29 maggio 2016

Carnefici, di Pino Aprile




Il libro “Carnefici” di Pino Aprile, pubblicato nel 2016, è l’ideale prosecuzione e completamento di “Terroni”, uscito nel 2010. Obiettivo è dimostrare, riuscendoci, che nel decennio 1861-1871 è stato perpetrato dai piemontesi contro gli abitanti del Sud Italia un vero genocidio.
     Vien data ed illustrata la definizione di “genocidio”, traendola dal polacco Raphael Lemkim, che ebbe la famiglia distrutta dai nazisti: esso è un «piano coordinato di azioni differenti che hanno come obiettivo la distruzione dei fondamenti essenziali della vita dei gruppi nazionali attraverso la distruzione delle istituzioni politiche e sociali, dell’economia, della cultura, della lingua, dei sentimenti nazionali o della religione, della libertà, della dignità, della salute e perfino della vita degli individui non per motivazioni individuali ma in quanto membri di un gruppo nazionale». È quanto avvenuto nel Regno delle Due Sicilie nel primo decennio postunitario.
     Lo Stato piemontese impose se stesso, le sue armi, la sua libertà alla Nazione napoletana, chiudendo giornali, riempendo le carceri, deportando e fucilando, imponendo le sue tasse, le sue leggi e persino i suoi impiegati. Il Sud fu annesso dal Piemonte con le armi, interi paesi furono messi a ferro e fuoco, la gente fu seviziata, arsa viva, fucilata in massa, stuprate le donne, saccheggiati i beni.
     Per dimostrare il genocidio vengono incrociati i risultati dei censimenti disposti dai Savoia (nel 1861 e nel 1871) e i dati delle anagrafi borboniche. Scrive Pino Aprile che al Sud, secondo i vari raffronti, mancano da almeno 120.000 a 652.000 persone, forse di più, solo da metà del 1860 al 1861. Il confronto continua per i nove anni successivi. La causa del saldo negativo è la guerra civile che si combatte in quegli anni nel Sud, come ammettono stesse fonti piemontesi. Furono mandati 120.000 soldati piemontesi, più i carabinieri, più le guardie nazionali a combattere i Briganti del Sud. “Civiltà Cattolica”, la rivista dei gesuiti, all’epoca parlò di più di un milione di morti, a causa della guerra di aggressione e delle sue conseguenze.
     Ci vollero dieci anni perché le cifre, che nel Sud decrescevano sempre più, tornassero quasi pari. Fallita la risposta militare all’invasione, lo spopolamento del Sud continuò con l’emigrazione. Ai vinti in armi, dopo la sconfitta resta la fuga.
     Il libro contiene una sequela di numeri, che l’autore ritiene necessari per dimostrare che al Sud vi fu un genocidio ad opera dei piemontesi. Vengono riportati tantissimi episodi, più o meno truci, che avvennero in moltissimi paesi del Sud. L’eccidio-simbolo dei massacri al Sud è quello di Pontelandolfo e Casalduni, due paesi del beneventano che, per rappresaglia e per ordine del generale “macellaio” Enrico Cialdini, furono incendiati il 14 agosto 1861; vi furono rapine, stupri, massacri: rimasero in piedi solo tre case. La popolazione di Pontelandolfo, da documenti ufficiali, il 10 agosto 1861 (quattro giorni prima dell’eccidio) risulta essere di 5.747 abitanti, dopo la strage del 14 agosto 1861 gli abitanti scesero a 4.284: 1.463 in meno (sono i morti di quel giorno e di quelli immediatamente successivi). E i paesi che vennero trattati alla maniera di Pontelandolfo e Casalduni furono decine.
     Le statistiche sulle esecuzioni capitali di quegli anni sono state fatte sparire, come sono scomparse le carte dei censimenti. Quasi tutti i documenti importanti sono scomparsi o sono stati nascosti. Gli studiosi ufficiali li hanno sempre ignorati. Solo pochi, ma in anni recenti cominciano a diventare molti, hanno ricercato e tirato fuori documenti che narrano l’altra storia, quella dei vinti. Si comincia a sapere quello che realmente è accaduto, e la reazione degli offesi non sembra più una barbarie.
     Nel libro vengono fatte molte domande e si tenta una risposta. Quanti furono i Briganti uccisi (solo nel 1861, scrive Zimmermann, furono 19.540)? Quante erano le bande brigantesche (Molfese ne conta circa quattrocento; conteggi successivi le portano a quasi cinquecento; e la Sicilia non è inclusa)? Quanti erano i briganti (secondo i diversi conteggi la cifra complessiva potrebbe essere compresa fra gli 85.000 e i 135.000)? Quante furono al Sud le persone incarcerate dai piemontesi (nella sola Agrigento, denunciò Crispi, in un mese i detenuti furono trentaduemila)? Quanti furono i meridionali deportati in quasi tutte le isole e in una rete di città e paesi sparsi nel nord: il più grande era quello di San Maurizio, il peggiore era Fenestrelle (se fate due calcoli la cifra di oltre centomila non è fuori luogo)? Le risposte (tutte riportate nel libro), date fra parentesi, sono una semplice indicazione per capire la grandezza numerica di cui si parla; esse sono molto più ricche e articolate nel libro.
     Furono soppressi quasi 2.400 conventi e monasteri; poco meno di 30.000 religiosi persero tetto e mezzi di sussistenza.
     Inattendibili sono i dati ufficiali sulle perdite subite dall’esercito sabaudo nella guerra contro il Brigantaggio.
     Falso è anche il dato sull’alfabetizzazione del Sud nel 1861. In realtà nel Regno delle Due Sicilie c’erano almeno una scuola pubblica maschile e una scuola pubblica femminile per ogni Comune, oltre a tante scuole private. Altrimenti non si spiega perché, al momento dell’Unità, nelle Due Sicilie, ci fossero 10.528 studenti universitari, contro i 5.203 del resto d’Italia messo insieme. Fu dopo il 1861 che, in un solo anno, vennero chiuse 875 scuole.
     Aprile chiude il suo libro affermando che la memoria del primo decennio postunitario, liberato dalle incrostazioni della “storia costruita”, deve avere le sue pagine, i suoi altari, i giorni del dolore. Il genocidio dei meridionali, l’aggressione che subirono e la loro dequalificazione umana devono diventare insegnamento scolastico, monumenti alle vittime, nome delle strade e delle piazze, un giorno nel calendario.
     Se questo non avverrà allora continueremo ad avere due Paesi. I sentimenti che montano al Sud sono tali (minoritari ancora, ma sempre più forti) che prima o poi si potrebbe arrivare alla secessione.
Rocco Biondi

Pino Aprile, Carnefici, Piemme Edizioni, Milano 2016, pp. 466, € 19,50

13 maggio 2016

Briganti a Palazzo Acciari, di Alfonso Vesci




Il libro parla del palazzo Acciari, sito in Sala Consilina (provincia di Salerno in Campania), ed in particolare del ruolo che questo palazzo ebbe durante il periodo del brigantaggio postunitario con il capobrigante Angelantonio Masini.
     Costruito nel milleseicento subì importanti modifiche intorno al 1735, come risulta dalla data posta al centro dell’epigrafe in latino che corre lungo la cornice del portico interno. In quegli anni fu aggiunto il «portale principale, sorretto da colonne e ingentilito dal ricamo della balaustra del terrazzo, del frontone con gli stemmi sormontati dalla corona nobiliare, dal portico supportante una loggia coperta e una terrazza aperte su un ampio e suggestivo panorama».
     Nel 1863, anno d’inizio della vicenda che si narra nel libro, l’immenso casamento era abitato in tutto da otto o nove persone, compresa la servitù. Capo nominale della famiglia era il settantaseienne Pietro, vedovo, che aveva due figli: Vincenzo e Felice; il primo, quarantaseienne, era sposato con Angela Mugnolo ed aveva due figlie: Maria diciottenne e Maria Giuseppa tredicenne; il secondo, Felice, era prete e parroco di San Nicola. Completavano il gruppo domestico due o tre persone della servitù.
     L’autore Alfonso Vesci, nato a Sala Consilina, abbracciò la carriera militare andando in pensione con il grado di Generale di Corpo d’Armata. E’ un risorgimentale, come risulta chiaramente dalle pagine del libro. L’appoggio dato al brigantaggio, infatti, per lui risulta essere la causa principale della decadenza della famiglia Acciari.
     L’ala principale del palazzo era stata assegnata con la dote alla nonna paterna dell’autore. Il padre aveva raccontato ad Alfonso, nelle sere d’inverno passate accanto al fuoco del camino, l’avvincente storia dei briganti nascosti in casa e dei carabinieri e dei soldati che davano loro la caccia. In quei racconti venivano mischiati briganti, vittime, funzionari, militari, guardie nazionali, il paese intero, ma soprattutto lui, Angelo Antonio Masini, il capobrigante di Marsico. Molti anni dopo, scrive nella nota introduttiva Alfonso Vesci, complice la passione per la storia del Risorgimento, durante ricerche sul periodo del brigantaggio, si era imbattuto di nuovo negli Acciari, negli archivi dell’ufficio storico dello Stato maggiore dell’Esercito. E quella storia, anche se “minima”, l’autore ha voluto trarre dall’oblio, consapevole che quella «è pur sempre parte della Storia con tanto di iniziale maiuscola».
     Angelantonio Masini, detto Ciuccolo, era nato a Marsicovetere (provincia di Potenza in Basilicata) nel 1837. Al compimento della maggiore età fu soldato nell’esercito borbonico. Renitente al richiamo alle armi nell’esercito piemontese, si diede alla macchia nell’ottobre 1861. Con il cugino Nicola Masini mise su una banda di una quindicina di briganti. Inizialmente il suo campo d’azione fu una piccola area intorno al suo paese. In seguito, con il crescere dell’organico e della fama, fu chiamato spesso a far parte di bande maggiori e più importanti capitanate da Peppe Caruso (Zi’ Peppe), Donato Fortuna (Tortora), Giovannino Fortunato (Coppa), Giuseppe Nicola Summa (Ninco Nanco), Giuseppe Padovani (Cappuccino), Carmine Crocco (Donatello).
     Fu costretto dall’azione del generale piemontese Emilio Pallavicini a spostare il suo settore d’azione sul versante del Vallo di Diano, sul confine fra le attuali Campania e Basilicata. Qui fu necessario creare la rete di sostegno: spie, basisti, messaggeri, portatori di viveri, sellai, fabbri e maniscalchi, calzolai, sarti, armaioli, medici. Ma servivano anche “amici” importanti e facoltosi in grado di offrire rifugi sicuri ed entrature e coperture presso i poteri costituiti. Questi “amici” infatti erano meno soggetti ai controlli delle autorità civili e militari, e la magistratura assicurava loro una qualche impunità.
     Per il capobrigante Masini gli Acciari costituivano una sufficiente certezza di insospettabilità. Il loro palazzo poi, in ottima posizione, offriva agevoli accessi, favorevoli vie di fuga, sicuri nascondigli in caso di ispezioni, numerose feritoie per osservare e mettere sotto tiro eventuali assalti. Fu fatto quindi un accordo fra Masini e gli Acciari, favorevole ad entrambi.
     Triplice poteva essere la causa che spingeva i “notabili” ad appoggiare il brigantaggio: comunanza di ispirazione filoborbonica o di matrice cattolica, paura di vedere i propri beni (bestiame, colture, masserie) distrutti, guadagni (i briganti pagavano bene). Quest’ultima, secondo il Volsci, fu la causa principale che spinse gli Acciari ad appoggiare Masini, tenuto conto delle difficoltà economiche in cui questa famiglia di ex ricchi cominciava a trovarsi.
     Verso la fine del 1863 la banda Masini, composta di circa una quarantina di uomini, effettuò vari assalti nel territorio di Sala, uccidendo animali, incendiando masserie, depredando beni ed armi.
     Per l’intero inverno Maria Rosa Marinelli, donna di Angelantonio Masini, e Filomena Cianciarulo, compagna di Nicola Masini, quest’ultima in stato di avanzata gravidanza, furono ospiti nel palazzo Acciari. Le due donne, che ufficialmente erano state rapite, partecipavano attivamente alle imprese della banda, distinguendosi per intelligenza, combattività, abilità nel maneggio delle armi. Perquisizioni nel palazzo da parte dei piemontesi, durante la permanenza delle due donne, non portarono a risultati concreti; il sistema dei nascondigli funzionò a dovere.
     Filomena Cianciarulo il 28 marzo 1864 diede alla luce una bambina, che don Felice Acciari battezzò, prima che venisse esposta (vale a dire abbandonarla alla carità e alle cure altrui).
     Angelantonio Masini, riuscendo a raggruppare fino ad una settantina di briganti, mise a segno altri clamorosi colpi. Ma subì anche pesanti battute d’arresto. Nel frattempo era stato trovato un secondo punto d’appoggio nella masseria di Silvestro Addobbato, un altro salese.
     Ma il cerchio attorno a Masini si stringe e per il tradimento di tale Gerardo Ferrara, proprietario di una masseria, fu ucciso durante un conflitto a fuoco il 20 dicembre 1864. Molti briganti della sua banda si arresero o furono arrestati, e vuotarono il sacco contro i loro ex compagni.
     I fratelli Vincenzo e Felice Acciari furono arrestati, e dopo un processo fu comminata una pena di 20 anni di lavori forzati; pena che fu ridotta a 10 anni e forse, secondo il Volsci, ne scontarono al massimo sette od otto anni.
     Anche Silvestro Addobbato fu condannato a 15 anni di lavori forzati.
     Maria Rosa Marinelli fu condannata a quattro anni, più sei di vigilanza speciale. Filomena Cianciarulo ebbe una condanna a tre anni di reclusione, più sei di vigilanza speciale; partorì nel carcere un altro bambino, sempre figlio di Nicola Masini.
     Per il Volsci, il nome degli Acciari portato orgogliosamente dagli avi «fu trascinato alla vergogna dagli incauti ultimi discendenti». Dimostrando così la poca stima che ha per i briganti.
     Il libro si chiude con la “sorpresa”, anche per l’autore Volsci, che nel 2014 viene a sapere dell’esistenza in Brasile di un discendente degli Acciari.

Alfonso Vesci, Briganti a Palazzo Acciari, Edizioni del Faro, Trento 2014, pp. 144, € 12,50