completamente assente.
     Personaggi del secolo spagnolo sono: Antonio Salustri, fattore del duca Matteo Princivalle; il cavaliere Ubaldo, nipote del duca; Luigi Ferrigno, comandante delle Guardie Civiche; il brigante detto Abate Cesare, che stette nascosto oltre otto mesi nel palazzo del duca in Capitanata; la duchessa Flaminia Filangieri torturata dall’hidalgo spagnolo Pedro Alvarez de la Sierra con conseguenze non definitive.
     Personaggi del periodo dell’ottocento sono: il padre Bonaventura d’Amalfi, che è priore del convento francescano di Serracapriola, e che riuscirà a raccogliere i documenti che dimostravano come il Borbone aveva tradito il famoso brigante Gaetano Vardarelli; Pietro Salustri, fattore del duca Matteo Princivalle; Antonio Salustri, brigante protagonista del romanzo; Francesco Princivalle, duca e fratellastro di Antonio; Camillo Bourdignon, detto l’Ungherese, prototipo negativo dei piemontesi; Luigi Fortebraccio, nato nel Sud ma zelante vice comandante delle Guardie Nazionale a favore dei piemontesi.
     Lucera nel suo romanzo riesce a far vivere i suoi personaggi ben inseriti nel proprio ambiente, di tutti descrivendo sentimenti e modi di pensare. E ciò vale anche per i briganti, che se abbandoneranno la lotta (come farà Antonio nel racconto ottocentesco), rinviando la realizzazione del proprio disegno politico a tempi migliori, non potranno essere annoverati né tra i perdenti, né tra i vinti e né tanto meno tra i vigliacchi.

Giuseppe Osvaldo Lucera, I due manutengoli, Edizione Simple, Macerata 2008; Vol. I, pp, 472; Vol. II, pp. 414