30 gennaio 2020

Risorgimento e società nei canti popolari siciliani, di Antonino Uccello


È una raccolta di canti popolari siciliani, in dialetto con traduzione in italiano, che va dalle insurrezioni del 1812, del 1820, del 1837, del 1848-49, alle lotte che portarono allo sbarco dei Mille, fino ai fatti di Palermo nel 1866. Ad essi si collega, dopo il 1860, ogni sorta di protesta contro la leva obbligatoria e contro l’oppressione fiscale e, in genere, contro la monarchia sabauda; si collega quindi la voce del popolo ingannato e sfruttato. Di alcuni di essi si riporta in sintesi il contenuto. La prima edizione del volume è apparsa nel 1961, anno del centenario del Regno d’Italia, presso l’editore Parenti di Firenze.
     Nel 1812 la monarchia borbonica fu travolta dall’avanzata delle truppe napoleoniche. In quell’anno, come risulta in un canto, fu inviato dall’Inghilterra in Sicilia il ministro plenipotenziario lord Bentinch, che ben poco riuscì a fare. Sono degli anni successivi il canto sulla carestia del 1813 e quello su Gioacchino Murat, che fu fucilato nel 1815 a Pizzo Calabro.
     La rivoluzione del 1820 ebbe come protagonista il popolo palermitano. L’eroe dell’insurrezione fu il prete Gioacchino Vàglica, che terminata la rivolta fu rinchiuso in un convento nella fortezza di Gaeta.
     I canti sul colera del 1837, che diedero vita a uccisioni e rivolte popolari, documentano le condizioni in cui erano tenute le classi subalterne siciliane.
     Numerosi furono i canti che sorsero intorno al glorioso ma sfortunato tentativo del 1848, quando i siciliani si schierarono contro i Borbone, dimostrando così che lottavano per la loro terra e la loro libertà. Si narrano avvenimenti che vanno dal 12 gennaio 1848 al 15 maggio 1849. I popolani sbaragliano le truppe ben armate e organizzate dei napoletani, si riporta la storia del crudele Gioacchino Leto e della polizia borbonica; le vicende vengono quasi completamente spogliate dei suoi connotati storici e fissate in un’atmosfera fantastica. Il papa Pio IX venne invocato in tutte le sommosse e finì col diventare un mito. Il 13 aprile 1848, a Palermo la Camera dei Comuni, decretava all’unanimità la decadenza di Ferdinando di Borbone, a cui si dava il titolo di Bombardatore. Il Popolo diventava il Re.
     Il 1849 segna, dopo varie lotte e spargimenti di sangue, la riappropriazione dell'intera Sicilia da parte dei Borbone. All’arrivo dei regi ritorna nel popolo la calma. Vari canti riportano tale cambio di umore popolare.
     Nel 1860 molti sono i canti che inneggiano a Garibaldi, che venne con i suoi Mille a risollevare la Sicilia, fintantoché il popolo non s’accorse di essere stato ingannato ancora una volta. Si chiude così la fase eroica del Risorgimento e si intraprende una protesta più aspra e violenta contro i nuovi rapinatori sabaudi. È ormai diffuso, tra le masse popolari, il convincimento che l’unificazione non determinerà mutamenti nelle loro condizioni, anzi le peggiorerà; a cominciare dalla leva obbligatoria, a continuare dalla moneta di carta che sostituisce quella di metallo spesso prezioso, a seguire con la soppressione degli Ordini religiosi con la spoliazione di chiese e conventi.
     Con la rivolta fallita del sette e mezzo (dalla durata in giorni) del settembre 1866 crolla definitivamente ogni speranza di rinnovamento e di giustizia sociale.
            Luigi Lombardi Satriani chiude la sua introduzione al libro con la frase, con la quale siamo d’accordo: “Lo scontro storico [nei primi decenni postunitari] si risolse ancora una volta in una sconfitta delle classi subalterne e in una vittoria delle classi al potere.”
Rocco Biondi

Antonino Uccello, Risorgimento e società nei canti popolari siciliani, Introduzione di Luigi M. Lombardi Satriani, Pellicanolibri Edizioni, Catania 1978, pp. 286

19 gennaio 2020

In nome di Francesco Re, di Vincenzo Santoro

È un romanzo storico in cui si racconta la storia del pugliese sergente Pasquale Romano, che con la sua banda brigantesca combatte contro gli usurpatori piemontesi. Vengono raccontate le gesta di personaggi che ormai fanno parte della vera storia (Crocco, Ninco Nanco, Coppolone, Pizzichicchio, Nenna Nenna, Capraro, La Veneziana), mescolati con fatti e vicende verosimili frutto di fantasia.
     Francesco Romano, come il padre, faceva il pastore. All’età di diciotto anni decise di arruolarsi volontario nella carriera militare. Ottenne la nomina a Primo Sergente e la qualifica di Alfiere nella compagnia a cavallo. Era vicino a diventare ufficiale quando il sogno fu troncato. Ritiratosi il re borbone Francesco II nella fortezza di Gaeta, sciolta la compagnia, ritornò nel suo paese, Gioia del Colle in Terra di Bari. Aveva due sorelle.
     A Gioia fu costituito un Comitato Borbonico, che elesse come suo comandante l’ex sergente. Dopo l’uccisione del caporale della guardia nazionale Teodorico Prisciantelli, ad opera di quattro sbandati aggregatisi alla compagnia del Romano, quest’ultimo benché fosse contrario abbracciò la volontà della maggioranza e decise di attaccare Gioia, che resistette. Anzi vi fu una contro rappresaglia da parte dei piemontesi e dei suoi alleati; molti resistenti furono fucilati. Il Romano riuscì a fuggire.
     Pasquale incontra Crocco e Borges a Lagopesole, per concertare sul da farsi. Ma il sergente rimase deluso della inconsistenza dei programmi concreti dello spagnolo. Crocco offrì una cena, durante la quale si continuò a parlare del futuro. Pasquale ricordò che un tempo in Inghilterra visse Robin Hood che toglieva ai ricchi per dare ai poveri; “ma adesso – aggiunse – la situazione è diversa: non siamo noi a dover aiutare i contadini, ma sarà il nostro re Francesco, non appena tornerà sul trono”.
     Romano assaltò con successo Alberobello, Carovigno, Grottaglie; avrebbe voluto unire la sua comitiva a quella di Crocco, ma quest’ultimo non accettò. La comitiva del sergente subì una grave sconfitta alla masseria dei Monaci di San Domenico.
     Pasquale Romano fu ucciso nel bosco di Vallata con una sciabolata in mezzo alla fronte da un brigadiere piemontese. Il suo corpo fu portato in macabro corteo a dorso d’un asino, con i piedi e la testa all’ingiù, a Gioia del Colle; un vecchio disse che non era stato ucciso il sergente, ma uno che gli somigliava.
     Nel romanzo si narra diffusamente dell’amore fra Pasquale e Laura, figlia di don Ciccio d’Onghia, un ricco commerciante di stoffe. Amore anche fisico. Alla vista del suo uomo sfigurato nel volto e la testa spaccata, Laura «si portò una mano sul petto e, senza un solo gemito, s’afflosciò sulle gambe a due passi da lui. Mentre toccava il suolo, il suo cuore cessò di battere».
     Il libro si chiude con Titta, Giambattista, studente di medicina a Napoli, figlio del dottor Musci di Gioia del Colle. Dopo aver fatto parte della banda Romano, spinto da quest’ultimo, divenne emigrante verso le Americhe.
Rocco Biondi

Vincenzo Santoro, In nome di Francesco Re. L’epopea dei perdenti all’indomani della fine del Regno delle Due Sicilie, Capone Editore, Cavallino di Lecce 1999, pp. 184

5 gennaio 2020

Il processo beffa di Maria Oliverio, di Raffaele Caligiuri


Il processo beffa di Maria Oliverio, di Raffaele Caligiuri

È un romanzo che partendo dalla brigantessa Maria Oliverio detta Ciccilla, realmente esistita, traccia una storia proveniente dalla tradizione orale, che l’Autore fa propria immettendo spesso il suo pensiero. Il libro si chiude con la frase: “La storia è interessante quando il passato serve alle generazioni future per perfezionarsi e riprendersi”.
     A narrare in prima persona la storia nel libro è principalmente Maria Oliverio, ma spesso anche l’Autore o altri personaggi.
     A uccidere la sorella Teresa con l’accetta forse non è stata Maria ma il capobrigante Pietro Monaco, stanco di Teresa e invaghitosi di Maria, che poi sposerà. Ma l’amore fra i due dura poco. Maria ama poi il nobile Michele, un rapito dalla banda della quale fa parte. Il suo è un amore carnale, ma anche del cuore, della testa, delle parole; ma Michele non l’avrebbe capito, per lui era solo sesso e lo avrebbe dimenticato quando sarebbe stato libero.
     Maria Oliverio si era fatta una cultura su quattro bauli di libri, provenienti dalla famiglia Verga, nascosti nelle grotte di Cotronei. Libri di filosofia, di autori greci e latini, della Rivoluzione Francese, dell’Illuminismo, degli italiani: Dante, Boccaccio, Petrarca, Ariosto, Machiavelli, Guicciardini, Tasso, Leopardi, Manzoni. Aveva anche letto “Il Capitale” di Carlo Marx. I termini che non capiva andava a cercarne il significato sul Tommaseo. Poi lesse anche i libri di agronomia e sugli allevamenti, traendone frutto.
     Maria per l’Autore rappresenta in pratica quello che avrebbero dovuto essere gli abitanti del Sud, Pietro invece quello che erano i briganti.
     Intanto Pietro s’invaghisce di Rosa e lascia Maria, che diventa in pratica capobanda. Maria rimane gravida di Michele, e Rosa di Pietro; ai due bambini avrebbero messo appunto i nomi Michele e Pietro.
     Rosa tramite un transfert si crede Maria Oliverio e come tale viene condannata prima a morte, poi la pena gli viene commutata nei lavori forzati a vita ed infine graziata. Pietro Monaco era stato ucciso da un amico brigante. Maria Monaco, sotto altro nome, vive, ormai vecchia, nel marchesato crotonese e dice “non posso fare nulla per risollevare con altri mezzi gli altri, se non con i libri, e la sera in casa mia c’è un’altra ‘chiesa’ piena di giovani ai quali leggo e rileggo le opere di Marx e della sinistra Hegeliana, … Di cultura si vive e senza di essa la tirannia e la miseria domineranno il mondo”.
Rocco Biondi

Raffaele Caligiuri, Il processo beffa di Maria Oliverio, Calabria Letteraria Editrice, Soveria Mannelli (CZ) 2003, pp. 290