Lucera
ha un modo di scrivere che rende avvincente e accattivante qualsiasi argomento
tocca. Specie poi se tali argomenti sono già di per se interessanti, come
certamente lo è quello del banditismo sociale, tema del libro che stiamo
presentando. Anche perché il banditismo – come appropriatamente afferma
Valentino Romano nella prefazione – contrariamente a quanto certa letteratura
ricorrente lascia supporre, non è appannaggio esclusivo del Sud d’Italia, ma di
tutti i Sud del mondo, cioè di tutte le terre laddove è più acuto il disagio
sociale.
Noi
quando inizialmente ci siamo avvicinati al libro cercavamo, piuttosto
semplicisticamente, le motivazioni che portarono al brigantaggio, dopo che i
piemontesi nel 1860 invasero il Regno delle Due Sicilie. Ma man mano che
andavamo avanti nella lettura il quadro si ampliava e diventava sempre più
complesso. Lo stesso Lucera ci veniva incontro affermando: “In questo saggio
non ci occuperemo, nello specifico, del brigantaggio
socio-politico, poiché già oggetto di nostri precedenti lavori editi”. E ci
tornava alla mente il suo ponderoso studio sul brigantaggio, in quattro volumi,
dal titolo Vicende di un’altra storia.
Il
libro si divide in due parti, la prima studia come nascono e si organizzano le
diverse società umane soffermandosi sul ceto della borghesia regolato dalla
cosiddetta dottrina liberale, la seconda parte studia il comportamento di
alcuni personaggi che si sono opposti al ceto borghese: i banditi sociali. Il
periodo storico che viene analizzato è piuttosto ampio, parte dall’anno Mille
fino ad arrivare al 1900 (il cosiddetto secolo breve).
Sorvolo
sulla prima parte dove sono riportati “appunti” di Sociologia con particolare
approfondimento della civiltà contadina, dove si parla delle tre rivoluzioni
borghesi: quella inglese, quella americana, quella francese, dove si
approfondiscono le condizioni di coloro
che nulla hanno, dove si sintetizzano i pessimi risultati della cosiddetta
riforma agraria di Puglia, Lucania e Molise, dove si esaminano le rivolte di
massa (ad esempio quella dei Ciompi a Firenze, quella dei pastorelli in
Francia, quella della scarpa in Germania, quella degli Hussiti in Boemia,
quella degli Ugonotti in Francia, e le quattro insorgenze vandeane nella
Francia che si affaccia sulla costa atlantica).
Cito
però una frase, che mi ha fatto sorgere qualche dubbio e che avrebbe bisogno di
qualche approfondimento: «le vicende attinenti al brigantaggio non accaddero all’interno di rivolte di massa, ad
eccezione di quelle cittadine, ma furono delle vere e proprie azioni di
guerriglia armata portate avanti da singoli uomini o gruppi di essi, contro
invasori o governi ritenuti stranieri ed oppressivi».
Il
bandito sociale appartiene alla classe dei poveri e dei più deboli, che sono la
stragrande maggioranza della popolazione mondiale; per essi lotta contro il
capitalismo e la borghesia. La cosiddetta giustizia in pratica difende i nobili
e i borghesi, a rimetterci sono sempre i più deboli che non trovano altra
strada se non quella di farsi giustizia da soli.
Il
bandito sociale è un uomo solo, che vive senza applausi e senza spettatori, fra
monti, boschi, piogge, scontri, agguati, armi, freddo, neve, nascondigli sempre
più angusti e sempre più isolati; vive di idealità, che rincorre valori
astratti di difficile attuazione; si muove in grandi gruppi o isolatamente a
seconda delle epoche e delle circostanze.
Lucera
dalla lunga schiera di questi indomiti ribelli e di questi romantici banditi,
da quell’immenso mondo apparentemente scomparso e dimenticato, tira fuori
alcuni significativi campioni, vissuti dal medioevo ad oggi.
Alfonso
Piccolomini è uno dei pochi esempi di un appartenente alla nobiltà che scelse la
strada della sovversione, schierandosi dalla parte dei più deboli contro le
prevaricazioni dei più forti. Nato nel 1558, era conte di Montemarciano nelle
Marche, feudatario di Toscana e dello Stato Pontificio. Entrò in contrasto con
il papa di allora e costituì una banda di guerrieri con il compito di lottare
contro lo Stato Pontificio. La sua strategia di guerrigliero consisteva
nell’attaccare le fonti di reddito dirette dello Stato del papa. A Palidoro perse
l’ultima sua battaglia contro le truppe pontificie. Catturato, venne impiccato
il 16 marzo 1591; aveva 33 anni. Con lui morì – scrive Lucera – il grande sogno
di dare dignità ed onore a coloro sui quali l’intera società del tempo si
appoggiava per vivere, sfruttandoli.
Marco
Sciarra, che da semplice pastore divenne un nemico implacabile degli spagnoli e
dei papi, veniva definito, ai suoi tempi, flagello
di Dio, e inviato da Dio contro gli usurai e quelli che posseggono denaro
improduttivo. Nato in Abruzzo intorno al 1550, nel periodo di maggior splendore
ebbe sotto il suo comando un migliaio di uomini e riuscì a ritagliarsi,
all’interno dei possedimenti del viceré spagnolo di Napoli e dello Stato
Pontificio, un piccolo regno al quale diede un’organizzazione di tipo statale,
dove non esisteva la grande proprietà terriera avendo distribuita la terra ai
contadini che la lavoravano, né si pagavano tasse. Considerava il potere
temporale dei papi come la negazione di Dio sulla terra e il loro sfarzo come
un’offesa alla povertà di tanta gente. La sua banda di guerriglieri, che rubava
ai ricchi per distribuire ai poveri, incuteva paura e timore. Il campo d’azione
fu molto esteso, oltre che al suo Abruzzo, si estendeva anche alle Marche, al
Lazio, alla Campania, alla Puglia. Il mondo contadino lo definì Il Re della Montagna. Fu ucciso a
tradimento dal suo luogotenente Battistello da Fermo. Per il suo tempo, Sciarra
fu senz’altro un rivoluzionario e persino un politico.
Venendo
più vicino ai giorni nostri Lucera include fra i banditi sociali Domenico
Tiburzi, detto Il Brigante della Maremma.
Nato nel 1836 a Cellere, nell’alto Lazio, ebbe la fortuna di non vivere nelle
regioni in cui il brigantaggio veniva combattuto a colpi di leggi eccezionali,
dove i Tribunali Militari di Guerra emettevano sentenze di morte mediante fucilazioni immediate e repentine. Era
un pastore e buttero, divenne una specie di Robin Hood della sua Maremma
grossetana inventandosi perfino la tassa
del brigantaggio che faceva pagare ai ricchi della zona in cambio della sua
protezione. Aborriva la violenza e cercava di non uccidere i carabinieri poiché
figli di uomini poveri e costretti ad arruolarsi per fame. Venne ucciso dai
carabinieri il 24 ottobre 1896, all’età di 60 anni. Il suo cadavere fu vestito
di tutto punto da brigante e fu legato a un palo, per potergli scattare la foto
da conservare negli archivi militari.
Lucera
fa poi una capatina nel Nord Est del Brasile dove è vissuto fino al 1938 il più
famoso, il più temerario e il più amato bandito sociale della zona: Virgulino
Ferreira da Silva, detto Lampiao, che non era nato violento, era stato
costretto a diventarlo. La popolazione lo chiamava Re del cangaço e Governatore
del sertao. Lampiao venne ucciso
insieme alla sua donna Maria Bonita, divenuta anch’essa una famosa cangaceira.
Le loro teste furono esposte al pubblico per circa trent’anni a Salvador de
Bahia.
Il
libro si chiude con cenni biografici dei banditi sociali Giuseppe Musolino: Il Re dell’Aspromonte, Salvatore
Giuliano: Il Re di Montelepre, Graziano
Mesina (Grazianeddu): Il Re di Supramonte.
Nel
libro di Lucera merito una citazione in nota (Rocco Biondi, da Villa Castelli)
per una recensione che ho fatta nel mio blog del libro di Nicola Misasi Briganteide.
Nelle
conclusioni del libro i banditi sociali vengono definiti come «Uomini che hanno
saputo accendere la fantasia, la leggenda, il destino fatalistico e ristoratore
di una giustizia non divina ma terrena, feroce e crudele quanto si vuole, ma
vista come raddrizzatrice dei torti subiti». Uomini rivoluzionari che oggi
secondo Hobsbawm o stanno studiando o stanno dormendo oppure si stanno
organizzando, e che per Lucera e noi certamente torneranno sotto nuove forme e
prenderanno il posto degli antichi banditi
e briganti, e questa volta forse
vinceranno.
Rocco Biondi
Giuseppe
Osvaldo Lucera, Società, politica e
banditismo sociale. Dalle medievali rivolte contadine a “Grazianeddu”,
Youcanprint, Tricase (LE) 2013, pp. 470, € 23,00