Per
capire come Cinnella valuti il brigantaggio postunitario basta leggere questa
sua affermazione: «Il grande brigantaggio, specie nella sua fase più cupa, non
essendo rischiarato da alcuna luce né politica né sociale, era sorretto solo
dall’istinto di conservazione dei suoi membri e dalla pulsione distruttiva nei
riguardi del mondo esterno». In sostanza quindi i briganti erano delinquenti
comuni che pensavano solo a se stessi.
Avendo questa visione mi sembra strano che
il Cinnella abbia voluto scrivere un libro sul capobrigante più significativo e
importante di quel periodo: Carmine Crocco. Sembra giustificare questa sua
scelta quando afferma che «le vicende biografiche di Crocco furono talmente
straordinarie e rocambolesche, che non necessitano di ulteriori fronzoli».
Obiettivo del suo lavoro quindi sembra essere la volontà di sfrondare la
biografia di Crocco dalla leggenda e dal mito che la circonderebbero. In realtà
però a me sembra che voglia sfrondare il brigantaggio da ogni valore sociale e
politico, in controtendenza con quasi tutti i più recenti studi.
Per Cinnella sono luoghi comuni da
eliminare le posizioni sul brigantaggio tenute da Franco Molfese, da Renzo Del
Carria, da Eric J. Hobsbawm. Molfese considerava il brigantaggio una guerra di
classe ed una embrionale rivoluzione contadina; riteneva Crocco un autentico
comandante partigiano. Del Carria pensava che il brigantaggio fosse stata la
prima rivolta contadina contro lo Stato borghese italiano; Crocco era un grande
dirigente rivoluzionario contadino. Hobsbawm annovera Crocco tra i banditi
sociali che «cessano di essere banditi e diventano militanti della
rivoluzione». Cinnella critica queste posizioni e quella degli scrittori di
cose locali che ad esse si sono ispirate, portando come esempio Antonio
Ruggieri, Antonio De Leo, Tommaso Pedio. Noi siamo più vicini a queste
posizioni che non a quelle di Cinnella.
Carmine Crocco nacque a Rionero in Vulture
il 5 giugno 1830 da Francesco e Maria Gerarda Santomauro. Il soprannome
Donatelli, spesso scambiato con il suo cognome autentico (Crocco), gli venne
dal nonno paterno Donato. Imparò a leggere e scrivere grazie all’insegnamento
domestico impartito dallo zio Martino. Girò per molti paesi specialmente della
Puglia. All’inizio del 1849 divenne soldato borbonico prestando servizio a
Napoli, in Sicilia e a Gaeta. Dopo quattro anni disertò e si diede alla macchia
nelle fitte boscaglie intorno a Rionero. Dopo tre anni incappò nelle maglie
della giustizia e fu condannato a 19 anni di carcere, da dove scappò nel
dicembre 1859. Militò poi, con alcuni suoi compagni briganti, nell’esercito
garibaldino. Ma non essendo state mantenute le promesse di condonargli alcuni
reati commessi, ritornò al “mestiere” di brigante. Riuscì a formare una molto
consistente banda, organizzata militarmente, con la quale assaltò (e
riconquistò ai Borbone) Ripacandida, Venosa, Barile, Rapolla, Avigliano,
Grassano, Melfi, Monteverde, Carbonara, Calitri, Sant’Andrea, Conza.
Nell’estate del 1861, scrive Cinnella,
divampò una ferocissima guerra civile tra avversari e sostenitori del nuovo
regime sabaudo. Alla crudeltà dei briganti l’esercito piemontese rispondeva con
esecuzioni sommarie. E l’autore sembra parteggiare per l’esercito che
reagirebbe a un “nemico subdolo e spietato”. Ma forse si contraddice un po’
quando afferma che non trova nessuna giustificazione il ricorso alle
intimidazioni e alle rappresaglie nei confronti della popolazione civile, “che
in taluni casi assunsero un carattere di apocalittico terrore”. E arriva a
definire infame la spedizione punitiva contro i due grossi borghi del Matese,
Pontelandolfo e Casalduni, bruciati e rasi al suolo dall’esercito, perché
accusati di complicità con i briganti che avevano ucciso una quarantina di
soldati. La distruzione dei due paesi, scrive ancora Cinnella, ebbe il solo
effetto di rinfocolare l’odio delle popolazioni meridionali verso i nuovi
funzionari, visti come conquistatori, e di accrescere il rimpianto della
deposta monarchia borbonica.
Nel libro si parla anche del sergente
Pasquale Romano, capobrigante nato a Gioia del Colle in Terra di Bari; del
legittimista spagnolo José Borges, mandato dal Comitato borbonico a capeggiare
la rivolta ma che troverà la morte a Tagliacozzo per mano piemontese; del
capobrigante Luigi Alonzi detto Chiavone fatto poi uccidere dai legittimisti
stranieri; di Giuseppe Caruso che prima collaborò con Crocco e poi lo tradì
consegnandolo ai piemontesi.
Crocco, nel processo celebratosi a Potenza
nel 1872, fu condannato a morte con sentenza già scritta prima di essere
emanata. Due anni dopo, la pena capitale fu commutata nei lavori forzati a vita.
In carcere, nelle isole di Santo Stefano prima e di Portoferraio poi, dove rimase
per oltre trenta anni (morì il 18 giugno 1905 all’età di 75 anni), Crocco
scrisse la sua autobiografia, pubblicata nel 1903 dal capitano Eugenio Massa.
Cinnella avanza tre possibili ipotesi sulla sua stesura, tenuto conto che
Crocco fosse appena capace di leggere e scrivere. La prima è che Massa abbia
avuto in mano il lungo brogliaccio di Crocco e abbia deciso di conferirgli una
dignità letteraria, emendandolo o magari riscrivendolo da cima a fondo. La
seconda ipotesi, “sebbene appaia meno probabile”, è che Massa abbia preso
appunti ascoltando Crocco, provvedendo poi a rielaborare e risistemare il
materiale raccolto. La terza ipotesi è che qualchedun altro abbia ripulito il
manoscritto originale di Crocco, consegnandolo poi al capitano Massa in tale
nuova forma. Comunque sia, Cinnella scrive che «se la forma letteraria è frutto
di penna esperta e colta, la sostanza del libro rispecchia l’universo mentale
del brigante e la visione che questi intendeva offrire della sua vita e delle
sue gesta».
Più vicino alle possibilità di scrittura di
Crocco sembra essere un lungo frammento autobiografico pubblicato nel 1907 da
Francesco Cascella, in un libro dedicato al fenomeno generale del brigantaggio.
Una terza storia della sua vita Crocco
consegnò al lombrosiano professor Pasquale Penta, che nel 1901 pubblicò un
saggio sui delinquenti “primitivi” nella rivista di psichiatria da lui diretta,
attingendo parecchio da quel «prezioso documento, che poi ho smarrito per colpa
non mia» scrive Penta.
Il libro di Cinnella si inserisce nel
filone filopiemontese che considera il brigantaggio un fenomeno meramente
delinquenziale. Per noi invece che consideriamo il brigantaggio un fenomeno
politico e sociale il libro non aggiunge nulla di nuovo.
Rocco Biondi
Rocco Biondi