30 novembre 2017

Gente in Aspromonte, di Corrado Alvaro



«Certo sarebbe bello se scappassimo tutti, col brigante Nino Martino!». «Non ci sono più i briganti in montagna», replicò convinto Antonello. «E tu che ne sai? Vivono nelle caverne, e se ci sono non vengono a dirlo a te».
     Così si legge nel racconto lungo “Gente in Aspromonte”, che dà il titolo alla raccolta di tredici racconti di Corrado Alvaro; nato nel 1895 a San Luca, paese attualmente di circa quattromila abitanti provincia di Reggio in Calabria e morto a Roma nel 1956.
     Antonello è il protagonista del racconto “Gente in Aspromonte”, insieme al padre l’Argirò. Antonello, che di carattere è mite e buono, per la cattiveria e l’ingiustizia della società in cui vive diviene brigante. E grida “dalla cima del colle soprastante il paese”: «O voi tutti che siete poveri, che soffrite e che vi arrabbiate a vivere! È arrivato il giorno in cui avrete qualche poco d’allegria». Finalmente arriverà una nuova giustizia sociale.
     Benedetto, l’ultimo figlio dell’Argirò, divenuto prete, potrà gridare ai signori del paese: «Ladri e birbanti, il vostro regno è finito».
     I poveri, i pastori e i contadini, personaggi di Alvaro, potranno modificare l’esistente per migliorarlo. Essi, scrive Mario Pomilio in una presentazione del libro, acquistano a poco a poco coscienza dell’ingiustizia cui sono soggetti, e oscuramente cercano una via d’uscita.
     Le storie narrate da Alvaro si rifanno agli anni della sua fanciullezza in Calabria.
     Antonello, il brigante di Alvaro, può costituire il collegamento fra i briganti del primo periodo postunitario e i briganti, nel senso positivo, di oggi.
     La prima edizione del libro risale al 1930, presso la casa editrice Le Monnier di Firenze.
     Nino Martino, soprannominato Cacciadiavoli, era un brigante calabrese del Cinquecento, che fu dal popolo nominato santo, perché vendicava i torti della povera gente. La leggenda vuole che dalla botte, sotto la quale era stato sepolto dalla madre, uscisse buon vino.
Rocco Biondi

24 novembre 2017

Memorie storiche sulla vita del Cardinale Fabrizio Ruffo, di Domenico Sacchinelli



L’abate Domenico Sacchinelli fu segretario del cardinal Ruffo e lo seguì nelle sue imprese del 1799. Nacque a Pizzoni in Calabria nel 1766 e morì a Monteleone (oggi Vibo Valentia in Calabria) nel 1844. Pubblicò le “Memorie” nel 1836, con osservazioni sulle opere di Cuoco, di Botta e di Colletta.
     Il libro di Controcorrente contiene una introduzione, di XLIII pagine, di Silvio Vitale.
     Fabrizio Ruffo era nato a San Lucido (provincia di Cosenza in Calabria) il 16 settembre 1744, dal duca Litterio Ruffo e dalla principessa Giustiniana Colonna. Papa Pio VI nel 1791 lo creò Cardinale dell’Ordine de’ Diaconi. Morì a Napoli il 13 dicembre 1827.
     Il re Ferdinando IV, fuggito da Napoli per Palermo il 22 dicembre 1798, nomina il cardinal Ruffo, con diploma datato 25 gennaio 1799, Vicario Generale e le accorda l’alter ego per conservare al Regno di Napoli le provincie non occupate dai giacobini e riconquistare quelle invase a cominciare dalla capitale Napoli.
     Sacchinelli nelle sue “Memorie” narra gli avvenimenti del 1799, che vedono protagonista il cardinal Ruffo, integrandoli con molti documenti. E contesta il modo in cui tali avvenimenti vengono narrati nelle opere di Vincenzo Cuoco, Carlo Botta e Pietro Colletta; spesso anzi, scrive il Sacchinelli, sono da essi totalmente inventati.
     Il Ruffo è un abile condottiero di un’armata eterogenea, e cerca di contenere da parte dei suoi soldati i saccheggi e gli episodi di efferatezza, propri di una guerra civile.
     Il Ruffo fa sostituire gli alberi della libertà, eretti dai giacobini, con la Santa Croce e, scrive il Sacchinelli, «per virtù di questo glorioso segno superò egli tutti gli ostacoli, evitò tutte le insidie, vinse i nemici della Religione e del Re, e ripristinò in Napoli il culto cattolico e la Monarchia sotto l’Augusta Dominazione de’ Borboni».
     L’8 febbraio 1799 il Cardinal Ruffo sbarcò in Calabria, accolto da trecento uomini armati. In pochissimi giorni si riunirono a Palmi circa venti mila uomini, altrettanti a Mileto. Vi erano ecclesiastici di ogni grado, ricchi proprietari, artisti, lavoratori della campagna, e purtroppo «per isventura vi erano degli assassini e de’ ladri, spinti da spirito di rapina, di vendetta e di sangue».
     Il primo marzo fece il suo ingresso in Monteleone (Vibo Valentia). Con i soldati e i bassi ufficiali del vecchio esercito borbonico formò tre battaglioni di seicento uomini l’uno. Vi erano anche formazioni con struttura a massa (non militari) e miste (militari e a massa).
     Con questo esercito, e con altri che strada facendo si erano uniti, occupò la Calabria Ultra, fino a Crotone, dove molti uomini saccheggiarono la città e dopo abbandonarono il Ruffo.
     Con circa sette mila uomini, il 5 aprile, guadò il fiume Neto e si riversò nella Calabria Citeriore, che occupò.
     Successivamente con dieci battaglioni di cinquecento uomini l’uno (tutti soldati del vecchio esercito borbonico sbandato), la cavalleria che possedeva milleduecento cavalli, cento compagnie di truppe irregolari di cento uomini ciascuna, e altri, si riversò in Basilicata. Tutti quegli uomini che erano armati alla meglio, senza idonei ufficiali e senza istruzione militare, avevano però buona volontà e coraggio. In quell’armata non vi era timore di tradimenti, «perché tutti animati dallo stesso spirito ed impegnati per la stessa causa; e se alcuno di equivoca condotta veniva ad unirsi, era scoverto, arrestato, o ucciso».
     Vennero occupate la Basilicata, con Matera (allora capoluogo) e Melfi, e le Puglie, con Altamura, Gravina, Ascoli Satriano.
     Il Ruffo fu in contatto con i capi abruzzesi borbonici: Giuseppe Pronio per Chieti, Giovanni Salomone per l’Aquila, Donato de Donatis per Teramo. Invitò i fratelli Coletta (Mammone) e Michele Pezza (Fra’ Diavolo) a far passare tra Capua e Terracina, in Terra di Lavoro, francesi e patrioti che andavano via dal Regno di Napoli.
     Fra i briganti che combatterono con il cardinal Ruffo vi furono Angelo Paonessa (Panzanera), Gerardo Curcio (Sciarpa) e il comandante Nicola Gualtieri (Panedigrano), nominato più volte da Sacchinelli.
     Vengono inoltre trattati nel libro avvenimenti ed operazioni avvenuti dal 13 giugno al 10 luglio 1799, tra i quali l’arrivo e occupazione di Nola, Portici e Napoli. In quest’ultima città furono presi il forte di Vigliena, il castello del Carmine, il ponte della Maddalena, il Castello dell’Uovo, il Castello Nuovo.
     La presa di Napoli, prima che la flotta degli inglesi, alleati del Regno di Napoli, arrivasse, creò qualche problema, che fu comunque risolto.
     Il Re Ferdinando IV, la mattina del 10 luglio 1799, fra gli evviva generali, arrivò nel golfo di Napoli.
     Tutto questo il Sacchinelli narra nel primo e secondo libro; un terzo libro, annunciato, che avrebbe contenuto le vicende del Ruffo dal 1800 alla sua morte, non vide mai la luce.
     Silvio Vitale chiude la sua introduzione al libro in questo modo: «Contro le tante figure che infoltiscono il campo rivoluzionario giacobino del 1799, quella del Ruffo si staglia al di sopra di tutte con l’evidenza del protagonista».
Rocco Biondi

Domenico Sacchinelli, Memorie storiche sulla vita del Cardinale Fabrizio Ruffo, Controcorrente, Napoli 1999 [seconda edizione 2004], pp. 327

12 novembre 2017

Prete brigante, di Corrado Santoro



Il prete brigante è don Donato De Donatis, nato nel 1767 a Fioli, frazione di Rocca Santa Maria, in provincia di Teramo, regione Abruzzo; morto ucciso dai francesi nel 1807. Nel libro si parla dei fatti avvenuti a Teramo, e paesi vicini, dal 6 dicembre 1798 e alla fine di aprile 1799, nei quali il De Donatis ebbe parte importante, in quanto capo degli insorgenti contro i francesi che avevano occupato, in quegli anni, il Regno di Napoli. Cooperò quindi con il cardinale Fabrizio Ruffo alla conquista antifrancese di Napoli, facendo ritornare in quella città il re Ferdinando IV di Borbone.
     Un libro originale, che trasferisce al campo della ricerca storica la metodologia tipica del vecchio rito processuale penale, mutuando da quello lo schema dell’indagine. È un processo immaginario che offre uno spaccato di vita abruzzese e marchigiana, narrando avvenimenti lontani nel tempo, ma ricchi di interesse ancora oggi. Lo scenario è quello di un processo con il presidente, il giudice a latere, la corte popolare, il rappresentante della Pubblica Accusa e il difensore dell’imputato. I testimoni sono storici che hanno scritto di quel periodo, contemporanei ai fatti e successivi fino ai giorni nostri.
     Durante il procedimento penale vengono esaminate le molte accuse contro don Donato De Donatis: usurpazione di comando militare, costituzione di banda armata, devastazione e saccheggio, omicidio plurimo, violenza privata contro i giacobini, truffa e uso di atti falsi.
     Fra i testimoni vi sono, a detta della pubblica accusa, quelli di parte “giacobina” (Tullj e Delle Bocache), di parte “neutrale” (Januarii e Palma), di parte borbonica (De Jacobis).
     Giacinto Tullj è autore del manoscritto “Minuta relazione dei fatti seguiti in Teramo dall’anno 1798 al 1814”.
     Carlo Januarii è autore della cronaca manoscritta dal titolo “Avvenimenti seguiti nel Teramano dal 1798 al 1809”.
     Angelo De Jacobis è autore della relazione manoscritta “Cronaca degli Avvenimenti di Teramo ed altri luoghi degli Abruzzi dal 1796 al 1823”.
     Omobono Delle Bocache è autore della “Cronaca degli Abruzzi (1798/1808)”.
     Niccola Palma è autore dell’opera “Storia Ecclesiastica e Civile della Regione più settentrionale del Regno di Napoli detta dagli Antichi Praetutium, ne’ bassi tempi Aprutium, oggi Città e Diocesi aprutina”.
     Vengono sentiti molti altri testimoni. Fra essi il più significativo è Luigi Coppa Zuccari, che negli anni 1928/1939 pubblica l’opera dal titolo “L’invasione francese negli Abruzzi”, che raccoglie in quattro volumi e ben 5035 pagine tutto ciò che è stato scritto e quasi tutti i documenti di quel drammatico periodo storico. Viene ascoltato anche il generale Pietro Colletta, che partecipò alla difesa della Repubblica Partenopea (proclamata a Napoli nel 1799 ed esistita per alcuni mesi) e fu autore dell’opera dal titolo “Storia del Reame di Napoli dal 1734 al 1825”.
     Si parla, per l’accusa, della Ragione illuministica, di Napoleone Bonaparte, dell’Armata d’Italia, della bandiera tricolore italiana, della Repubblica Partenopea, di Eleonora Fonseca Pimental.
     Per la difesa, si parla di briganti: Giuseppe Costantini (Sciabolone), Giovanni Fontana e figli, Gennaro soprannominato Cappuccino, del vescovo di Teramo: monsignor Luigi Maria Pirelli.
     Nella discussione finale viene data la parola alla pubblica accusa, che si scaglia contro l’imputato De Donatis, facendo proprio quanto detto e scritto dai testimoni d’accusa. A cominciare dal Tullj, che durante l’interrogatorio aveva esclamato: «Quali orridi ceffi si vedevano nella masnada di De Donatis! I mostri dell’Africa avevano l’aspetto meno truce di coloro». E ancora: «La vita, che menava il De Donatis, fatto prelato, è quella di un immondo animale».
     La perorazione della difesa, a favore del De Donatis, si sviluppa in ben cinque udienze. Questo intervento, che l’autore Santoro magistrato di cassazione fa fare all’avvocato della difesa, è quello che lui pensa del De Donatis e del brigantaggio in generale.
     La difesa, prima di addentrarsi nel processo, parla in rapida sintesi di tre condizioni storico-ambientali nelle quali si muoveva il prete brigante. La prima riguarda le profonde differenze che caratterizzavano l’assetto sociale del Regno di Napoli rispetto a quello della Repubblica francese. La società francese era organizzata in tre “stati”: la nobiltà, il clero, la borghesia, la quale ultima comprendeva le libere professioni e le attività commerciali, artigianali, agricole oltre al popolo minuto. Nel Regno di Napoli invece vi era una profonda frattura fra i due ceti della borghesia: la cosiddetta borghesia appunto ed il popolo minuto. La seconda condizione concerne le ragioni che favorirono la resistenza armata antifrancese delle classi più umili, in risposta alla pessima condotta delle truppe di occupazione. La terza condizione attiene al comportamento del De Donatis che difende il Trono e l’Altare allora esistenti.
     Entrando poi nel merito, l’avvocato della difesa afferma che suo intento non è far assolvere l’imputato per insufficienza di prove, ma accertare le ragioni per le quali un oscuro parroco di montagna sia potuto balzare agli onori della Storia e sia stato addirittura caldamente raccomandato dal Re di Napoli all’attenzione del Pontefice romano.
     La difesa fa notare che le fonti manoscritte sono tutte opera di religiosi (la cultura era appannaggio di pochi e tra questi pochi spiccavano i religiosi); lo stesso Palma era un canonico. Quest’ultimo annotò l’opera del Tullj con glosse chiamate “Note al Tullj”. In esse il Palma mentre prede le distanze dalle valutazione negative sul vescovo Pirelli non fa altrettanto per quanto riguarda il De Donatis.
     La difesa poi prende in esame i singoli capi di accusa, dimostrandone di ognuno l’infondatezza.
     Nel libro non vi è una sentenza conclusiva, che viene lasciata dall’autore al pubblico dei lettori. Noi facciamo nostro quello che l’avvocato difensore afferma nella conclusione della sua lunga arringa: «… è giunto il momento di considerare il De Donatis non già e non soltanto come “prete brigante”, ma anche, e soprattutto, come “prete patriota”». Anzi affermiamo che i due termini, prete brigante e prete patriota, coincidano.
Rocco Biondi

Corrado Santoro, Prete brigante, Edigrafital S.p.A, Sant’Atto di Teramo 1999, pp. 504