Sabato 27 marzo 2010 - ore 18,00
Sala Consiliare Comune di Villa Castelli (Brindisi) - Piazza Municipio
Mario Spagnoletti, professore di Storia Contemporanea presso l'Università di Bari, parlerà sul tema: “Risorgimento e Brigantaggio. Commissione d'inchiesta sul brigantaggio e legge Pica”.
Il Risorgimento italiano continua a perdere quell'alone aprioristicamente positivo che per molto tempo gli è stato riservato. Storici e studiosi, basandosi su una mole immensa di documenti per molti anni nascosti o trascurati, danno una valutazione più critica sui fatti che hanno portato all'unità d'Italia. Si prende atto che quell'unità più che anelito di popolo è stato il frutto delle mire espansionistiche dei Savoia piemontesi, avallate da plurimi interessi dei grandi Stati che all'epoca governavano l'Europa. Viene fuori prepotentemente il movimento popolare che nel Meridione si oppose a quell'annessione: il brigantaggio politico e sociale.
Dice il professore Spagnoletti: «Nel 1931, in un saggio apparso su “Archivio Storico per le Province Napoletane”, Gino Doria liquidò sin troppo sbrigativamente e perentoriamente il brigantaggio meridionale postunitario come un fenomeno criminale puro e semplice, da espungere dalla più vitale storia dell’Italia. Bisognerà attendere la caduta del fascismo e il secondo dopoguerra perché la storiografia, specie quella più attenta alla storia politico-sociale, cominciasse a dedicarsi con attenzione e continuità alla storia della società italiana post-unitaria, privilegiando le ricerche più strettamente legate all’analisi dei rapporti tra stato e società civile e, più in particolare, di quelli tra Mezzogiorno e Stato unitario».
Insieme alle fragilissime basi di consenso su cui poggiava l’ossatura del nuovo organismo statale, anche a causa del ristrettissimo suffragio elettorale, dai nuovi studi e scavi archivistico-documentari veniva approfondita e arricchita la conoscenza del significato che ebbe la contrapposizione tra “paese legale” e “paese reale”, già denunciata dai contemporanei.
Non è casuale, con riferimento al Mezzogiorno, che la corretta sottolineatura della frattura tra “governanti” e “governati” approdasse ad una rinnovata attenzione al problema del brigantaggio, visto come prisma attraverso cui leggere la storia delle province meridionali nei mesi immediatamente successivi al Plebiscito.
La violenta opposizione del sud ai nuovi reggimenti politici e istituzionali, d’altronde, costituiva oggettivamente un osservatorio privilegiato per valutare i caratteri dell’opera di governo della Destra storica, impegnata in un difficile tentativo di armonizzazione dei diversi tronconi degli stati italiani pre-unitari.
Il quinquennio 1861-1865, coincidente nelle province meridionali con la stagione del “grande brigantaggio”, non solo non può essere enucleato dalla storia italiana contemporanea, ma esso costituisce, anzi, una fondamentale cartina di tornasole per valutare a fondo le linee politiche riuscite vincenti nei tormentati anni a cavallo dell’unificazione e che avranno una permanenza relativamente lunga nella successiva storia nazionale.
In un quadro che sembrava porre a rischio l’unità appena realizzata, le classi dirigenti liberali ridussero sostanzialmente il Mezzogiorno - prima e dopo la legge Pica - ad un mero “problema di ordine pubblico”, dimenticando il monito cavourriano di imporre l’unità anzitutto attraverso la “forza morale”.
Gli eredi di Cavour – conclude Spagnoletti – utilizzarono senza limiti il ricorso alla coazione militare più ancora che giuridica, dando vita ad una legislazione di emergenza che, oltre ad accentuare paradossalmente una sorta di “costrizione alla libertà”, deviò bruscamente dallo Stato di diritto, denegò i diritti pubblici soggettivi pur garantiti dallo Statuto del Regno, annullò l’allora vigente diritto positivo, segnò negativamente anche per il futuro i rapporti tra governanti e governati, tra autorità e libertà.
Dopo l'intervento del professor Spagnoletti verrà proiettato il documentario “Carmine Crocco - dei briganti il generale”, realizzato da Antonio Esposito e Massimo Lunardelli.
22 marzo 2010
20 marzo 2010
Vicende di un'altra storia, di Giuseppe Osvaldo Lucera
Opera quasi monumentale sul brigantaggio meridionale, composta di quattro volumi per un totale di 1.576 pagine. Il sottotitolo, a chiarimento, recita: “Insorgenza, Risorgimento, Unità d'Italia, Brigantaggio. Studio e critica di un periodo oscuro della nostra Storia Patria”. Il periodo oscuro è in senso lato il cosiddetto Risorgimento, in senso più ristretto riguarda il decennio postunitario 1860-1870 che registrò in tutto il Mezzogiorno d'Italia una forte reazione di massa contro quella che veniva percepita come una invasione-annessione da parte del Regno piemontese dei Savoia.
L'unità d'Italia fu per il Meridione un'immane tragedia, che costò la vita di tantissimi uomini, donne, vecchi, bambini, rei soltanto di difendere la propria terra e le proprie tradizioni, che furono cancellate con una guerra d'invasione e con un plebiscito pilotato e imposto con la forza.
La storiografia ufficiale sui fatti accaduti in quegli anni si è sempre preoccupata di far piacere al Potere, distruggendo ed eliminando tutto ciò che al Potere non aggrada, finendo così inevitabilmente con lo scrivere una storia parziale e per niente obiettiva. Lucera ha fatto del Risorgimento uno studio alternativo, da un'altra angolazione e da un altro punto di vista, cercando di mettere in evidenza tutto ciò che dagli storici di regime è stato volutamente nascosto; ha cercato di smentire l'infinita sequela di bugie che sono state inculcate nelle scuole italiane con i libri di testo. Ha voluto stilare, per una corretta e giusta giustizia storica, una versione meridionale di quella che fu la conquista del Sud da parte dei Savoia piemontesi.
Come premessa vengono presentate ed esaminate una serie di questioni che hanno caratterizzato la politica e la società degli anni in cui veniva costituendosi il nuovo Stato italiano, con conseguenze negative che arrivano fino ai giorni nostri.
L'Italia dell'Ottocento era suddivisa in tanti piccoli stati, regni e ducati. Il più grande era il Regno delle Due Sicilie, che comprendeva la Campania, l'Abruzzo, il Molise, la Basilicata, la Puglia, la Calabria e la Sicilia. Seguiva lo Stato Pontificio, che comprendeva grosso modo il Lazio, le Marche e l'Umbria. L'altro Regno era quello di Sardegna, formato dal Piemonte, dalla Liguria, dalla Sardegna, dalla Savoia e dalla contea di Nizza. Il Regno Lombardo-Veneto era sotto l'influenza austriaca, e per esso si combattettero le guerre d'indipendenza. Vi erano ancora presenti in Italia, con una loro indipendenza, il Granducato di Toscana, e i ducati di Modena e di Parma.
A volere l'unificazione dell'Italia, sotto l'egida dei Savoia, fu una piccola e sparuta minoranza borghese, aiutata in minima parte dall'aristocrazia e da una piccolissima fetta della nobiltà, soprattutto quella terriera e provinciale. La borghesia era la classe intermedia tra la nobiltà rurale, cittadina o aristocratica e il mondo dei contadini. La borghesia appariva molto equilibrata e molto moderata. Sue caratteristiche erano un esasperato ed esteriore moralismo, che sfociava nell'ipocrisia religiosa.
Molteplici in quegli anni erano in Italia le correnti d'opinione, che possono raggrupparsi in due grandi movimenti: quello dei conservatori dello status quo (aristocratici e nobili, uniti all'intero mondo contadino) e quello che auspicava un'Italia unita, governata da un potere borghese e monarchico (unionisti, annessionisti, federalisti, teocratici).
I piemontesi, i liberali, i galantuomini risolsero il tutto dando inizio, il 6 maggio 1860, all'invasione dei territori del Regno delle Due Sicilie. Scrive Lucera: «Non si andava a soccorrere nessuno, perché nessuno aveva chiesto aiuto. Non si andava ad abbattere nessun sovrano assoluto perché non si sostituisce un sovrano assoluto con un altro dello stesso genere. Non si andava a liberare nessun paese, perché nessun paese era occupato da un altro popolo straniero».
Fu una pura e semplice annessione. I “cattivi maestri” di questa losca operazione furono Giuseppe Garibaldi (eroe o pavido?, ateo e negriero?, esperto finanziere o ladro?), Camillo Benso conte di Cavour (lo spergiuro), Giuseppe Mazzini (il “rivoluzionario”), Liborio Romano (l'uomo di Patù); a cui si possono aggiungere Carlo Pisacane e i fratelli Bandiera. A tutti questi personaggi Lucera, nei suoi libri, dedica molte e chiarificatrici pagine.
A questa annessione si opposero i Briganti, che avevano dalla loro parte il popolo (contadini ed ex militari borbonici) ma anche il Clero e i Comitati borbonici. Questa resistenza del Sud contro i Savoia non ebbe successo per l'abissale differenza delle forze in campo: 8.000 briganti contro 120.000 soldati piemontesi. Eppure la resistenza durò parecchi anni. I piemontesi riuscirono a sconfiggerla solo ricorrendo a strumenti di repressione inauditi: legislazione d'emergenza, stato d'assedio permanente, tribunali militari, legge Pica (codice penale contro i “reati” di brigantaggio), distruzione ed incendio di interi paesi con relativa popolazione, deportazioni in campi di concentramento non solo di militari del disciolto esercito borbonico ma anche d'intere famiglie colpevoli soltanto di essere parenti dei briganti, condanne al carcere di donne e bambini; ma lo strumento peggiore di tutti fu la fucilazione sommaria, immediata e repentina, senza processo.
Il brigantaggio, secondo Lucera, non fu nient'altro che la primissima manifestazione di quella lotta di classe che iniziava a mettere le radici in una società totalmente squilibrata e a vantaggio della borghesia e della nobiltà. Il brigantaggio fu un vero e proprio fenomeno di sollevazione di popolo, un evento d'insorgenza puro e semplice, con aspetti fortemente sociali, ma anche e soprattutto con valenze politiche di estrema importanza.
Nei volumi vengono descritte estesamente non solo le vicende riguardanti quattro briganti postunitari, ma anche quelle di tre briganti preunitari.
Michele Caruso, commerciante di cavalli, era nato nel 1837 a Torremaggiore in provincia di Capitanata (oggi Foggia). Divenne brigante perché voleva emanciparsi e sradicarsi dalla condizione di povertà e miseria in cui era nato, nella speranza di poter cambiare la sua condizione sociale e quella del mondo contadino. Riuscì a tenere in scacco, per tre lunghissimi anni, tutti i distaccamenti militari piemontesi di stanza nella sua zona. Arrivò a comandare fino a trecento uomini. Ebbe intensi rapporti con molti capi briganti dell'epoca, che lo elessero capo fra i capi. Finì la sua carriera di brigante insieme ad un solo compagno. Fu catturato perché tradito. Il suo processo durò solo cinque ore. Fu fucilato a Benevento dai bersaglieri di Pallavicini il 12 dicembre 1863. Prima della fucilazione gli furono scattate diverse fotografie. Per i giovani del tempo, poveri e contadini, gli uomini come Caruso erano considerati come esseri superiori, come dei miti da eguagliare.
Pasquale Domenico Romano, detto il sergente Romano, era nato a Gioia del Colle in provincia di Bari nel 1833. Figlio di un pastore, entrò nell'esercito borbonico, dove trascorse dieci anni conseguendo i gradi di sergente e di alfiere. Durante questi anni imparò a leggere e a scrivere. Dopo il plebiscito del 1860 e l'arrivo dei Savoia il Romano fu esautorato dai suoi compiti militari e rispedito a casa. Entrò a far parte del molto attivo comitato borbonico di Gioia e da questo venne nominato Comandante Generale. Riuscì a formare una banda di briganti che non volle superasse mai le duecento unità. Entrò in contatto con tutte le altre bande operanti nel Meridione d'Italia. Conseguì vari successi in vari scontri con i piemontesi, anche se la sua avventura brigantesca era iniziata con il tragico massacro avvenuto nel suo paese il 28 luglio 1861. Affiancarono il Romano valenti capi briganti: Nenna Nenna, Pizzichicchio, La Veneziana, 'u Crapare, Munzegnore. Fu ucciso a sciabolate da un bersagliere lombardo il 5 gennaio 1863 nel bosco di Vallata, in tenimento di Gioia del Colle. Il Romano è considerato il più importante brigante legittimista italiano postunitario.
Giuseppe Maria Tardìo, nato a Piaggine (Salerno) nel 1834, fu un capo brigante laureato in legge. Maturò la sua vocazione brigantesca nel carcere di Poggio Reale, a contatto di un frate cappuccino acceso sostenitore di Francesco II. Fuggito dal carcere seppe diventare il capo indiscusso di una fiumana di persone: da due a tremila uomini. Fu artefice di sole due grandi operazioni militari: vinse la prima, fu sconfitto nella seconda. Morirà avvelenato il 23 giugno 1892, nel carcere di Favignana in Sicilia. Può essere definito un aristocratico della rivoluzione; un insorgente diverso e profondamente più politico rispetto ad altri. E' uno dei pochi briganti al quale è stata intestata una piazza, nel suo paese Piaggine. Anche una fondazione porta il suo nome.
Josè Borjès fu un generale spagnolo legittimista, che corse in aiuto del Re Borbone spodestato. Secondo il piano dei Comitati borbonici avrebbe dovuto assumere il comando di tutti i movimenti di rivolta contro i Savoia, presenti in tutto l'ex Regno delle Due Sicilie. Ma così non fu perché i capi briganti, e più di tutti Carmine Crocco, mal sopportavano di essere comandati da altri, specie se stranieri. La vicenda italiana di Borjès dura meno di quattro mesi e viene da lui narrata nel suo “Diario”. Proveniente da Malta, sbarcò con una ventina di ufficiali il 13 settembre 1861 in Calabria, dove incontrò il brigante Mittica. Il 22 ottobre 1861, in Lucania nel Bosco di Lagopesole incontra Carmine Crocco. Rimase sostanzialmente solo, da nessuna parte incontrò le masse di popolo, che gli erano state promesse, per riportare i Borbone sul trono. Fu fucilato alle spalle dai piemontesi l'8 dicembre 1861, a Tagliacozzo in Abruzzo.
I briganti preunitari, dei quali Lucera parla, sono quelli che si opposero all'invasione napoleonica del Regno delle Due Sicilie, avvenuta nei primi anni del 1800: i fratelli Meomartino detti i Vardarelli che operarono fra Capitanata e Molise, il prete don Ciro Annicchiarico attivo in Terra d'Otranto, i fratelli Di Franco presenti sui monti della Daunia.
Uno studio approfondito Lucera dedica anche a briganti pre e post unitari della sua nativa Biccari in Capitanata (Foggia).
Nei quattro libri sul brigantaggio si incontrano anche diversi parallelismi con avvenimenti più a noi vicini: fascismo e berlusconismo, movimenti di liberazione sud americani, avvenimenti iracheni e palestinesi, centri di accoglienza temporanei, clandestini, irregolari, abusivi, extra comunitari.
La finalità generale dei quattro volumi di Lucera potrebbe sintetizzarsi in una sua stessa affermazione: «La nostra non è una missione esclusivamente pro briganti, ma è una missione chiarificatrice di come l'Unità ebbe luogo sulla nostra terra».
L'interessante, significativa e meritoria opera di Lucera potrebbe essere organizzata in tanti altri modi, per esempio con una successione cronologica degli avvenimenti. Come pure da essa potrebbero essere tratte opere monografiche su svariati argomenti.
Rocco Biondi
Giuseppe Osvaldo Lucera, Vicende di un'altra storia ovvero Insorgenza, Risorgimento, Unità d'Italia, Brigantaggio, Edizioni Simple, Macerata 2009, Vol. I (pp. 448), Vol. II (pp. 466), Vol. III (pp. 472), Vol. IV (pp. 190)
L'unità d'Italia fu per il Meridione un'immane tragedia, che costò la vita di tantissimi uomini, donne, vecchi, bambini, rei soltanto di difendere la propria terra e le proprie tradizioni, che furono cancellate con una guerra d'invasione e con un plebiscito pilotato e imposto con la forza.
La storiografia ufficiale sui fatti accaduti in quegli anni si è sempre preoccupata di far piacere al Potere, distruggendo ed eliminando tutto ciò che al Potere non aggrada, finendo così inevitabilmente con lo scrivere una storia parziale e per niente obiettiva. Lucera ha fatto del Risorgimento uno studio alternativo, da un'altra angolazione e da un altro punto di vista, cercando di mettere in evidenza tutto ciò che dagli storici di regime è stato volutamente nascosto; ha cercato di smentire l'infinita sequela di bugie che sono state inculcate nelle scuole italiane con i libri di testo. Ha voluto stilare, per una corretta e giusta giustizia storica, una versione meridionale di quella che fu la conquista del Sud da parte dei Savoia piemontesi.
Come premessa vengono presentate ed esaminate una serie di questioni che hanno caratterizzato la politica e la società degli anni in cui veniva costituendosi il nuovo Stato italiano, con conseguenze negative che arrivano fino ai giorni nostri.
L'Italia dell'Ottocento era suddivisa in tanti piccoli stati, regni e ducati. Il più grande era il Regno delle Due Sicilie, che comprendeva la Campania, l'Abruzzo, il Molise, la Basilicata, la Puglia, la Calabria e la Sicilia. Seguiva lo Stato Pontificio, che comprendeva grosso modo il Lazio, le Marche e l'Umbria. L'altro Regno era quello di Sardegna, formato dal Piemonte, dalla Liguria, dalla Sardegna, dalla Savoia e dalla contea di Nizza. Il Regno Lombardo-Veneto era sotto l'influenza austriaca, e per esso si combattettero le guerre d'indipendenza. Vi erano ancora presenti in Italia, con una loro indipendenza, il Granducato di Toscana, e i ducati di Modena e di Parma.
A volere l'unificazione dell'Italia, sotto l'egida dei Savoia, fu una piccola e sparuta minoranza borghese, aiutata in minima parte dall'aristocrazia e da una piccolissima fetta della nobiltà, soprattutto quella terriera e provinciale. La borghesia era la classe intermedia tra la nobiltà rurale, cittadina o aristocratica e il mondo dei contadini. La borghesia appariva molto equilibrata e molto moderata. Sue caratteristiche erano un esasperato ed esteriore moralismo, che sfociava nell'ipocrisia religiosa.
Molteplici in quegli anni erano in Italia le correnti d'opinione, che possono raggrupparsi in due grandi movimenti: quello dei conservatori dello status quo (aristocratici e nobili, uniti all'intero mondo contadino) e quello che auspicava un'Italia unita, governata da un potere borghese e monarchico (unionisti, annessionisti, federalisti, teocratici).
I piemontesi, i liberali, i galantuomini risolsero il tutto dando inizio, il 6 maggio 1860, all'invasione dei territori del Regno delle Due Sicilie. Scrive Lucera: «Non si andava a soccorrere nessuno, perché nessuno aveva chiesto aiuto. Non si andava ad abbattere nessun sovrano assoluto perché non si sostituisce un sovrano assoluto con un altro dello stesso genere. Non si andava a liberare nessun paese, perché nessun paese era occupato da un altro popolo straniero».
Fu una pura e semplice annessione. I “cattivi maestri” di questa losca operazione furono Giuseppe Garibaldi (eroe o pavido?, ateo e negriero?, esperto finanziere o ladro?), Camillo Benso conte di Cavour (lo spergiuro), Giuseppe Mazzini (il “rivoluzionario”), Liborio Romano (l'uomo di Patù); a cui si possono aggiungere Carlo Pisacane e i fratelli Bandiera. A tutti questi personaggi Lucera, nei suoi libri, dedica molte e chiarificatrici pagine.
A questa annessione si opposero i Briganti, che avevano dalla loro parte il popolo (contadini ed ex militari borbonici) ma anche il Clero e i Comitati borbonici. Questa resistenza del Sud contro i Savoia non ebbe successo per l'abissale differenza delle forze in campo: 8.000 briganti contro 120.000 soldati piemontesi. Eppure la resistenza durò parecchi anni. I piemontesi riuscirono a sconfiggerla solo ricorrendo a strumenti di repressione inauditi: legislazione d'emergenza, stato d'assedio permanente, tribunali militari, legge Pica (codice penale contro i “reati” di brigantaggio), distruzione ed incendio di interi paesi con relativa popolazione, deportazioni in campi di concentramento non solo di militari del disciolto esercito borbonico ma anche d'intere famiglie colpevoli soltanto di essere parenti dei briganti, condanne al carcere di donne e bambini; ma lo strumento peggiore di tutti fu la fucilazione sommaria, immediata e repentina, senza processo.
Il brigantaggio, secondo Lucera, non fu nient'altro che la primissima manifestazione di quella lotta di classe che iniziava a mettere le radici in una società totalmente squilibrata e a vantaggio della borghesia e della nobiltà. Il brigantaggio fu un vero e proprio fenomeno di sollevazione di popolo, un evento d'insorgenza puro e semplice, con aspetti fortemente sociali, ma anche e soprattutto con valenze politiche di estrema importanza.
Nei volumi vengono descritte estesamente non solo le vicende riguardanti quattro briganti postunitari, ma anche quelle di tre briganti preunitari.
Michele Caruso, commerciante di cavalli, era nato nel 1837 a Torremaggiore in provincia di Capitanata (oggi Foggia). Divenne brigante perché voleva emanciparsi e sradicarsi dalla condizione di povertà e miseria in cui era nato, nella speranza di poter cambiare la sua condizione sociale e quella del mondo contadino. Riuscì a tenere in scacco, per tre lunghissimi anni, tutti i distaccamenti militari piemontesi di stanza nella sua zona. Arrivò a comandare fino a trecento uomini. Ebbe intensi rapporti con molti capi briganti dell'epoca, che lo elessero capo fra i capi. Finì la sua carriera di brigante insieme ad un solo compagno. Fu catturato perché tradito. Il suo processo durò solo cinque ore. Fu fucilato a Benevento dai bersaglieri di Pallavicini il 12 dicembre 1863. Prima della fucilazione gli furono scattate diverse fotografie. Per i giovani del tempo, poveri e contadini, gli uomini come Caruso erano considerati come esseri superiori, come dei miti da eguagliare.
Pasquale Domenico Romano, detto il sergente Romano, era nato a Gioia del Colle in provincia di Bari nel 1833. Figlio di un pastore, entrò nell'esercito borbonico, dove trascorse dieci anni conseguendo i gradi di sergente e di alfiere. Durante questi anni imparò a leggere e a scrivere. Dopo il plebiscito del 1860 e l'arrivo dei Savoia il Romano fu esautorato dai suoi compiti militari e rispedito a casa. Entrò a far parte del molto attivo comitato borbonico di Gioia e da questo venne nominato Comandante Generale. Riuscì a formare una banda di briganti che non volle superasse mai le duecento unità. Entrò in contatto con tutte le altre bande operanti nel Meridione d'Italia. Conseguì vari successi in vari scontri con i piemontesi, anche se la sua avventura brigantesca era iniziata con il tragico massacro avvenuto nel suo paese il 28 luglio 1861. Affiancarono il Romano valenti capi briganti: Nenna Nenna, Pizzichicchio, La Veneziana, 'u Crapare, Munzegnore. Fu ucciso a sciabolate da un bersagliere lombardo il 5 gennaio 1863 nel bosco di Vallata, in tenimento di Gioia del Colle. Il Romano è considerato il più importante brigante legittimista italiano postunitario.
Giuseppe Maria Tardìo, nato a Piaggine (Salerno) nel 1834, fu un capo brigante laureato in legge. Maturò la sua vocazione brigantesca nel carcere di Poggio Reale, a contatto di un frate cappuccino acceso sostenitore di Francesco II. Fuggito dal carcere seppe diventare il capo indiscusso di una fiumana di persone: da due a tremila uomini. Fu artefice di sole due grandi operazioni militari: vinse la prima, fu sconfitto nella seconda. Morirà avvelenato il 23 giugno 1892, nel carcere di Favignana in Sicilia. Può essere definito un aristocratico della rivoluzione; un insorgente diverso e profondamente più politico rispetto ad altri. E' uno dei pochi briganti al quale è stata intestata una piazza, nel suo paese Piaggine. Anche una fondazione porta il suo nome.
Josè Borjès fu un generale spagnolo legittimista, che corse in aiuto del Re Borbone spodestato. Secondo il piano dei Comitati borbonici avrebbe dovuto assumere il comando di tutti i movimenti di rivolta contro i Savoia, presenti in tutto l'ex Regno delle Due Sicilie. Ma così non fu perché i capi briganti, e più di tutti Carmine Crocco, mal sopportavano di essere comandati da altri, specie se stranieri. La vicenda italiana di Borjès dura meno di quattro mesi e viene da lui narrata nel suo “Diario”. Proveniente da Malta, sbarcò con una ventina di ufficiali il 13 settembre 1861 in Calabria, dove incontrò il brigante Mittica. Il 22 ottobre 1861, in Lucania nel Bosco di Lagopesole incontra Carmine Crocco. Rimase sostanzialmente solo, da nessuna parte incontrò le masse di popolo, che gli erano state promesse, per riportare i Borbone sul trono. Fu fucilato alle spalle dai piemontesi l'8 dicembre 1861, a Tagliacozzo in Abruzzo.
I briganti preunitari, dei quali Lucera parla, sono quelli che si opposero all'invasione napoleonica del Regno delle Due Sicilie, avvenuta nei primi anni del 1800: i fratelli Meomartino detti i Vardarelli che operarono fra Capitanata e Molise, il prete don Ciro Annicchiarico attivo in Terra d'Otranto, i fratelli Di Franco presenti sui monti della Daunia.
Uno studio approfondito Lucera dedica anche a briganti pre e post unitari della sua nativa Biccari in Capitanata (Foggia).
Nei quattro libri sul brigantaggio si incontrano anche diversi parallelismi con avvenimenti più a noi vicini: fascismo e berlusconismo, movimenti di liberazione sud americani, avvenimenti iracheni e palestinesi, centri di accoglienza temporanei, clandestini, irregolari, abusivi, extra comunitari.
La finalità generale dei quattro volumi di Lucera potrebbe sintetizzarsi in una sua stessa affermazione: «La nostra non è una missione esclusivamente pro briganti, ma è una missione chiarificatrice di come l'Unità ebbe luogo sulla nostra terra».
L'interessante, significativa e meritoria opera di Lucera potrebbe essere organizzata in tanti altri modi, per esempio con una successione cronologica degli avvenimenti. Come pure da essa potrebbero essere tratte opere monografiche su svariati argomenti.
Rocco Biondi
Giuseppe Osvaldo Lucera, Vicende di un'altra storia ovvero Insorgenza, Risorgimento, Unità d'Italia, Brigantaggio, Edizioni Simple, Macerata 2009, Vol. I (pp. 448), Vol. II (pp. 466), Vol. III (pp. 472), Vol. IV (pp. 190)
8 marzo 2010
Mughini e i neoborbonici
Ho già scritto e ripeto che non sono né borbonico né neoborbonico, ma quello che ha detto Giampiero Mughini contro Alessandro Romano e Gennaro De Crescenzo, intervistati per la trasmissione di Rai1 “L'arena” condotta da Giletti di domenica 7 marzo 2010, mi ha profondamente indignato. Li ha accusati di essere dei pazzi da internare in manicomio.
Romano e De Crescenzo avevano garbatamente espresso una loro da me condivisibile opinione sulle malefatte dei Savoia al momento dell'annessione del Sud per fare l'unità d'Italia.
Mughini dimostrando un'assoluta ignoranza dei tragici fatti avvenuti nei primi anni della cosiddetta unità d'Italia (1860-1870), con il suo solito spocchioso comportamento, ha irriso alla verità storica che lentamente comincia a venire alla luce.
Così facendo Mughini si è dimostrato un degno emulo del criminologo Lombroso, che sezionando crani di briganti, massacrati dai piemontesi, tirò fuori l'aberrante teoria che quegli insorgenti meridionali erano dei delinquenti nati.
A quei tempi, ma anche dopo e forse ancora oggi, quelli del nord considerano noi meridionali “vaiolosi”, “beduini”, “cancrena”, “barbari”, “Africa!”. E a questo coro si aggiungono anche dei meridionali rinnegati, trapiantati al nord. E Mughini è uno di questi ultimi.
Quello che è avvenuto durante la trasmissione è profondamente scorretto. Dei “neoborbonici” è stata mandata in onda una intervista precedentemente registrata. A loro non è stato concesso di replicare alle cazzate dette in diretta nello studio. Non ci si poteva forse aspettare che gli ospiti presenti nel salotto di Giletti stigmatizzassero le ingiuriose frasi di Mughini. Ma Giletti doveva farlo e non lo ha fatto.
Mughini, da ignorante patentato, non ha offeso solo Romano e De Crescenzo, ma ha offeso i meridionali.
Sono infine profondamente rammaricato dal fatto che Mughini dica di essere tifoso juventino, come me. Bisognerebbe togliergli questa “patente”. Mughini non rende un buon servizio alla “società juventina”, anzi ne rende uno pessimo e squalificante.
Romano e De Crescenzo avevano garbatamente espresso una loro da me condivisibile opinione sulle malefatte dei Savoia al momento dell'annessione del Sud per fare l'unità d'Italia.
Mughini dimostrando un'assoluta ignoranza dei tragici fatti avvenuti nei primi anni della cosiddetta unità d'Italia (1860-1870), con il suo solito spocchioso comportamento, ha irriso alla verità storica che lentamente comincia a venire alla luce.
Così facendo Mughini si è dimostrato un degno emulo del criminologo Lombroso, che sezionando crani di briganti, massacrati dai piemontesi, tirò fuori l'aberrante teoria che quegli insorgenti meridionali erano dei delinquenti nati.
A quei tempi, ma anche dopo e forse ancora oggi, quelli del nord considerano noi meridionali “vaiolosi”, “beduini”, “cancrena”, “barbari”, “Africa!”. E a questo coro si aggiungono anche dei meridionali rinnegati, trapiantati al nord. E Mughini è uno di questi ultimi.
Quello che è avvenuto durante la trasmissione è profondamente scorretto. Dei “neoborbonici” è stata mandata in onda una intervista precedentemente registrata. A loro non è stato concesso di replicare alle cazzate dette in diretta nello studio. Non ci si poteva forse aspettare che gli ospiti presenti nel salotto di Giletti stigmatizzassero le ingiuriose frasi di Mughini. Ma Giletti doveva farlo e non lo ha fatto.
Mughini, da ignorante patentato, non ha offeso solo Romano e De Crescenzo, ma ha offeso i meridionali.
Sono infine profondamente rammaricato dal fatto che Mughini dica di essere tifoso juventino, come me. Bisognerebbe togliergli questa “patente”. Mughini non rende un buon servizio alla “società juventina”, anzi ne rende uno pessimo e squalificante.
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