E’
un libro pubblicato nel 1937, quando gli studi sul brigantaggio erano quasi
tutti scritti dalla parte piemontese, della quale esaltavano l’intervento nel
Mezzogiorno per “unificare l’Italia”. Il Cianciulli si inserisce a pieno titolo
in quel filone. Scrive infatti: «Chiavone, i La Gala, Crocco ecc. minacciano
col terrore di ostacolare il moto unitario del nostro Risorgimento». Però il
Cianciulli scrive anche che nell’Italia meridionale vivono le genti forse
migliori del mediterraneo, intelligenti, sobrie, lavoratrici, piene di buon
senso e di equilibrio, in apparenza un po’ scettiche, ma in realtà
profondamente sensibili ed attaccate ai grandi ideali. Solo dominazioni
straniere e cattivi governi avevano chiuso le popolazioni in un cerchio
d’ingiustizia, di miseria, d’ignoranza, di superstizione e di servilismo. Ma
ciò nonostante mai i meridionali perdettero la naturale forza e l’esuberanza
vitale, che diede vita al brigantaggio che fu protesta violenta e brutale,
ribellione istintiva ad un sistema iniquo ed infelice.
Viene fatto un excursus del brigantaggio, che
sempre ha accompagnato o seguito le rivoluzioni, dalla preistoria al decennio
postunitario. E la responsabilità di questo fenomeno di delinquenza collettiva
(così lo definisce il Cianciulli) va ricercata in alto, nelle classi dirigenti,
e non in basso, tra le masse. Dopo il 1860 si sconvolsero e si rovesciarono gli
antichi ordinamenti statali, ma non se ne costruirono subito degli altri in
sostituzione. E da parte delle nuove autorità piemontesi furono commessi non
pochi errori, che si trasformarono in altrettante cause di brigantaggio.
Il brigantaggio meridionale postunitario –
scrive il Cianciulli – ha un intimo nesso storico ed una perfetta analogia col
brigantaggio del 1799 e del decennio dei regni di Giuseppe Bonaparte e di
Gioacchino Murat. Nel 1799 l’armata della Santa Fede, comandata dal cardinal
Ruffo, sorretta da Inglesi, Russi e Turchi, composta principalmente da
briganti, restaurò la monarchia borbonica. Nel 1860 il re Borbone Francesco II
cercò di impiegare la stessa politica, ma non riuscì a riconquistare il Regno.
Il brigantaggio – secondo il Cianciulli –
era per l’Italia meridionale una tradizione. Nel brigante si vedeva una figura
di eroe e di giustiziere, che applicava una gloriosa e legittima resistenza
armata contro chi tiranneggia il povero e gli oppressi. Il popolo non solo non
lo malediceva ma lo aiutava nelle sue imprese. Brigante non era un appellativo
d’infamia, ma un titolo di lode e di vanto. Le madri chiamavano orgogliosamente
e affettuosamente il proprio figlio «brigantiello mio». Nessuna meraviglia se
accanto al brigantaggio fioriva abbondantemente il manutengolismo. Il
manutengolo era il silenzioso difensore, l’occulto protettore ed informatore
del brigante.
Vengono poi elencate le cause remote e
prossime del brigantaggio postunitario, in sostanza però sintetizzando la
relazione Massari (scrive il Cianciulli: «dopo l’esaurientissimo e definitivo
studio del Massari nella relazione alla Camera dei Deputati nel maggio del
1863, ben poco di nuovo è permesso di dire a noi e, anche, agli altri». Molto
però e di diverso è stato scritto dopo il Cianciulli su dette cause.
Fra le cause remote del brigantaggio il
Cianciulli (fra parentesi è riportato il suo pensiero) elenca: le condizioni
economiche (miseria), il sistema economico borbonico (che è ritenuto un brigantaggio permanente), antagonismo
tra le classi, tradizione brigantesca (il brigantaggio era abituale ed endemico;
i Borbone, passando sopra ogni legge morale, osarono scegliere come loro
cooperatori i briganti), condizioni topografiche e conformazione geologica. Le
cause prossime del brigantaggio (sempre per il Cianciulli) furono:
comportamento dei Borbone diretto a turbare la pace nelle province meridionali,
l’evasione voluta dai Borbone di galeotti dalle carceri, prepotenze rimaste
impunite, ambizioni, vendette, destituzione di impiegati borbonici, leggi
contro il clero, reciproca incomprensione psicologica tra piemontesi e
napoletani, repressione esagerata, gravose e impopolari tasse imposte dal
governo di Torino, crisi improvvisa dell’economia meridionale a vantaggio delle
industrie settentrionali, antipatia contro la nuova legge del reclutamento
militare.
Scrive però ancora il Cianciulli: «L’errore
maggiore di Torino consisteva nel fatto di mandare dall’alta Italia dei
funzionari, che avevano l’incarico o la pretesa di “moralizzare” Napoli, mentre
riuscivano solamente a far prendere in uggia se stessi ed a suscitare critiche
contro il governo che li mandava».
Vengono poi narrati i fatti, sempre
dall’ottica piemontese, dei comitati borbonici (i più importanti erano quelli
di Roma e Napoli, il primo era presieduto da Francesco di Paola, Conte di
Trapani, il secondo dal barone Achille Cosenza) e dell’atteggiamento del
governo di Roma di fronte al brigantaggio (a Roma il brigantaggio veniva
alimentato moralmente e materialmente).
Molti legittimisti stranieri (“avventurieri
stranieri a servizio dei Borboni”, li chiama il Cianciulli) vennero a Roma e nel
Sud, nel tentativo di riportare Francesco II sul trono del Regno delle Due Sicilie.
Fra essi vi furono il francese Henri de Cathelineau, l’austriaco Zimmermann, il
tedesco Edwin Kalckreuth (fucilato dai piemontesi nel 1862), il belga Alfredo
de Trazégnies (fucilato dai piemontesi nel 1861), Emilio Teodoro de Christen,
Augustin Langlais, Klitsche de Lagrange, Carlo di Goyon (generale comandante le
truppe francesi a Roma), lo spagnolo Don José Borges (fucilato dai piemontesi a
Tagliacozzo l’8 dicembre 1861), Rafael Tristany (fece fucilare Chiavone).
Fra i briganti citati nel libro si hanno
Luigi Alonzi, Domenico Coia, Francesco Piazza, Luigi Muraca, i fratelli
Cipriano e Giona La Gala, Michele Caruso, Carmine Crocco, Giuseppe Nicola
Summa, Luca Pastore, Pasquale Romano, ecc.
Il libro si chiude con un capitolo sulla
repressione del brigantaggio. «Il governo italiano – scrive il Cianciulli – da principio
non diede importanza al brigantaggio, sia perché non bene informato sulla
gravità e complessità di questo doloroso fenomeno politico e sociale, sia perché
quando nel Parlamento qualche meridionale si faceva a chiedere dei rimedi, la
maggioranza si affrettava a stendere un velo pietoso su quella piaga domestica».
Michele Cianciulli (Montella, 1895 – Roma,
1965) è stato un avvocato italiano e poi assistente all´università di Roma
"La Sapienza", insegnava filosofia. Antifascista. È stato anche
responsabile del Grande Oriente di Italia negli anni 1950-1955.
Michele Cianciulli, Il Brigantaggio nell’Italia meridionale dal
1860 al 1870, Officine Grafiche Mantero, Tivoli 1937, pp. 204