Sono protagonisti del racconto i briganti,
non intesi nella loro accezione negativa, ma quali partigiani e patrioti. Essi
erano uomini del popolo. Gli ufficiali e gli uomini politici erano passati,
nella grande maggioranza, dalla parte dei piemontesi per conservare i loro
molti privilegi. Solo il clero, spogliato di tutti i beni, lottò dalla parte
dei briganti. Nella sola provincia di Foggia ben 23.280 tra Enti e Corporazioni
religiose, dice il D’Amelio, vennero accorpati nel primo quinquennio
postunitario al demanio pubblico; conventi e palazzi del clero divennero
stabili adibiti a pubblici uffici, a scuole e caserme. Il vescovo della diocesi
di Foggia, monsignor Bernardino Maria Frascolla, lottò a favore di Francesco
II. Ma venne a mancare un cardinal Ruffo, che con la sua autorità ed il suo
prestigio, riuscisse a coalizzare tutte forze borboniche: preti, frati, baroni,
lazzaroni, ex militari, ecc.
Il Re e la Regina decisero di lasciare
Napoli e tentare l’ultima resistenza a Gaeta, dove giunsero il 7 settembre
1860, nello stesso giorno che Garibaldi faceva il suo ingresso a Napoli atteso,
tra gli altri, dal francescano Fra’ Pantaleo e dal celebre pittore di Foggia,
Saverio Altamura.
Liborio Romano, nato a Patù nel leccese,
ministro dell’interno e capo della Polizia borbonica, aveva portato a termine
con sfacciata ipocrisia il suo compito: consegnare il Regno delle Due Sicilie
ai piemontesi.
Garibaldi consegnò, a malincuore, al re
piemontese Vittorio Emanuele II il regno di Napoli, nell’incontro avvenuto a
Teano, o più precisamente a Caianiello. Garibaldi avrebbe voluto arrivare a
Roma, per farla capitale d’Italia, ma gli fu impedito.
Intanto era stato indetto nel Meridione per
il 21 ottobre 1860 la farsa e il broglio del plebiscito. In pochi paesi del
foggiano si poté votare nel giorno stabilito, per protesta e conseguenti
disordini; si dovette attendere il ritorno della calma per portare la gente
alle urne; ciò avvenne, per esempio, a S. Marco in Lamis, ad Ascoli Satriano, a
Vico del Gargano. Nella Capitanata si ebbero a favore dell’unità 54.256 voti e
996 contro; non si può prestar fede a questi risultati.
Nell’opera di repressione del brigantaggio
nel foggiano troviamo un secondo Liborio Romano che cambiava casacca a seconda
di dove tirava il vento ed era molto venale; ad accompagnarlo nella repressione
vi fu il commissario della guardia nazionale Michele Cesare Rebecchi.
Sangue, violenze e morti vi furono a San
Giovanni Rotondo; capo dei ribelli briganti era Francesco Cascavilla. La stessa
cosa avvenne a Vieste l’anno dopo ad opera di Giovanni e Alfonso Perone, che
operavano per i piemontesi.
Ad Accadia (Foggia) il 21 ottobre 1860,
giorno del plebiscito, vi furono violenze e sangue con la registrazione di due
morti. Vennero arrestate oltre cento persone, ma fra i processati e condannati
vi fu solo povera gente, non vi fu nessun notabile.
A Bovino il giorno del plebiscito fu
alquanto calmo, ma vi era stata precedentemente, il 19 agosto, una rivolta
popolare con occupazione di terre private e demaniali. Ricacciati a
schioppettate, i rivoltosi incendiarono il Municipio, distruggendo pratiche e
carteggio vario.
I maggiori capobriganti che operarono nel
foggiano furono Giuseppe Schiavone, Michele Caruso, con puntatine di Carmine
Crocco, e la brigantessa Filomena De Marco (detta Pennacchio). È da precisare,
dice D’Amelio (per bocca dell’avvocato Filetti), che in atri tempi la parola
“brigante” non suonava offesa alcuna, perché ricordava la discesa nell’Italia
Meridionale, nella seconda metà del ‘300, di mercenari svizzeri, che
volgarmente venivano chiamati “briganti”.
A contrastare i briganti fu mandato da
Torino, fra gli altri, il generale Giorgio Pallavicino, che ordinava
fucilazioni senza farsi scrupolo, ed ebbe a guida Giuseppe Caruso, rivelatore
di tutte le astuzie, dei ricettacoli e delle amicizie brigantesche, un vecchio
brigante della banda di Crocco.
Successivamente il brigantaggio si tramutò
in emigrazione, che divenne il dramma della Capitanata e dell’intero Meridione
d’Italia; nel periodo che va dal 1865 al 1875, in media ogni anno ben 123.000
abbandonavano il territorio dell’ex Regno di Napoli.
Il libro ha una parte seconda e terza, che
contiene una serie di documenti, che vanno al di là del racconto e che sono
proposti direttamente dall’autore D’Amelio, che parlano sempre della provincia
di Foggia di quegli anni.
Nemo Candido D’Amelio, Quel lontano 1860, Editrice Daunia
Agricola, Foggia 1989, pagg. 243