Il duca in Baviera Massimiliano di Wittelsbach, che si trovava in vacanza a Montecarlo, quando nel 1858 la moglie Ludovica gli comunicò che aveva combinato il matrimonio della figlia Maria Sofia con il principe ereditario di Napoli Francesco di Borbone, scrisse in un telegramma alla figlia: «Te lo consiglio. E’ un imbecille». Maria Sofia, che allora aveva diciassette anni, credette che fosse uno dei soliti scherzi di suo padre.
Massimiliano, simpaticamente conosciuto in tutta la Baviera come il «buon duca Max», era bello, prestante, geniale, artistoide, esuberante e, naturalmente, un po’ matto, come tutti i Wittelsbach. Gran bevitore, gran giocatore, grande amatore aveva fondato a Monaco un circolo di mattacchioni detto della Tavola Rotanda. Scriveva poesie, opere teatrali e pubblicava articoli sui giornali con lo pseudonimo di Phantasius. Nessuno ha mai fatto la conta dei figli illegittimi disseminati in giro, ma furono certamente tanti.. Ma da buon marito ingravidava pure la legittima moglie Ludovica. Nell’arco di dicotto anni la rese madre otto volte.
Fra questi figli legittimi vi furono Elisabetta, detta «Sissi», la futura imperatrice d’Austria e Maria Sofia appunto, detta «Spatz», passerotto, nata il 4 ottobre 1841.
Max si curava poco dell’educazione scolastica dei figli, era invece molto esigente nella loro educazione fisica. E così «Sissi» divenne imbattibile a cavallo, e «Spatz» nel nuoto, nella scherma e nel tiro con la carabina. Maria Sofia amava i cani feroci ed allevava nidiate di canarini e di pappagalli; imparò anche a fumare quei sigari lunghi e sottili che fecero tanto scandalo nella bigotta corte di Napoli. Come scandalo suscitò «lo zompo», il tuffo, che ogni mattina d’estate la regina Maria Sofia faceva nelle allora limpidissime acque del porto militare.
Il matrimonio per procura di Francesco con Maria Sofia fu celebrato la sera dell’8 gennaio 1859 nella cappella del palazzo reale di Monaco. Lo sposo Francesco, che era assente, fu rappresentato dal principe Leopoldo, fratello di re Massimiliano. Gli sposi si incontrarono poi per la prima volta a Bari il 3 febbraio 1859. Maria Sofia rimase delusa dello sposo, a Francesco invece Maria Sofia apparve bellissima.
Scrive Arrigo Petacco di Francesco: «Le sue letture preferire erano le Vite dei Santi. Il suo svago, la raccolta di immagini sacre. A ventitré anni era ancora vergine e non gli era mai stato attribuito neppure un innocente flirt».
Le cose di sesso fra Maria Sofia e Francesco non andarono per niente bene. Pare che per consumare, avere il primo rapporto sessuale, dovettero aspettare il 1869, quand’erano ormai in esilio a Roma. Francesco finalmente si era convinto a farsi operare per liberarsi dalla fastidiosa fimosi al prepuzio che gli impediva l’erezione. La notte di Natale di quell’anno Maria Sofia diede alla luce una bambina, bella ma gracilina, alla quale fu dato il nome Cristina, che morì tre mesi dopo.
Maria Sofia però come frutto di un’appassionata relazione con il comandante degli zuavi pontifici, il conte belga Armand de Lawayss, aveva partorito il 24 novembre 1862 due gemelle, che le furono subito tolte ed affidate ad altri.
«Gli amanti attribuiti a Maria Sofia – scrive Petacco – raggiungeranno un numero così spropositato da diffondere persino il dubbio che la regina fosse ninfomane. In realtà forse era un tantino frigida. Ma essere corteggiata la divertiva».
Francesco II succedette sul trono del Regno delle due Sicilie al padre Ferdinando II, che era morto il 22 maggio 1859. Maria Sofia interpretò il ruolo di regina fuori da ogni etichetta.
In una famosa intervista che Maria Sofia, nella sua residenza di Monaco, rilasciò nell’ottobre 1924, all’età di 83 anni, all’inviato speciale del Corriere della Sera Giovanni Ansaldo, disse di Francesco II: «No, il mio re non fu imbecille… Come dicono». Francesco II, anche se timido, pauroso, sfuggente e impenetrabile, non era un imbecille come la storiografia risorgimentale ha sempre cercato di dipingerlo. Il vero problema del regno di Napoli non era il re, ma gli uomini che lo circondavano. I cortigiani e i generali erano quasi tutti ignoranti, incapaci, corrotti, cinici e pronti a tradire. Per salvare il trono le uniche iniziative serie tentò di prenderle Maria Sofia, ma non fu ascoltata.
«L’estate napoletana del 1860 fu l’estate della viltà, del trasformismo, del tradimento, degli inganni e del doppio e triplo gioco», scrive Arrigo Petacco. Il 6 settembre 1860 Francesco II e Maria Sofia, con quello che restava della corte, lasciarono Napoli per non ritornarvi più. Si rifugiarono a Gaeta. Qui Maria Sofia, durante i mesi di assedio da parte dei piemontesi, con il suo comportamento si guadagnò sul campo l’appellativo di «eroina di Gaeta». «Spericolata, amante del rischio – scrive Petacco – e, non dimentichiamolo, pervasa da quella vena di eroica follia che animava tutti i Wittelsbach, la giovane sovrana si muoveva fra soldati e cannoni come un pesce nell’acqua».
Ma il 13 febbraio 1861 anche Gaeta dovette capitolare. Francesco e Maria Sofia s’imbarcarono per Roma. Il regno di Napoli non esisteva più.
Gli anni che seguirono furono tutti vissuti da Maria Sofia nel vano tentativo di ritornare sul trono di Napoli prima, e di vendicarsi dei Savoia poi. «Tutti i nemici dei Savoia sono miei amici», diceva.
A Roma incontrò legittimisti e briganti. Chiavone, Crocco, Ninco Nanco, Fuoco, Guerra, Giordano furono tutti da lei ricevuti e per tutti aveva un sorriso ammirato e un amuleto portafortuna.
Poi Maria Sofia fu vicina agli anarchici. C’è chi sostiene che ebbe una qualche parte nel regicidio di Umberto I.
La regina Maria Sofia morì a Monaco il 18 gennaio 1925; avrebbe compiuto 84 anni il 4 ottobre. Ora è sepolta a Napoli nel Pantheon dei Borbone, la Basilica di Santa Chiara.
Rocco Biondi
Arrigo Petacco, La Regina del Sud – Amori e guerre segrete di Maria Sofia di Borbone, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1992, pp. 282
31 dicembre 2007
25 dicembre 2007
La Bibbia, la Cina e il Parmigiano Reggiano
Fra i mille miei sogni, che nei secoli futuri certamente realizzerò, vi è anche quello di collezionare Bibbie. La notizia pubblicata su la Repubblica di ieri ha suscitato quindi in me un grande interesse.
La Bibbia, la Cina ed il Parmigiano Reggiano sono tre cose che tra loro non ci azzeccano per niente. Ma la Repubblica di ieri 24 dicembre 2007 le ha unite felicemente insieme.
Il corrispondente da Pechino Federico Rampini ha scritto un lungo articolo su una nuova tipografia che è in costruzione vicino a Nanchino e che verrà inaugurata nel maggio 2008. Sarà uno stabilimento di 85.000 metri quadrati. «La tipografia – ha scritto un giornale di Hong Kong – è più larga della basilica di San Pietro». Specialità della tipografia è che stamperà Bibbie da esportare in tutto il mondo. Alla potenza economica della Cina atea non poteva sfuggire questo importante e fruttuoso settore economico.
La casa editrice Amity Printing, proprietaria della tipografia, ha già stampato, dalla sua nascita nel 1986, più di 50 milioni di Bibbie in 90 lingue straniere. Il nuovo impianto cinese sfornerà un milione di Bibbie nuove ogni mese, il 25% di tutta la produzione mondiale. In tempi non lontani la Bibbia in Cina era un libro proibito; la scoperta di una Bibbia in una casa poteva portare all’arresto e alla deportazione dell’intera famiglia. Ma il business è il business, l”Amity Press” può dormire sonni tranquilli; la sua fabbrica modello, con 600 dipendenti e le casse piene dei profitti provenienti dalle esportazioni, sarà trattata con il massimo rispetto dal regime di Pechino.
E nel mondo del business il Parmigiano Reggiano casca proprio come il formaggio sui maccheroni. Sulle 56 pagine de la Repubblica di ieri ben 37 (trentasette) contengono la pubblicità del Parmigiano Reggiano, con grande sfoggio di fantasia da parte dei pubblicitari. Sospetto che qualcosa non quadri. Ma forse sbaglio.
La Bibbia, la Cina ed il Parmigiano Reggiano sono tre cose che tra loro non ci azzeccano per niente. Ma la Repubblica di ieri 24 dicembre 2007 le ha unite felicemente insieme.
Il corrispondente da Pechino Federico Rampini ha scritto un lungo articolo su una nuova tipografia che è in costruzione vicino a Nanchino e che verrà inaugurata nel maggio 2008. Sarà uno stabilimento di 85.000 metri quadrati. «La tipografia – ha scritto un giornale di Hong Kong – è più larga della basilica di San Pietro». Specialità della tipografia è che stamperà Bibbie da esportare in tutto il mondo. Alla potenza economica della Cina atea non poteva sfuggire questo importante e fruttuoso settore economico.
La casa editrice Amity Printing, proprietaria della tipografia, ha già stampato, dalla sua nascita nel 1986, più di 50 milioni di Bibbie in 90 lingue straniere. Il nuovo impianto cinese sfornerà un milione di Bibbie nuove ogni mese, il 25% di tutta la produzione mondiale. In tempi non lontani la Bibbia in Cina era un libro proibito; la scoperta di una Bibbia in una casa poteva portare all’arresto e alla deportazione dell’intera famiglia. Ma il business è il business, l”Amity Press” può dormire sonni tranquilli; la sua fabbrica modello, con 600 dipendenti e le casse piene dei profitti provenienti dalle esportazioni, sarà trattata con il massimo rispetto dal regime di Pechino.
E nel mondo del business il Parmigiano Reggiano casca proprio come il formaggio sui maccheroni. Sulle 56 pagine de la Repubblica di ieri ben 37 (trentasette) contengono la pubblicità del Parmigiano Reggiano, con grande sfoggio di fantasia da parte dei pubblicitari. Sospetto che qualcosa non quadri. Ma forse sbaglio.
20 dicembre 2007
Memorie di un ex Capo-Brigante, di Ludwig Richard Zimmermann
Confesso che anch’io, come Erminio De Biase, quando lessi nella bibliografia de I Briganti di Sua Maestà di Michele Topa che il libro di Zimmermann del 1868 non era mai stato tradotto in italiano, ebbi un impulso ad attivarmi per farlo tradurre. Nello stesso tempo mi posi la domanda del perché finora non fosse stato ancora tradotto. Finita ora la lettura della traduzione curata da Erminio De Biase mi sono data la risposta che forse la mancata traduzione era dovuta al fatto che il libro non rende un buon servigio al brigantaggio meridionale postunitario.
Leitmotiv di tutte le Erinnerungen [Memorie] – come scrive anche De Biase nella nota introduttiva – è l’avversione del tedesco Zimmermann per Luigi Alonzi “Chiavone”, uno fra i più grandi “generali” dei Briganti. Si potrebbe quasi dire che il libro è stato scritto per parlare male di Chiavone. Viene descritto come vigliacco, vanaglorioso, incapace al comando. Ma così non è. Chiavone – scrive De Biase – non può essere un vigliacco come Zimmermann si ostina a definirlo per tutta la durata del racconto. «Luigi Alonzi doveva essere, per sua natura, sgusciante come un’anguilla e quella che Zimmermann insistentemente definisce vigliaccheria era, molto più probabilmente, un istintivo adattamento alle varie pretese del tedesco, un farlo “fesso e contento”, insomma».
La ruggine che c’è tra Chiavone e Zimmermann è frutto della incomprensione e competizione che c’erano in quegli anni fra i nativi guerriglieri “regolari” e i mercenari stranieri, entrambi combattenti contro i Savoia piemontesi e per il ritorno dei Borbone nell’ex Regno delle Due Sicilie. E Zimmermann era un mercenario. Quello che avveniva tra Zimmermann e Chiavone tra le montagne di Sora nel Lazio, succedeva anche tra Crocco e Borges in Basilicata. E furono proprio gli stranieri Tristany e Zimmermann, entrambi sospettati di essere doppiogiochisti e spie, a decretare la condanna a morte di Chiavone.
Ma se questo è Zimmermann perché leggere il suo libro? Perché – come dice De Biase – si ha l’opportunità di osservare i Briganti , oltre che nelle azioni di guerriglia, anche nel loro “quotidiano”: li vediamo marcire per giorni sotto la pioggia, correre per ore ed ore su piste accidentate, sfamarsi quando, come e dove possono e dissetarsi con neve sciolta.
Nella prefazione del libro Zimmermann dice di descrivere quello che lui stesso ha vissuto o quello che ha appreso da persone degne di fede, ma dice anche di condannare la sua scelta di allora di combattere insieme ai Briganti.
Suscita qualche dubbio la simpatia che Zimmermann nutre per Garibaldi. Nello stesso tempo però nutre grande stima e simpatia per i Briganti in genere. Scrive nella premessa alle Memorie: «Chi vuol trovare un punto luminoso nella torbida e sporca storia della fine del Regno di Napoli, deve volgere lo sguardo nelle foreste, sui monti della Maiella, della Meta, del Gargano e degli Abruzzi; là troverà ovunque tracce di sangue di fedeli e tenaci combattenti che abbandonarono i loro cari ed i loro paesi con l’arma in mano e la certezza nel cuore di vivere liberamente sotto il libero cielo di Dio, o di morire». E’ un po’ la retorica dei viaggiatori stranieri sulle orme dei Briganti e la giustificazione della sua scelta di diventare Brigante.
Una notazione interessante dello Zimmermann riguarda il ruolo che svolgevano i giornali dell’epoca. I Briganti – dice – non avevano giornali a loro disposizioni; con le loro brave “scoppette” riuscirono, per anni, a tener lontano le decine di migliaia di soldati del re piemontese, ma non i suoi scribacchini, che divulgavano in tutta l’Europa l’idea che i Briganti fossero dei banditi criminali. «Contrastare le innumerevoli bugie e le calunnie di quei pennivendoli è uno degli scopi primari di questo libro», scrive Zimmermann. Ma anche lui in tutto il libro non ha scherzato nel diffondere bugie e calunnie.
Tutto il libro è di piacevole lettura ed accattivante. Si apre con l’arrivo dello Zimmermann a Roma la sera del 29 agosto 1861, si prosegue con l’incontro con Chiavone sul Monte Favone che sovrasta Sora, con la descrizione del modo di vivere e di vestire dei Briganti, della biografia di Chiavone ovviamente negativa, del combattimento nel Bosco di San Silvestro del 10 settembre 1861, di battaglie contro i soldati francesi e piemontesi.
Un capitolo interessante è quello dove si descrive l’organizzazione della truppa di Chiavone, composta dallo Stato Maggiore e da otto compagnie. Lo Stato Maggiore era formato dal Comandante in capo Luigi Alonzi Chiavone, dal colonnello de Rivière, dal tenente colonnello di Kalkreuth, dal maggiore Zimmermann, dal capitano aiutante-maggiore Mattei, dagli alfieri Lecart e Danglais, dal chirurgo Agostino Serio, da ventuno guide. Le Compagnie erano composte da circa cinquanta uomini ciascuna, tutte capitanate da un comandante; in esse militavamo parigini, belgi, siciliani, tedeschi, napoletani, abruzzesi, molisani. «L’intera truppa contava, quindi, venti ufficiali, un medico, cinquantanove sottufficiali e caporali, sette trombettieri e trecentoquarantatre soldati, per un totale di quattrocentotrenta uomini».
Il 5 novembre 1861 viene preso Castelluccio. L'11 novembre 1861 Zimmermann rientra a Roma, dove sverna. A Roma passavano l’inverno molti capibriganti. Viene descritta la fine del generale Borges.
Il 6 aprile 1862 Zimmermann riparte da Roma per la seconda campagna fra i monti di Trisulti e di Roveto, Monte d’Ortica, Monte Favone, Monte Castello. Avviene il ricongiungimento con Tristany. Vengono descritti i sette giorni di fuoco dal 23 al 29 maggio 1862. Il 28 giugno 1862 Tristany e Zimmermann fecero fucilare Chiavone. «La mia missione in quei luoghi era, dunque, finita», scrive Zimmermann nell’ultima pagina del suo libro. E ritorna a Roma, per poi sbarcare a Venezia.
Rocco Biondi
Ludwig Richard Zimmermann, Memorie di un ex Capo-Brigante, traduzione note e commento di Erminio De Biase, Arte Tipografica Editrice, Napoli 2007, pp. 296, € 22,00
Leitmotiv di tutte le Erinnerungen [Memorie] – come scrive anche De Biase nella nota introduttiva – è l’avversione del tedesco Zimmermann per Luigi Alonzi “Chiavone”, uno fra i più grandi “generali” dei Briganti. Si potrebbe quasi dire che il libro è stato scritto per parlare male di Chiavone. Viene descritto come vigliacco, vanaglorioso, incapace al comando. Ma così non è. Chiavone – scrive De Biase – non può essere un vigliacco come Zimmermann si ostina a definirlo per tutta la durata del racconto. «Luigi Alonzi doveva essere, per sua natura, sgusciante come un’anguilla e quella che Zimmermann insistentemente definisce vigliaccheria era, molto più probabilmente, un istintivo adattamento alle varie pretese del tedesco, un farlo “fesso e contento”, insomma».
La ruggine che c’è tra Chiavone e Zimmermann è frutto della incomprensione e competizione che c’erano in quegli anni fra i nativi guerriglieri “regolari” e i mercenari stranieri, entrambi combattenti contro i Savoia piemontesi e per il ritorno dei Borbone nell’ex Regno delle Due Sicilie. E Zimmermann era un mercenario. Quello che avveniva tra Zimmermann e Chiavone tra le montagne di Sora nel Lazio, succedeva anche tra Crocco e Borges in Basilicata. E furono proprio gli stranieri Tristany e Zimmermann, entrambi sospettati di essere doppiogiochisti e spie, a decretare la condanna a morte di Chiavone.
Ma se questo è Zimmermann perché leggere il suo libro? Perché – come dice De Biase – si ha l’opportunità di osservare i Briganti , oltre che nelle azioni di guerriglia, anche nel loro “quotidiano”: li vediamo marcire per giorni sotto la pioggia, correre per ore ed ore su piste accidentate, sfamarsi quando, come e dove possono e dissetarsi con neve sciolta.
Nella prefazione del libro Zimmermann dice di descrivere quello che lui stesso ha vissuto o quello che ha appreso da persone degne di fede, ma dice anche di condannare la sua scelta di allora di combattere insieme ai Briganti.
Suscita qualche dubbio la simpatia che Zimmermann nutre per Garibaldi. Nello stesso tempo però nutre grande stima e simpatia per i Briganti in genere. Scrive nella premessa alle Memorie: «Chi vuol trovare un punto luminoso nella torbida e sporca storia della fine del Regno di Napoli, deve volgere lo sguardo nelle foreste, sui monti della Maiella, della Meta, del Gargano e degli Abruzzi; là troverà ovunque tracce di sangue di fedeli e tenaci combattenti che abbandonarono i loro cari ed i loro paesi con l’arma in mano e la certezza nel cuore di vivere liberamente sotto il libero cielo di Dio, o di morire». E’ un po’ la retorica dei viaggiatori stranieri sulle orme dei Briganti e la giustificazione della sua scelta di diventare Brigante.
Una notazione interessante dello Zimmermann riguarda il ruolo che svolgevano i giornali dell’epoca. I Briganti – dice – non avevano giornali a loro disposizioni; con le loro brave “scoppette” riuscirono, per anni, a tener lontano le decine di migliaia di soldati del re piemontese, ma non i suoi scribacchini, che divulgavano in tutta l’Europa l’idea che i Briganti fossero dei banditi criminali. «Contrastare le innumerevoli bugie e le calunnie di quei pennivendoli è uno degli scopi primari di questo libro», scrive Zimmermann. Ma anche lui in tutto il libro non ha scherzato nel diffondere bugie e calunnie.
Tutto il libro è di piacevole lettura ed accattivante. Si apre con l’arrivo dello Zimmermann a Roma la sera del 29 agosto 1861, si prosegue con l’incontro con Chiavone sul Monte Favone che sovrasta Sora, con la descrizione del modo di vivere e di vestire dei Briganti, della biografia di Chiavone ovviamente negativa, del combattimento nel Bosco di San Silvestro del 10 settembre 1861, di battaglie contro i soldati francesi e piemontesi.
Un capitolo interessante è quello dove si descrive l’organizzazione della truppa di Chiavone, composta dallo Stato Maggiore e da otto compagnie. Lo Stato Maggiore era formato dal Comandante in capo Luigi Alonzi Chiavone, dal colonnello de Rivière, dal tenente colonnello di Kalkreuth, dal maggiore Zimmermann, dal capitano aiutante-maggiore Mattei, dagli alfieri Lecart e Danglais, dal chirurgo Agostino Serio, da ventuno guide. Le Compagnie erano composte da circa cinquanta uomini ciascuna, tutte capitanate da un comandante; in esse militavamo parigini, belgi, siciliani, tedeschi, napoletani, abruzzesi, molisani. «L’intera truppa contava, quindi, venti ufficiali, un medico, cinquantanove sottufficiali e caporali, sette trombettieri e trecentoquarantatre soldati, per un totale di quattrocentotrenta uomini».
Il 5 novembre 1861 viene preso Castelluccio. L'11 novembre 1861 Zimmermann rientra a Roma, dove sverna. A Roma passavano l’inverno molti capibriganti. Viene descritta la fine del generale Borges.
Il 6 aprile 1862 Zimmermann riparte da Roma per la seconda campagna fra i monti di Trisulti e di Roveto, Monte d’Ortica, Monte Favone, Monte Castello. Avviene il ricongiungimento con Tristany. Vengono descritti i sette giorni di fuoco dal 23 al 29 maggio 1862. Il 28 giugno 1862 Tristany e Zimmermann fecero fucilare Chiavone. «La mia missione in quei luoghi era, dunque, finita», scrive Zimmermann nell’ultima pagina del suo libro. E ritorna a Roma, per poi sbarcare a Venezia.
Rocco Biondi
Ludwig Richard Zimmermann, Memorie di un ex Capo-Brigante, traduzione note e commento di Erminio De Biase, Arte Tipografica Editrice, Napoli 2007, pp. 296, € 22,00
16 dicembre 2007
Brigantesse dell’Italia postunitaria - Convegno
Mercoledì 12 dicembre 2007, insieme agli amici Valentino Romano e Vito Nigro, ho partecipato al Convegno di studi sul tema “Brigantesse dell’Italia postunitaria”, che si è tenuto a Napoli nell’Antisala dei Baroni del Maschio Angioino.
Il Convegno era organizzato dal Laboratorio Antropologico del Dipartimento di Scienze dell’Educazione dell’Università degli Studi di Salerno, diretto dal prof. Domenico Scafoglio.
Si sono susseguiti gli interventi di Amalia Signorelli, Rocco Brienza, Francesco Tassone, Nicoletta D’Arbitrio, Valentino Romano, Maria Rosaria Pelizzari, Simona De Luna, Annalisa Di Nuzzo, Anna Maria Fusilli, Vincenzo Padiglione.
Il tema delle brigantesse, presenti nelle bande che si opponevano a mano armata all’invasione dell’Italia meridionale da parte dei piemontesi negli anni successivi al 1860, ha suscitato un certo interesse fra gli studiosi del brigantaggio meridionale. Studi fondamentali sono stati pubblicati da Francamaria Trapani e da Maurizio Restivo; entrambi però limitati ad un piccolo numero di brigantesse. Ma è stato Valentino Romano che ha dato un sostanziale contributo fornendo notizie, tratte dagli archivi e dai verbali dei processi, su oltre mille brigantesse e fiancheggiatrici.
Gli interventi al convegno di Napoli hanno approfondito la ricerca sulle motivazioni che spinsero molte donne ad abbandonare una vita normale per darsi alla vita faticosa e pericolosa della macchia. Si è parlato dei rapporti intercorrenti fra briganti e brigantesse, delle leggi contro il brigantaggio con particolare riferimento allo specifico trattamento riservato nelle sentenze alle donne briganti, del ruolo svolto dalle donne meridionali nella rivolta contadina contro la conquista del sud da parte dei Savoia, dello specifico modo d’essere e vivere quotidiano delle brigantesse.
Il laboratorio antropologico dell’Università di Salerno ha pubblicato, a cura di Domenico Scafoglio e Simona De Luna, il risultato delle ricerche sulle brigantesse dell’Italia postunitaria in un volume dal titolo Le donne col fucile.
I lavori del convegno napoletano sono durati l’intera giornata. Nel pomeriggio è stato proiettato il film di Pasquale Squitieri Li chiamarono briganti.
Collateralmente al convegno è stata allestita una mostra dal titolo Per forza o per amore, che erano le due motivazioni ricorrenti che le brigantesse portavano a loro discolpa durante i processi.
Il cantastorie Otello Prefazio si è esibito nel recital A mia tutti mi chiamanu briganti.
Per forza o per amore
Il Convegno era organizzato dal Laboratorio Antropologico del Dipartimento di Scienze dell’Educazione dell’Università degli Studi di Salerno, diretto dal prof. Domenico Scafoglio.
Si sono susseguiti gli interventi di Amalia Signorelli, Rocco Brienza, Francesco Tassone, Nicoletta D’Arbitrio, Valentino Romano, Maria Rosaria Pelizzari, Simona De Luna, Annalisa Di Nuzzo, Anna Maria Fusilli, Vincenzo Padiglione.
Il tema delle brigantesse, presenti nelle bande che si opponevano a mano armata all’invasione dell’Italia meridionale da parte dei piemontesi negli anni successivi al 1860, ha suscitato un certo interesse fra gli studiosi del brigantaggio meridionale. Studi fondamentali sono stati pubblicati da Francamaria Trapani e da Maurizio Restivo; entrambi però limitati ad un piccolo numero di brigantesse. Ma è stato Valentino Romano che ha dato un sostanziale contributo fornendo notizie, tratte dagli archivi e dai verbali dei processi, su oltre mille brigantesse e fiancheggiatrici.
Gli interventi al convegno di Napoli hanno approfondito la ricerca sulle motivazioni che spinsero molte donne ad abbandonare una vita normale per darsi alla vita faticosa e pericolosa della macchia. Si è parlato dei rapporti intercorrenti fra briganti e brigantesse, delle leggi contro il brigantaggio con particolare riferimento allo specifico trattamento riservato nelle sentenze alle donne briganti, del ruolo svolto dalle donne meridionali nella rivolta contadina contro la conquista del sud da parte dei Savoia, dello specifico modo d’essere e vivere quotidiano delle brigantesse.
Il laboratorio antropologico dell’Università di Salerno ha pubblicato, a cura di Domenico Scafoglio e Simona De Luna, il risultato delle ricerche sulle brigantesse dell’Italia postunitaria in un volume dal titolo Le donne col fucile.
I lavori del convegno napoletano sono durati l’intera giornata. Nel pomeriggio è stato proiettato il film di Pasquale Squitieri Li chiamarono briganti.
Collateralmente al convegno è stata allestita una mostra dal titolo Per forza o per amore, che erano le due motivazioni ricorrenti che le brigantesse portavano a loro discolpa durante i processi.
Il cantastorie Otello Prefazio si è esibito nel recital A mia tutti mi chiamanu briganti.
Per forza o per amore
28 novembre 2007
Fiera dei 100 Comuni
Si è svolta a Villa Castelli (Brindisi), dal 22 al 25 novembre 2007, l’imponente “Fiera dei 100 Comuni”. 1500 metri quadrati coperti da gazebo di metri 4x4 in alluminio e teli in pvc e da stand in legno di metri 3x3 all’interno di tensostruttura.
50 gazebo e 50 stand che hanno accolto espositori provenienti da tutto il sud Italia. Erano in mostra ed in vendita prodotti enogastronomici, prodotti dell’artigianato, prodotti commerciali, prodotti culturali. Parecchi erano anche gli espositori di Villa Castelli, fra di essi l’Alta Moda Sposa di Vasta Pasquale, EdiliziAlò di Mimmo Alò, Antichi Sapori di Ciro Schiena.
Obiettivo della Fiera dei Cento Comuni era la valorizzazione del territorio regionale pugliese e delle sue eccellenze.
Anche l’Associazione “Settimana dei Briganti – l’altra storia”, con sede in Villa Castelli, ha allestito un suo stand dove erano esposti locandine e manifesti, alcuni anche molto rari, di film sul brigantaggio, oltre a libri sullo stesso tema. In questo stand erano anche ospitati quadri sul brigantaggio dei pittori Enza Schiavoni, Anna Guitti, Igli Arapi.
Nei quattro giorni di fiera gli spettatori sono stati allietati e coinvolti con spettacoli musicali, balli e teatro di strada.
Quasi tutti gli espositori hanno conseguito un notevoli volume di affari. Per tutti certamente la presenza in fiera è stata un’importante vetrina propagandistica.
Numerosissimi sono stati i visitatori, molti provenienti da altri Comuni.
Organizzatrice della fiera è stata l’Agenzia italo-rumena “Lost Eventi”, con il patrocinio del Comune di Villa Castelli. Il progetto era supportato dal Ministero dello Sviluppo economico, dalla Regione Puglia, dalle Province di Brindisi, Bari, Foggia, Taranto, Lecce.
Villa Castelli ha vissuto un momento altamente coinvolgente ed importante.
Nei prossimi mesi la fiera si sposterà in tanti altri comuni pugliesi.
50 gazebo e 50 stand che hanno accolto espositori provenienti da tutto il sud Italia. Erano in mostra ed in vendita prodotti enogastronomici, prodotti dell’artigianato, prodotti commerciali, prodotti culturali. Parecchi erano anche gli espositori di Villa Castelli, fra di essi l’Alta Moda Sposa di Vasta Pasquale, EdiliziAlò di Mimmo Alò, Antichi Sapori di Ciro Schiena.
Obiettivo della Fiera dei Cento Comuni era la valorizzazione del territorio regionale pugliese e delle sue eccellenze.
Anche l’Associazione “Settimana dei Briganti – l’altra storia”, con sede in Villa Castelli, ha allestito un suo stand dove erano esposti locandine e manifesti, alcuni anche molto rari, di film sul brigantaggio, oltre a libri sullo stesso tema. In questo stand erano anche ospitati quadri sul brigantaggio dei pittori Enza Schiavoni, Anna Guitti, Igli Arapi.
Nei quattro giorni di fiera gli spettatori sono stati allietati e coinvolti con spettacoli musicali, balli e teatro di strada.
Quasi tutti gli espositori hanno conseguito un notevoli volume di affari. Per tutti certamente la presenza in fiera è stata un’importante vetrina propagandistica.
Numerosissimi sono stati i visitatori, molti provenienti da altri Comuni.
Organizzatrice della fiera è stata l’Agenzia italo-rumena “Lost Eventi”, con il patrocinio del Comune di Villa Castelli. Il progetto era supportato dal Ministero dello Sviluppo economico, dalla Regione Puglia, dalle Province di Brindisi, Bari, Foggia, Taranto, Lecce.
Villa Castelli ha vissuto un momento altamente coinvolgente ed importante.
Nei prossimi mesi la fiera si sposterà in tanti altri comuni pugliesi.
20 novembre 2007
Nude per Prodi, Avanti popolo per Berlusconi
Prodi se la ride come un gatto sornione. Berlusconi aveva promesso sfracelli con la finanziaria in Senato ed invece è andato a sfracellarsi lui.
Veltroni sfotte Berlusconi. Una volta era il centrosinistra a inseguire il Berlusca nelle sue trovate, ora il mondo si è capovolto. «Noi facciamo i gazebo, e li fa pure lui. Noi facciamo un nuovo partito e lo fa pure lui. Noi raccogliamo le firme facendo pagare un euro e lo fa pure lui».
Franceschini prende per il culo: «Berlusconi moltiplica i numeri a dismisura. Si fermi però quando arriva a 55 milioni…». Alle ore 17 – dice Bondi – avevano votato 7.027.734 firmatari. Li aveva contati uno per uno. Qualcuno ha scritto: «Sette milioni di persone marciavano verso i gazebo e nessuno se n’è accorto. Questa sì che è organizzazione».
Bossi, Fini e Casini frenano. Il partito del popolo se lo faccia lui, noi ci teniamo i nostri partiti.
Per Berlusconi: Bossi, Fini e Casini sono dei parrucconi di giacobina memoria.
Sono tanti i segnali che annunciano che il mondo sta cambiando. Mentre Berlusconi per portarsi delle ragazze in barca le deve pagare profumatamente, per Prodi addirittura si spogliano gratuitamente. Si chiama “Sexpolitik 2008 - Senza veli per Prodi” la nuova edizione del tradizionale sexy-calendario delle ragazze reggiane. 13 splendide ragazze, rigorosamente con la "testa quadra" ben piantata sul collo nonostante la giovane età - dicono gli autori del calendario - si sono spogliate a fin di bene, per una giusta causa, allo scopo nobilissimo di sostenere anima e corpo il loro celebre compaesano, cioè per solidarizzare, senza se e senza ma, con il governo in carica, continuamente minacciato da eventualità di spallate e da ipotesi di caduta. Ci mettono non solo la faccia, ma anche culi e tette, per scongiurare le elezioni anticipate o il pasticcio istituzionale di un governicchio di tecnici. Un lunario "erotically correct", che mira a convincere l'opinione pubblica sulla bontà della variopinta squadra di centrosinistra. Una strenna filo-governativa, quindi, realizzata per sostenere l'illustre concittadino Romano, un reggiano purosangue, proprio come le protagoniste di questa sexy-pubblicazione, molte delle quali, addirittura, sono nate o abitano a Scandiano, il paese natale del leader dell'Ulivo. Un calendario apertamente schierato con il centrosinistra, ovvero "il primo calendario di lotta e di governo", come recita uno strillo grafico in copertina.
Berlusconi dovrà accontentarsi di intonare: “Avanti popolo, alla riscossa”, sulle note del famoso inno comunista.
La politica italiana sta diventando un grande carrozzone di clown, di saltimbanchi e buffoni.
Veltroni sfotte Berlusconi. Una volta era il centrosinistra a inseguire il Berlusca nelle sue trovate, ora il mondo si è capovolto. «Noi facciamo i gazebo, e li fa pure lui. Noi facciamo un nuovo partito e lo fa pure lui. Noi raccogliamo le firme facendo pagare un euro e lo fa pure lui».
Franceschini prende per il culo: «Berlusconi moltiplica i numeri a dismisura. Si fermi però quando arriva a 55 milioni…». Alle ore 17 – dice Bondi – avevano votato 7.027.734 firmatari. Li aveva contati uno per uno. Qualcuno ha scritto: «Sette milioni di persone marciavano verso i gazebo e nessuno se n’è accorto. Questa sì che è organizzazione».
Bossi, Fini e Casini frenano. Il partito del popolo se lo faccia lui, noi ci teniamo i nostri partiti.
Per Berlusconi: Bossi, Fini e Casini sono dei parrucconi di giacobina memoria.
Sono tanti i segnali che annunciano che il mondo sta cambiando. Mentre Berlusconi per portarsi delle ragazze in barca le deve pagare profumatamente, per Prodi addirittura si spogliano gratuitamente. Si chiama “Sexpolitik 2008 - Senza veli per Prodi” la nuova edizione del tradizionale sexy-calendario delle ragazze reggiane. 13 splendide ragazze, rigorosamente con la "testa quadra" ben piantata sul collo nonostante la giovane età - dicono gli autori del calendario - si sono spogliate a fin di bene, per una giusta causa, allo scopo nobilissimo di sostenere anima e corpo il loro celebre compaesano, cioè per solidarizzare, senza se e senza ma, con il governo in carica, continuamente minacciato da eventualità di spallate e da ipotesi di caduta. Ci mettono non solo la faccia, ma anche culi e tette, per scongiurare le elezioni anticipate o il pasticcio istituzionale di un governicchio di tecnici. Un lunario "erotically correct", che mira a convincere l'opinione pubblica sulla bontà della variopinta squadra di centrosinistra. Una strenna filo-governativa, quindi, realizzata per sostenere l'illustre concittadino Romano, un reggiano purosangue, proprio come le protagoniste di questa sexy-pubblicazione, molte delle quali, addirittura, sono nate o abitano a Scandiano, il paese natale del leader dell'Ulivo. Un calendario apertamente schierato con il centrosinistra, ovvero "il primo calendario di lotta e di governo", come recita uno strillo grafico in copertina.
Berlusconi dovrà accontentarsi di intonare: “Avanti popolo, alla riscossa”, sulle note del famoso inno comunista.
La politica italiana sta diventando un grande carrozzone di clown, di saltimbanchi e buffoni.
12 novembre 2007
Briganteide di Nicola Misasi
Nicola Misasi (nato a Cosenza il 1850 e morto a Roma il 1923) non ha in simpatia il bandito d’Aspromonte Giuseppe Musolino, che negli anni intorno al 1906 (anno di pubblicazione di Briganteide) faceva tanto parlare di sé le cronache dei giornali. Musolino – scrive Misasi nella premessa al libro - «non è punto un brigante, perché non basta l’uccidere, non basta l’esser feroce, non basta il vendicarsi dei propri nemici per meritare un tale titolo di nobiltà nel regno del delitto». L’omicida di Reggio non è un Carlo Moor, un Ernani, un Ettore di Serralta, anime assetate di libertà e di giustizia che sorgevano per difendere i deboli contro i forti, gli oppressi contro gli oppressori.
E poi Reggio non fu mai terra di briganti, perché con il suo sole caldo e limpido, il suo mare spumoso e ridente, i suoi colli ed i suoi piani verdi di ulivi e di aranci, può essere la terra di «Mignon morbide e bianche sognanti baci e carezze fra i rosai» e non la terra dei Robin Hood armati di carabine e di pugnale, aspettanti al varco il passeggero.
Regno e terra dei briganti era la Sila cosentina, «far la storia della Sila è far la storia del brigantaggio». La Sila si estende da Acri a Taverna per circa cento chilometri, con picchi che giungono all’altezza di 1800 metri sul livello del mare, con gole profonde, con altipiani acquitrinosi. Per le pendici della Sila sono disseminati gli innumerevoli paeselli in cui d’inverno tornano i contadini scacciati dalla neve e dal freddo dei monti; «e da quei paeselli balzavano nelle macchie gli oppressi, i reietti, coloro che a una lunga vita di stenti, di umiliazione e di servitù, preferivano un breve giorno di tripudio». “Meglio un anno toro che cento anni bue”, diceva un detto dei montanari silani; «e in tal detto ci era tutta la Sila, ci era tutto il brigantaggio dei tempi di Roma fino ai nostri tempi».
Bene ha fatto quindi l’editore – scrive Misasi - «ad invitarmi a scrivere non già di Musolino, ma a proposito di lui e del chiasso che si è fatto intorno a lui, una breve storia del brigantaggio calabrese». Impresa non facile per il Misasi sintetizzare quanto già aveva scritto in una cinquantina di romanzi e circa duecento racconti. E nella premessa il Misasi stesso invita a chi vuol saperne di più a leggere i suoi Racconti Calabresi, In Magna Sila, Senza dimani, Assedio di Amantea, Cronache del Brigantaggio.
Raffaele Nigro, nel suo Giustiziateli sul campo, citando Antonio Verre, scrive che Misasi è stato «fecondo romanziere di un’idea sola». L’idea del brigantaggio, espressione di una ancestralità ferina ma eroica che faceva dell’antico calabrese un titano.
Al brigante «temuto dagli uomini, amato dalle femmine, protetto dai signori, servito dai poveri, pasciuto di carni succolenti, di vino generoso, vestito di velluto coi bottoni di oro o di argento, armato di fucili damaschinati e di pugnali con l'elsa di avorio; sentendosi nelle solitudini immense e nei boschi profondi, dei quali conosceva ogni sentiero, ogni antro, ogni recesso, libero come lo sparviero e gagliardo come il toro; assaporando la voluttà di sentirsi lupo, lui che per tanti anni era stato agnello, che importava se domani, sorpreso a mezzo di un banchetto, di un ballo o fra le braccia di una femmina una palla di fucile lo farà rotolare cadavere in fondo ad un burrone; o se, dopo aver lottato come un cinghiale inferocito, e aver ferito ed ucciso, lo trarranno in un carcere per esser poi condotto al patibolo in mezzo ad una folla di spettatori, tra i quali riconoscerà l'amico con cui banchettò, la bella femmina che gli diede baci e carezze, che importava?». Per un anno o per pochi mesi avrebbe goduto tutte le gioie della vita, si sarebbe pasciuto di cibi delicati, avrebbe dormito avvolto nell'ampio e ricco mantello presso un buon fuoco scoppiettante in una vasta caverna, avrebbe amato e sarebbe stato amato dalle più belle contadine.
Al Misasi interessa poco la cornice storica nella quale si muovono i briganti, per lui «il brigantaggio calabrese fu una lotta secolare tra il debole ed il forte che è poi la storia dell’umanità». Non sono gli avvenimenti storici che creano le condizioni del brigantaggio, «era il bosco che produceva il brigante, che lo attirava, che gli parlava di libertà, d'indipendenza, che ne temprava il cuore alle passioni violenti; era la Sila che lo seduceva come una femmina bella e perversa, con le sue segrete bellezze, con le sue acri voluttà. Da Spartaco a Marco Berardi, da Tallarico a Seinardi, quanti di cotesti audaci ivi regnarono, quante pagine vi scrissero della fosca leggenda!».
Il gladiatore Spartaco, che nel 73 a.C. capeggiò una grande rivolta contro Roma, si rifugiò nei monti della Sila per rifarsi di una sconfitta e uscirne «più baldo e più risoluto a viver libero ed a morir libero».
Marco Berardi, proclamatosi “il Re dei boschi”, tenne in scacco sui monti della Sila per molti anni le truppe di Filippo II, re di Napoli e Sicilia dal 1556 al 1598. Per non farsi prendere vivo, si lasciò morire con la sua donna chiuso in una grotta.
Ma l’ammirazione maggiore del Misasi va al brigante Giosafatte Tallarico, «brigante calabrese, non superato dai masnadieri che lo precedettero e lo seguirono». In lui la forza era accoppiata all’astuzia, il coraggio alla prudenza, la ferocia alla bontà, la rozzezza ad una certa cultura. Era stato prete, poi aveva studiato da farmacista, ma nel 1820 uccise il seduttore di sua sorella e si diede alla macchia. Per ventisette anni, dal 1820 al 1847, regnò da re assoluto sulla Sila. Di lui – dice il Misasi – si ricordano solo le buone azioni, gli atti di generosità, di carità, di cavalleria. Trattò la sua resa alle forze governative per mezzo di un avvocato casentino. Fu deportato ad Ischia, ove gli assegnarono una casetta in riva al mare. Morì quasi novantenne, riverito ed amato.
Di questi ed altri briganti Misasi parla con entusiasmo nella sua Briganteide, che non è certamente l’opera sua più riuscita, ma è l’ultima testimonianza della sua ammirazione e stima per gli eroi briganti.
Ma ora [nel 1906] il brigantaggio è finito. L’emigrazione, portando in lontane contrade lo spirito di avventura e di vagabondaggio del calabrese, ha ucciso il brigante.
L’editore Laruffa ristampando quest’opera del Misasi continua la sua meritoria operazione culturale di riproposizione e diffusione di importanti e significativi scritti sul brigantaggio politico e sociale.
Se un piccolo appunto si vuol muovere all’editore è che sarebbe stato più utile e funzionale stampare i due volumi insieme [unico volume], premettendo una introduzione bio-bibliografica sul Misasi.
Rocco Biondi
Nicola Misasi, Briganteide, Laruffa Editore, Reggio Calabria 2007, Vol. I (pp. 126, € 10,00), Vol. II (pp.104, € 10,00).
E poi Reggio non fu mai terra di briganti, perché con il suo sole caldo e limpido, il suo mare spumoso e ridente, i suoi colli ed i suoi piani verdi di ulivi e di aranci, può essere la terra di «Mignon morbide e bianche sognanti baci e carezze fra i rosai» e non la terra dei Robin Hood armati di carabine e di pugnale, aspettanti al varco il passeggero.
Regno e terra dei briganti era la Sila cosentina, «far la storia della Sila è far la storia del brigantaggio». La Sila si estende da Acri a Taverna per circa cento chilometri, con picchi che giungono all’altezza di 1800 metri sul livello del mare, con gole profonde, con altipiani acquitrinosi. Per le pendici della Sila sono disseminati gli innumerevoli paeselli in cui d’inverno tornano i contadini scacciati dalla neve e dal freddo dei monti; «e da quei paeselli balzavano nelle macchie gli oppressi, i reietti, coloro che a una lunga vita di stenti, di umiliazione e di servitù, preferivano un breve giorno di tripudio». “Meglio un anno toro che cento anni bue”, diceva un detto dei montanari silani; «e in tal detto ci era tutta la Sila, ci era tutto il brigantaggio dei tempi di Roma fino ai nostri tempi».
Bene ha fatto quindi l’editore – scrive Misasi - «ad invitarmi a scrivere non già di Musolino, ma a proposito di lui e del chiasso che si è fatto intorno a lui, una breve storia del brigantaggio calabrese». Impresa non facile per il Misasi sintetizzare quanto già aveva scritto in una cinquantina di romanzi e circa duecento racconti. E nella premessa il Misasi stesso invita a chi vuol saperne di più a leggere i suoi Racconti Calabresi, In Magna Sila, Senza dimani, Assedio di Amantea, Cronache del Brigantaggio.
Raffaele Nigro, nel suo Giustiziateli sul campo, citando Antonio Verre, scrive che Misasi è stato «fecondo romanziere di un’idea sola». L’idea del brigantaggio, espressione di una ancestralità ferina ma eroica che faceva dell’antico calabrese un titano.
Al brigante «temuto dagli uomini, amato dalle femmine, protetto dai signori, servito dai poveri, pasciuto di carni succolenti, di vino generoso, vestito di velluto coi bottoni di oro o di argento, armato di fucili damaschinati e di pugnali con l'elsa di avorio; sentendosi nelle solitudini immense e nei boschi profondi, dei quali conosceva ogni sentiero, ogni antro, ogni recesso, libero come lo sparviero e gagliardo come il toro; assaporando la voluttà di sentirsi lupo, lui che per tanti anni era stato agnello, che importava se domani, sorpreso a mezzo di un banchetto, di un ballo o fra le braccia di una femmina una palla di fucile lo farà rotolare cadavere in fondo ad un burrone; o se, dopo aver lottato come un cinghiale inferocito, e aver ferito ed ucciso, lo trarranno in un carcere per esser poi condotto al patibolo in mezzo ad una folla di spettatori, tra i quali riconoscerà l'amico con cui banchettò, la bella femmina che gli diede baci e carezze, che importava?». Per un anno o per pochi mesi avrebbe goduto tutte le gioie della vita, si sarebbe pasciuto di cibi delicati, avrebbe dormito avvolto nell'ampio e ricco mantello presso un buon fuoco scoppiettante in una vasta caverna, avrebbe amato e sarebbe stato amato dalle più belle contadine.
Al Misasi interessa poco la cornice storica nella quale si muovono i briganti, per lui «il brigantaggio calabrese fu una lotta secolare tra il debole ed il forte che è poi la storia dell’umanità». Non sono gli avvenimenti storici che creano le condizioni del brigantaggio, «era il bosco che produceva il brigante, che lo attirava, che gli parlava di libertà, d'indipendenza, che ne temprava il cuore alle passioni violenti; era la Sila che lo seduceva come una femmina bella e perversa, con le sue segrete bellezze, con le sue acri voluttà. Da Spartaco a Marco Berardi, da Tallarico a Seinardi, quanti di cotesti audaci ivi regnarono, quante pagine vi scrissero della fosca leggenda!».
Il gladiatore Spartaco, che nel 73 a.C. capeggiò una grande rivolta contro Roma, si rifugiò nei monti della Sila per rifarsi di una sconfitta e uscirne «più baldo e più risoluto a viver libero ed a morir libero».
Marco Berardi, proclamatosi “il Re dei boschi”, tenne in scacco sui monti della Sila per molti anni le truppe di Filippo II, re di Napoli e Sicilia dal 1556 al 1598. Per non farsi prendere vivo, si lasciò morire con la sua donna chiuso in una grotta.
Ma l’ammirazione maggiore del Misasi va al brigante Giosafatte Tallarico, «brigante calabrese, non superato dai masnadieri che lo precedettero e lo seguirono». In lui la forza era accoppiata all’astuzia, il coraggio alla prudenza, la ferocia alla bontà, la rozzezza ad una certa cultura. Era stato prete, poi aveva studiato da farmacista, ma nel 1820 uccise il seduttore di sua sorella e si diede alla macchia. Per ventisette anni, dal 1820 al 1847, regnò da re assoluto sulla Sila. Di lui – dice il Misasi – si ricordano solo le buone azioni, gli atti di generosità, di carità, di cavalleria. Trattò la sua resa alle forze governative per mezzo di un avvocato casentino. Fu deportato ad Ischia, ove gli assegnarono una casetta in riva al mare. Morì quasi novantenne, riverito ed amato.
Di questi ed altri briganti Misasi parla con entusiasmo nella sua Briganteide, che non è certamente l’opera sua più riuscita, ma è l’ultima testimonianza della sua ammirazione e stima per gli eroi briganti.
Ma ora [nel 1906] il brigantaggio è finito. L’emigrazione, portando in lontane contrade lo spirito di avventura e di vagabondaggio del calabrese, ha ucciso il brigante.
L’editore Laruffa ristampando quest’opera del Misasi continua la sua meritoria operazione culturale di riproposizione e diffusione di importanti e significativi scritti sul brigantaggio politico e sociale.
Se un piccolo appunto si vuol muovere all’editore è che sarebbe stato più utile e funzionale stampare i due volumi insieme [unico volume], premettendo una introduzione bio-bibliografica sul Misasi.
Rocco Biondi
Nicola Misasi, Briganteide, Laruffa Editore, Reggio Calabria 2007, Vol. I (pp. 126, € 10,00), Vol. II (pp.104, € 10,00).
9 novembre 2007
Nuevotango
Villa Castelli, in provincia di Brindisi, ha una grande tradizione nel campo musicale. Giuseppe e Giovanni Neglia, padre e figlio, furono affermati maestri di banda e compositori che operarono a Villa Castelli nei primi anni del 1900. Bernardino Ciracì è un maestro d’orchestra tuttora operante. I Cantori di Villa Castelli si sono esibiti nella “Notte della Taranta” a Melpignano. Villa Castelli vanta il primato fra i suonatori di organetto in tutta la Puglia. La Banda di Villa Castelli ha raggiunto in anni passati un grande livello artistico.
Ai giorni nostri opera a Villa Castelli il Centro Accademico Multifunzionale, diretto dai maestri Mino La Penna e Angelo Pignatelli, dove si tengono corsi di Pianoforte, Tastiera elettronica, Fisarmonica, Batteria, Chitarra elettrica, Organetto, Basso elettrico, Canto Leggero, Violino, Strumenti a fiato, Tamburi a cornice. Sono tantissimi gli allievi frequentanti.
Opera a Villa Castelli e fa tournèe in tutta Italia la Fisorchestra Pignatelli nella quale si esibiscono contemporaneamente 23 fisarmoniche elettroniche capaci di riprodurre i suoni di un'orchestra sinfonica.
Ma il fiore all’occhiello della scena musicale villacastellana è il gruppo Nuevotango, un quartetto composto da fisarmonica e bandoneon (Angelo Pignatelli), pianoforte (Mino La Penna), vibrafono (Cosimo Leone), contrabbasso (Francesco Salonna). Nuevotango nacque nel 2005 per riproporre soprattutto musiche di Astor Piazzola, il più grande interprete di tango. Ha raggiunto un alto livello artistico, dalle magiche sonorità.
Ieri sera Nuevotango si è esibito nel “Cinema Teatro Italia” di Francavilla Fontana (Brindisi), gremito in ogni ordine di posti, in occasione dell’apertura dell’anno sociale dell’Associazione culturale “l’Ulivo”, presieduta dal prof. Cosimo d’Amone. Lunghi e calorosi applausi a scena aperta. Ospiti applauditissimi della serata sono stati i campioni ballerini di tango Veronica e Denis Pennella.
Informazioni su Nuevotango possono essere trovate nel sito http://www.altrosuono.it/.
Ai giorni nostri opera a Villa Castelli il Centro Accademico Multifunzionale, diretto dai maestri Mino La Penna e Angelo Pignatelli, dove si tengono corsi di Pianoforte, Tastiera elettronica, Fisarmonica, Batteria, Chitarra elettrica, Organetto, Basso elettrico, Canto Leggero, Violino, Strumenti a fiato, Tamburi a cornice. Sono tantissimi gli allievi frequentanti.
Opera a Villa Castelli e fa tournèe in tutta Italia la Fisorchestra Pignatelli nella quale si esibiscono contemporaneamente 23 fisarmoniche elettroniche capaci di riprodurre i suoni di un'orchestra sinfonica.
Ma il fiore all’occhiello della scena musicale villacastellana è il gruppo Nuevotango, un quartetto composto da fisarmonica e bandoneon (Angelo Pignatelli), pianoforte (Mino La Penna), vibrafono (Cosimo Leone), contrabbasso (Francesco Salonna). Nuevotango nacque nel 2005 per riproporre soprattutto musiche di Astor Piazzola, il più grande interprete di tango. Ha raggiunto un alto livello artistico, dalle magiche sonorità.
Ieri sera Nuevotango si è esibito nel “Cinema Teatro Italia” di Francavilla Fontana (Brindisi), gremito in ogni ordine di posti, in occasione dell’apertura dell’anno sociale dell’Associazione culturale “l’Ulivo”, presieduta dal prof. Cosimo d’Amone. Lunghi e calorosi applausi a scena aperta. Ospiti applauditissimi della serata sono stati i campioni ballerini di tango Veronica e Denis Pennella.
Informazioni su Nuevotango possono essere trovate nel sito http://www.altrosuono.it/.
31 ottobre 2007
Fra Diavolo di Piero Bargellini
Piero Bargellini, autore apprezzato e prolifico di vite di santi, aveva iniziato la sua carriera letteraria nel 1931 con questo libro sul brigante Fra Diavolo.
Nella breve premessa al libro Bargellini scrive che l’obiettivo che si prefigge è quello di liberare Fra Diavolo «dalle incrostazioni leggendarie» eseguendo un restauro «con verosimiglianza storica». Fra Diavolo non fu un eroe, ma ebbe tratti di eroismo; non fu un redentore, ma ebbe moti di generosità. Non fu certo un uomo esemplare, ma neppure spregevole.
Le gesta di Fra Diavolo iniziano nel 1796, quando ammazza il suo maestro della bottega di bastaio, reo di avergli messo le mani addosso, ed il fratello di lui che gli minacciava vendetta, e terminano nel 1806, quando viene impiccato a Napoli dai francesi.
Re di Napoli era Ferdinando IV, regina Maria Carolina. L’esercito napoletano era in mano ad ufficiali svizzeri, austriaci e inglesi, che si vendevano ai migliori offerenti.
Michele Pezza (così si chiamava Fra Diavolo) era nato a Itri il 7 aprile 1771. La madre, in seguito ad una grave malattia del figlio, aveva fatto voto a San Francesco di Paola di farlo fraticello, se gli salvava la vita. E così avvenne. Michele venne rapato, vestito con un saio e fatto camminare scalzo. Le donne lo benedicevano come un bambino santo e lo chiamavano Fra Michele Arcangelo. Ma pian piano con l’avanzare dell’età l’incanto della santità sparì. Divenne sempre più vivace e manesco. Tant’è che il suo maestro canonico lo ribattezzò col nome di Fra Diavolo.
Michele Pezza a fine 1797 fa domanda al Re di venirgli commutata in servizio militare la pena che avrebbe dovuto subire per i due omicidi. La domanda viene accolta e dovrà fare il militare per tredici anni.
Nel febbraio 1798 i francesi invadono Roma e proclamano la Repubblica Romana. Il Papa è costretto a lasciare Roma. Ferdinando IV ordina al suo esercito di marciare su Roma per cacciare i francesi. Michele Pezza fa parte di questo esercito. Il 29 novembre Re Ferdinando entra a Roma, vittorioso. Ma dieci giorni dopo i giacobini francesi lo ricacciano via. E Re Ferdinando da Caserta invita i suoi sudditi a sollevarsi in armi per difendere il Papa e la Religione.
L’esercito borbonico è allo sbando e Michele, che non era stato soldato neppure un anno, torna al suo paese Itri.
Civitella del Tronto e Pescara vengono cedute ai francesi dai generali borbonici, quasi senza sparare un colpo.
Gli abruzzesi invece avevano preso sul serio il proclama del Re ed erano insorti formando bande armate e contrastando seriamente il cammino dei francesi.
Michele, che aveva ripreso il suo soprannome di Fra Diavolo, riesce a metter su una “massa” di seicento uomini e cerca di bloccare il cammino dei francesi verso Gaeta. Ottiene qualche successo. Ma un colonnello svizzero, che comandava la fortezza di Gaeta, si arrende pure lui ai francesi.
Scrive Bargellini, con amaro sarcasmo: «Era il 31 dicembre del 1798, ultimo dell’anno. Con questa esemplare difesa, si chiudeva l’anno di gloria del Re Ferdinando e degli ufficiali suoi, accuratamente acquistati all’estero».
Fra Diavolo non ci sta a questo sfacelo. «Davanti a Gaeta ceduta – scrive Bargellini –, visto l’esercito correre spedito verso Capua, pensò di sollevargli alle spalle la Terra di Lavoro. La viltà altrui lo esasperava; la indolenza altrui lo rendeva frenetico. Corse come un forsennato in tutti i paesi, minacciò il sacco a quelli che non insorgevano, non davano uomini e non mescevano ducati». Ma fu tutto inutile. Nel gennaio 1799 anche Capua, ultima difesa del Regno, viene ceduta ai francesi, con la vergognosa resa del generale Mack. Allora Fra Diavolo «viene risucchiato dalla sua terra, si rimescola con la sua gente; partecipa alla cronaca di tutte le insurrezioni, le scorribande, i saccheggi, gli agguati, gli assassini, i rubamenti, gli eroismi, gli intrighi, i ricatti». E con tutto questo ottiene la simpatia della regina Maria Caolina, che nel frattempo con re Ferdinando IV era scappata a Palermo.
E quando all’inizio del 1799 il calabrese cardinale Fabrizio Ruffo parte da Palermo per la riconquista del Regno di Napoli, punto di riferimento sulla terra ferma diventerà Fra Diavolo. Per stringere d’assedio Gaeta, che era in mano ai francesi, Fra Diavolo fu nominato generale e la sua massa, di ormai oltre mille uomini, fu riconosciuta come un esercito regolare. Ma quando dopo tre mesi d’assedio Gaeta si arrese, il generale francese Girardon si rifiutò di trattare con Fra Diavolo, considerandolo pur sempre un brigante. La capitolazione di Gaeta fu firmata dal generale Acton per conto del Re e dal generale Nelson per conto degli alleati inglesi.
Fu una prima grande delusione per Fra Diavolo, che molte altre dovette subirne successivamente.
Fra il cardinale Ruffo e Fra Diavolo non corse mai buon sangue.
Riconquistata Napoli re Ferdinando pensò ad una spedizione su Roma, per liberarla dai francesi e riconsegnarla al Papa. Anche Fra Diavolo, che aveva ormai più fama di tutti i generali del Regno, fu chiamato per l’operazione. Il Re lo nominò colonnello di fanteria.
Fra Diavolo prese sul serio l’incarico e con il suo esercito di briganti mosse su Roma e ci sarebbe entrato da vincitore, se il cardinal Ruffo non l’avesse fatto fermare dalla cavalleria borbonica. Anzi, lo fece arrestare e rinchiudere in Castel Sant’Angelo. Ma fuggito si imbarcò per Palermo per andare a parlare col Re, che lo nomina Comandante Generale del dipartimento di Itri.
Finita la guerra Fra Diavolo si dà la missione di reperire i fondi per pagare, come aveva promesso, i suoi soldati. Ma in questo non lo assecondò nessuno, nemmeno il Re. Ed il colonnello Pezza finì col vivere in una squallida pensione a Napoli.
Lo spirito brigantesco di Fra Diavolo viene risvegliato nel 1806, quando il francese Giuseppe Bonaparte è stato nominato dal fratello Napoleone re di Napoli e re Ferdinando è rifuggito a Palermo.
Si pensò al colonnello Pezza (Fra Diavolo), per rinverdire i fasti del 1799. Il Re lo nomina Duca di Cassano.
Ma questa volta la fortuna non è dalla sua parte. E venne impiccato dai francesi in Piazza del Mercato a Napoli, come un comune malfattore. Aveva 35 anni. Il suo corpo fu lasciato penzolare per ventiquattr’ore col brevetto di duca di Cassano sul petto.
Rocco Biondi
Piero Bargellini, Fra Diavolo, Rusconi 1975, pp. 140
Nella breve premessa al libro Bargellini scrive che l’obiettivo che si prefigge è quello di liberare Fra Diavolo «dalle incrostazioni leggendarie» eseguendo un restauro «con verosimiglianza storica». Fra Diavolo non fu un eroe, ma ebbe tratti di eroismo; non fu un redentore, ma ebbe moti di generosità. Non fu certo un uomo esemplare, ma neppure spregevole.
Le gesta di Fra Diavolo iniziano nel 1796, quando ammazza il suo maestro della bottega di bastaio, reo di avergli messo le mani addosso, ed il fratello di lui che gli minacciava vendetta, e terminano nel 1806, quando viene impiccato a Napoli dai francesi.
Re di Napoli era Ferdinando IV, regina Maria Carolina. L’esercito napoletano era in mano ad ufficiali svizzeri, austriaci e inglesi, che si vendevano ai migliori offerenti.
Michele Pezza (così si chiamava Fra Diavolo) era nato a Itri il 7 aprile 1771. La madre, in seguito ad una grave malattia del figlio, aveva fatto voto a San Francesco di Paola di farlo fraticello, se gli salvava la vita. E così avvenne. Michele venne rapato, vestito con un saio e fatto camminare scalzo. Le donne lo benedicevano come un bambino santo e lo chiamavano Fra Michele Arcangelo. Ma pian piano con l’avanzare dell’età l’incanto della santità sparì. Divenne sempre più vivace e manesco. Tant’è che il suo maestro canonico lo ribattezzò col nome di Fra Diavolo.
Michele Pezza a fine 1797 fa domanda al Re di venirgli commutata in servizio militare la pena che avrebbe dovuto subire per i due omicidi. La domanda viene accolta e dovrà fare il militare per tredici anni.
Nel febbraio 1798 i francesi invadono Roma e proclamano la Repubblica Romana. Il Papa è costretto a lasciare Roma. Ferdinando IV ordina al suo esercito di marciare su Roma per cacciare i francesi. Michele Pezza fa parte di questo esercito. Il 29 novembre Re Ferdinando entra a Roma, vittorioso. Ma dieci giorni dopo i giacobini francesi lo ricacciano via. E Re Ferdinando da Caserta invita i suoi sudditi a sollevarsi in armi per difendere il Papa e la Religione.
L’esercito borbonico è allo sbando e Michele, che non era stato soldato neppure un anno, torna al suo paese Itri.
Civitella del Tronto e Pescara vengono cedute ai francesi dai generali borbonici, quasi senza sparare un colpo.
Gli abruzzesi invece avevano preso sul serio il proclama del Re ed erano insorti formando bande armate e contrastando seriamente il cammino dei francesi.
Michele, che aveva ripreso il suo soprannome di Fra Diavolo, riesce a metter su una “massa” di seicento uomini e cerca di bloccare il cammino dei francesi verso Gaeta. Ottiene qualche successo. Ma un colonnello svizzero, che comandava la fortezza di Gaeta, si arrende pure lui ai francesi.
Scrive Bargellini, con amaro sarcasmo: «Era il 31 dicembre del 1798, ultimo dell’anno. Con questa esemplare difesa, si chiudeva l’anno di gloria del Re Ferdinando e degli ufficiali suoi, accuratamente acquistati all’estero».
Fra Diavolo non ci sta a questo sfacelo. «Davanti a Gaeta ceduta – scrive Bargellini –, visto l’esercito correre spedito verso Capua, pensò di sollevargli alle spalle la Terra di Lavoro. La viltà altrui lo esasperava; la indolenza altrui lo rendeva frenetico. Corse come un forsennato in tutti i paesi, minacciò il sacco a quelli che non insorgevano, non davano uomini e non mescevano ducati». Ma fu tutto inutile. Nel gennaio 1799 anche Capua, ultima difesa del Regno, viene ceduta ai francesi, con la vergognosa resa del generale Mack. Allora Fra Diavolo «viene risucchiato dalla sua terra, si rimescola con la sua gente; partecipa alla cronaca di tutte le insurrezioni, le scorribande, i saccheggi, gli agguati, gli assassini, i rubamenti, gli eroismi, gli intrighi, i ricatti». E con tutto questo ottiene la simpatia della regina Maria Caolina, che nel frattempo con re Ferdinando IV era scappata a Palermo.
E quando all’inizio del 1799 il calabrese cardinale Fabrizio Ruffo parte da Palermo per la riconquista del Regno di Napoli, punto di riferimento sulla terra ferma diventerà Fra Diavolo. Per stringere d’assedio Gaeta, che era in mano ai francesi, Fra Diavolo fu nominato generale e la sua massa, di ormai oltre mille uomini, fu riconosciuta come un esercito regolare. Ma quando dopo tre mesi d’assedio Gaeta si arrese, il generale francese Girardon si rifiutò di trattare con Fra Diavolo, considerandolo pur sempre un brigante. La capitolazione di Gaeta fu firmata dal generale Acton per conto del Re e dal generale Nelson per conto degli alleati inglesi.
Fu una prima grande delusione per Fra Diavolo, che molte altre dovette subirne successivamente.
Fra il cardinale Ruffo e Fra Diavolo non corse mai buon sangue.
Riconquistata Napoli re Ferdinando pensò ad una spedizione su Roma, per liberarla dai francesi e riconsegnarla al Papa. Anche Fra Diavolo, che aveva ormai più fama di tutti i generali del Regno, fu chiamato per l’operazione. Il Re lo nominò colonnello di fanteria.
Fra Diavolo prese sul serio l’incarico e con il suo esercito di briganti mosse su Roma e ci sarebbe entrato da vincitore, se il cardinal Ruffo non l’avesse fatto fermare dalla cavalleria borbonica. Anzi, lo fece arrestare e rinchiudere in Castel Sant’Angelo. Ma fuggito si imbarcò per Palermo per andare a parlare col Re, che lo nomina Comandante Generale del dipartimento di Itri.
Finita la guerra Fra Diavolo si dà la missione di reperire i fondi per pagare, come aveva promesso, i suoi soldati. Ma in questo non lo assecondò nessuno, nemmeno il Re. Ed il colonnello Pezza finì col vivere in una squallida pensione a Napoli.
Lo spirito brigantesco di Fra Diavolo viene risvegliato nel 1806, quando il francese Giuseppe Bonaparte è stato nominato dal fratello Napoleone re di Napoli e re Ferdinando è rifuggito a Palermo.
Si pensò al colonnello Pezza (Fra Diavolo), per rinverdire i fasti del 1799. Il Re lo nomina Duca di Cassano.
Ma questa volta la fortuna non è dalla sua parte. E venne impiccato dai francesi in Piazza del Mercato a Napoli, come un comune malfattore. Aveva 35 anni. Il suo corpo fu lasciato penzolare per ventiquattr’ore col brevetto di duca di Cassano sul petto.
Rocco Biondi
Piero Bargellini, Fra Diavolo, Rusconi 1975, pp. 140
25 ottobre 2007
Un Post al Sole – Libro dal blog di Tina Galante
Non so se il desktop sostituirà mai completamente il foglio stampato di un libro. Forse no, se molti che scrivono in digitale su internet, ed in primo luogo i blogger, aspirano a scrivere sulla carta stampata, su di un giornale o nell’editoria. L’ha dichiarato la blogger Tisbe, nella vita reale Tina Galante, che suo sogno e suo desiderio erano quelli di vedere pubblicati in un libro i suoi post digitali. Ed il sogno si è avverato. Per Versi Editori ha pubblicato il libro Un Post al Sole, che raccoglie il meglio dal blog di Tina Galante http://www.tisbe.splinder.com/; libro snello nella forma ma corposo nei contenuti.
L’impatto che si riceve leggendo il libro è totalmente diverso da quello che si prova leggendo gli stessi post nel blog. Sei di fronte ad un foglio scarno pieno di parole e pensieri, senza la “distrazione” delle immagini a colori, dei testi scorrevoli, dei form, della musica di sottofondo che accompagna il blog di Tisbe. Devi riflettere e reagire, accettare o rifiutare. Il vantaggio che ha il blog è che puoi far conoscere la tua reazione, scrivendo un commento e dialogando o scontrandoti con l’autore e con gli altri lettori.
Ma veniamo al libro. Mi hanno colpito tre frasi, che penso sintetizzino il modo d’essere e pensare di Tina Galente. Eccole: «A cinque anni ero già filosofa», «Anch’io sono cattolica, ma una cattolica eretica», «Io appartenevo alla classe dei cafoni».
L’autrice dichiara di non sapere bene cosa vuole e cosa cerca nella vita, ma sa cosa non vuole: «non voglio chiedere». Si guarda dalle persone mediocri perché sono le più pericolose. Preferisce una vita intelligente ma sofferente ad una vita stupida ma serena. «La felicità può aspettare, pretendo il diritto di essere triste, pretendo il diritto di sbagliare… io sono soltanto e soprattutto un essere umano… non “devo” essere niente… tranne ciò che sono».
Per lei le fedi, le religioni, le ideologie, altro non sono che paletti disposti nel fiume del divenire, ai quali i disperati d’ogni tempo si aggrappano con l’illusione di sfuggire alla morte.
Gli insegnamenti fondamentali della vita li ha ricevuti dai nonni, presso i quali è vissuta da bambina. Il nonno le ha insegnato che sulla terra non esistono esseri superiori, l’unica qualità che fa la differenza è la cultura. La nonna le ha insegnato a non farsi imbonire dalle religioni, la ha allontanata dal concetto di santità. E’ cresciuta nel mito della libertà e dall’autodeterminazione.
La prima ideologia che ha appreso è stata la religione, che in qualche modo ha amato, come successivamente ha amato il comunismo, «tanto da diventare una famigerata cattocomunista».
Lei è stata testimone oculare dello scempio democristiano verso la gente e la terra della sua Irpinia. Per questo si è avvicinata al Partito Comunista, che «era l’unico partito che s’interessava del dramma dei cafoni, l’unico che li assisteva, che prendeva le loro difese». Quel partito è diventato la sua speranza. Essere comunista – scrive – è una scelta di coraggio che non tutti possono fare. Forse un po’ da sognatrice, come lo sono tutti i grandi, scrive ancora: «Chiedo alle menti illuminate della sinistra di elaborare una strategia politica capace di rendere le istanze del comunismo attuali e storicamente applicabili. Non ci rimane altro da fare…».
Il libro si chiude con il racconto autobiografico Con gli occhi di bambina. Sono ricordi della sua vita da bambina senza amore e senza genitori, che erano sostituiti dai cani, dai gatti e dai libri. «Gli esseri umani non facevano parte del mio mondo, e chi non conosce questo genere di dramma non può comprenderlo». Era affidata alle cure della nonna, che si comportava con lei da “padre padrone”.
Tina Galante, Tisbe, o la si ama o la si odia. Leggendo il suo libro non si può rimanere indifferenti. Ed io la amo, perché il suo modo di sentire ed essere è molto vicino al mio.
Tina Galante, Un Post al Sole. Il meglio dal blog www.tisbe.splinder.com, prefazione di Patrizio Rispo, Per Versi Editori, Grottaminarda (AV) 2007, pp. 95, € 12,00
L’impatto che si riceve leggendo il libro è totalmente diverso da quello che si prova leggendo gli stessi post nel blog. Sei di fronte ad un foglio scarno pieno di parole e pensieri, senza la “distrazione” delle immagini a colori, dei testi scorrevoli, dei form, della musica di sottofondo che accompagna il blog di Tisbe. Devi riflettere e reagire, accettare o rifiutare. Il vantaggio che ha il blog è che puoi far conoscere la tua reazione, scrivendo un commento e dialogando o scontrandoti con l’autore e con gli altri lettori.
Ma veniamo al libro. Mi hanno colpito tre frasi, che penso sintetizzino il modo d’essere e pensare di Tina Galente. Eccole: «A cinque anni ero già filosofa», «Anch’io sono cattolica, ma una cattolica eretica», «Io appartenevo alla classe dei cafoni».
L’autrice dichiara di non sapere bene cosa vuole e cosa cerca nella vita, ma sa cosa non vuole: «non voglio chiedere». Si guarda dalle persone mediocri perché sono le più pericolose. Preferisce una vita intelligente ma sofferente ad una vita stupida ma serena. «La felicità può aspettare, pretendo il diritto di essere triste, pretendo il diritto di sbagliare… io sono soltanto e soprattutto un essere umano… non “devo” essere niente… tranne ciò che sono».
Per lei le fedi, le religioni, le ideologie, altro non sono che paletti disposti nel fiume del divenire, ai quali i disperati d’ogni tempo si aggrappano con l’illusione di sfuggire alla morte.
Gli insegnamenti fondamentali della vita li ha ricevuti dai nonni, presso i quali è vissuta da bambina. Il nonno le ha insegnato che sulla terra non esistono esseri superiori, l’unica qualità che fa la differenza è la cultura. La nonna le ha insegnato a non farsi imbonire dalle religioni, la ha allontanata dal concetto di santità. E’ cresciuta nel mito della libertà e dall’autodeterminazione.
La prima ideologia che ha appreso è stata la religione, che in qualche modo ha amato, come successivamente ha amato il comunismo, «tanto da diventare una famigerata cattocomunista».
Lei è stata testimone oculare dello scempio democristiano verso la gente e la terra della sua Irpinia. Per questo si è avvicinata al Partito Comunista, che «era l’unico partito che s’interessava del dramma dei cafoni, l’unico che li assisteva, che prendeva le loro difese». Quel partito è diventato la sua speranza. Essere comunista – scrive – è una scelta di coraggio che non tutti possono fare. Forse un po’ da sognatrice, come lo sono tutti i grandi, scrive ancora: «Chiedo alle menti illuminate della sinistra di elaborare una strategia politica capace di rendere le istanze del comunismo attuali e storicamente applicabili. Non ci rimane altro da fare…».
Il libro si chiude con il racconto autobiografico Con gli occhi di bambina. Sono ricordi della sua vita da bambina senza amore e senza genitori, che erano sostituiti dai cani, dai gatti e dai libri. «Gli esseri umani non facevano parte del mio mondo, e chi non conosce questo genere di dramma non può comprenderlo». Era affidata alle cure della nonna, che si comportava con lei da “padre padrone”.
Tina Galante, Tisbe, o la si ama o la si odia. Leggendo il suo libro non si può rimanere indifferenti. Ed io la amo, perché il suo modo di sentire ed essere è molto vicino al mio.
Tina Galante, Un Post al Sole. Il meglio dal blog www.tisbe.splinder.com, prefazione di Patrizio Rispo, Per Versi Editori, Grottaminarda (AV) 2007, pp. 95, € 12,00
21 ottobre 2007
Non voglio morire sotto Berlusconi
«Noi, vecchi liberaldemocratici, rischiamo di morire sotto Berlusconi. E' vero che abbiamo altre risorse e altri interessi da coltivare per il tempo spero lungo che ci resta, ma per l'amore che portiamo a questo Paese vederlo sottoposto ad un ulteriore degrado morale ci riempie di tristezza». Così scrive Eugenio Scalfari nell’articolo di fondo de la Repubblica di oggi 21 ottobre 2007.
Sostituisco la parola “liberaldemocratici” con “comunisti” e faccio mia la frase. Da quando con Prodi abbiamo vinto le elezioni, lasciando a casa Berlusconi, in pratica ho smesso di scrivere di politica in questo mio blog. Molte cose fatte, e di più quelle non fatte, dall’attuale governo di centro sinistra non mi andavano giù. Ma non me la sentivo di sparare contro Prodi e compagni ed amici, come invece facevo quasi quotidianamente contro Berlusconi ai suoi tempi. Meglio mille giorni con Prodi che uno con Berlusconi. Comunque speravo sempre che le cose potessero migliorare. Ho seguito con apprensione le beghe all’interno del pollaio del centrosinistra, con la quotidiana paura che si sfasciasse tutto e si andasse a votare, con la quasi certezza di riconsegnare l’Italia in mano a Berlusconi.
Ora mi chiedo se questo mio silenzio possa essere considerato colpevole, se si dovesse verificare la sventurata sorte di ritrovarci ancora Berlusconi al governo. Ma non riesco a darmi una risposta. Non vedo cosa possa fare con il mio blog per evitare quella iattura.
Mi sono rifugiato fra i miei libri e nello studio dei miei cari “briganti” dell’ottocento postunitario.
Berlusconi è di otto anni più vecchio di me e quindi dovrebbe crepare prima di me. Ma non si sa mai. Con i suoi soldi oltre a comprarsi qualche senatore si potrebbe anche comprare la morte, anche se solo per qualche anno però. Ma comunque con lui al governo camperei malissimo.
Veltroni a segretario del neonato Partito Democratico e quindi candidato a prossimo Presidente del Consiglio, contro Berlusconi, mi infonde un po’ di speranza. Anche se io, da vecchio comunista, non sono confluito nel Pd, ma sono rimasto nella sinistra democratica. Né sono andato a votare alla primarie per il Pd.
Nei giorni scorsi sono stato fra il campione dei 1523 italiani intervistati nel sondaggio della Demos-Eurisko, che ha detto che preferirebbe come prossimo Presidente del Consiglio Veltroni con il 45,2 per cento contro il 37,1 per cento di Berlusconi. Anche se la coalizione del centrodestra è ancora data di 8 punti sopra quella del centrosinistra. Come voto di gradimento io ho dato 7 a Veltroni, 5 a Prodi, 3 a Berlusconi. Bella o magra soddisfazione, a seconda dei punti di vista. Ho detto pure che se si andasse a votare subito vincerebbe il centrosinistra. Sognatore.
Sostituisco la parola “liberaldemocratici” con “comunisti” e faccio mia la frase. Da quando con Prodi abbiamo vinto le elezioni, lasciando a casa Berlusconi, in pratica ho smesso di scrivere di politica in questo mio blog. Molte cose fatte, e di più quelle non fatte, dall’attuale governo di centro sinistra non mi andavano giù. Ma non me la sentivo di sparare contro Prodi e compagni ed amici, come invece facevo quasi quotidianamente contro Berlusconi ai suoi tempi. Meglio mille giorni con Prodi che uno con Berlusconi. Comunque speravo sempre che le cose potessero migliorare. Ho seguito con apprensione le beghe all’interno del pollaio del centrosinistra, con la quotidiana paura che si sfasciasse tutto e si andasse a votare, con la quasi certezza di riconsegnare l’Italia in mano a Berlusconi.
Ora mi chiedo se questo mio silenzio possa essere considerato colpevole, se si dovesse verificare la sventurata sorte di ritrovarci ancora Berlusconi al governo. Ma non riesco a darmi una risposta. Non vedo cosa possa fare con il mio blog per evitare quella iattura.
Mi sono rifugiato fra i miei libri e nello studio dei miei cari “briganti” dell’ottocento postunitario.
Berlusconi è di otto anni più vecchio di me e quindi dovrebbe crepare prima di me. Ma non si sa mai. Con i suoi soldi oltre a comprarsi qualche senatore si potrebbe anche comprare la morte, anche se solo per qualche anno però. Ma comunque con lui al governo camperei malissimo.
Veltroni a segretario del neonato Partito Democratico e quindi candidato a prossimo Presidente del Consiglio, contro Berlusconi, mi infonde un po’ di speranza. Anche se io, da vecchio comunista, non sono confluito nel Pd, ma sono rimasto nella sinistra democratica. Né sono andato a votare alla primarie per il Pd.
Nei giorni scorsi sono stato fra il campione dei 1523 italiani intervistati nel sondaggio della Demos-Eurisko, che ha detto che preferirebbe come prossimo Presidente del Consiglio Veltroni con il 45,2 per cento contro il 37,1 per cento di Berlusconi. Anche se la coalizione del centrodestra è ancora data di 8 punti sopra quella del centrosinistra. Come voto di gradimento io ho dato 7 a Veltroni, 5 a Prodi, 3 a Berlusconi. Bella o magra soddisfazione, a seconda dei punti di vista. Ho detto pure che se si andasse a votare subito vincerebbe il centrosinistra. Sognatore.
16 ottobre 2007
Brigantesse di Valentino Romano
Con il libro di Valentino Romano le brigantesse escono dal buio dell’anonimato per essere illuminate da un nuovo fascio di luce della storia.
Quasi a sorpresa il libro si apre nel nome di Maria Sofia, la giovane moglie non ancora ventenne di Francesco 2° Re di Napoli, che «si è meritata sul campo i galloni di prima resistente». Resistenza ai piemontesi di Vittorio Emanuele 2° e di Cavour, che invasero il Regno delle Due Sicilie per annetterselo senza alcuna dichiarazione di guerra.
In seguito alla forzata unità d’Italia nel Mezzogiorno esplode la ribellione contadina. Il nuovo governo non ha mantenuto la promessa di dare la terra ai contadini che la lavoravano. Questi ultimi non hanno soldi per acquistarla o riscattarla. Il parlamento dei “galantuomini” fa le leggi a vantaggio dei “galantuomini”. Ai contadini non resta che rassegnarsi o ribellarsi.
La rivolta contadina del Sud viene semplicisticamente bollata come “brigantaggio”. Il Parlamento piemontese, anziché tentare di rimuoverne le cause, sceglie la via della repressione, instaura il terrore nei territori occupati, pratica la fucilazione sul campo.
Al fianco dei molti briganti, alla macchia, vi furono anche delle brigantesse. «Donne che amarono i loro uomini al punto da imbracciare un fucile, cavalcare un cavallo e difenderli sulle montagne fino alla morte. Donne come maschi. Donne spesso più forti dei maschi nella sofferenza, nella sopportazione della fatica, delle privazioni», scrive Raffaele Nigro nella introduzione.
Ma molte di più furono le fiancheggiatrici. Madri, mogli, figlie, sorelle, amanti, simpatizzanti, che favorivano in tutti i modi i briganti. Donne che uscivano di casa la notte, sfidando i rigori della legge, per portare pane e vino ai loro uomini, per portare una notizia, per rassicurarli con l’affetto. Donne che curavano e nascondevano i briganti feriti. Donne che sviavano le ricerche dei militari.
Svariati sono i temi che Valentino Romano affronta nel suo libro. Le brigantesse preunitarie: non esiste una data di nascita del brigantaggio femminile; è azzardato attribuire autonomia al brigantaggio femminile preunitario. Le brigantesse e la maternità: la dura legge della guerriglia e della latitanza non sopprime il bisogno di essere madre. Le brigantesse e le condanne: in media la condanna per le brigantesse catturate si aggira sui quindici anni di carcere; non è una condanna lieve, spessissimo è una condanna a morte; la mancanza di igiene nelle carceri porta a morte prematura. Le brigantesse e l’opinione pubblica: il dramma delle donne del brigantaggio si consuma nell’indifferenza e nel disprezzo; le cronache dei giornali le descrivono solo come amanti, “drude”, donne di piacere dei briganti; è negata loro ogni dignità personale. L’iconografia delle brigantesse: le truppe piemontesi si dotano di fotografi ufficiali al seguito, per documentare e mostrare all’opinione pubblica i briganti come trofei di vittoria; ai briganti catturati vien fatta una foto di gruppo prima di fucilarli, ai capibriganti è riservato l’onore di una foto singola; spesso i briganti vengono fotografati da morti, mettendo in opera una messinscena per farli sembrare vivi. Le brigantesse tra storiografia e letteratura: le brigantesse suscitano nell’immaginario collettivo un grande fascino, tanto che molti autori le introducono nei loro testi letterari; ma anche gli storici hanno scritto di brigantesse, per tutti cito Maurizio Restivo e Franca Maria Trapani.
L’importanza del libro di Valentino Romano è data dall’essere il primo in assoluto che cataloga un grandissimo numero di brigantesse, desunto dagli atti processuali dell’epoca.
«Le schede – scrive l’autore – non hanno certamente presunzione di completezza: rappresentano, semmai, una prima, parziale, ricostruzione biografica della maggior parte delle donne che vissero e parteciparono al brigantaggio postunitario. Un punto di partenza che agevoli successivi approfondimenti e uno strumento che aiuti i lettori a meglio comprendere le cause, gli effetti e le dimensioni del fenomeno del ribellismo femminile in età postunitaria».
Nella prima parte sono raccontate 98 (novantotto) storie di brigantesse. Le singole storie vanno da poche righe a molte pagine. Le più famose ovviamente occupano più spazio; fra queste ultime troviamo Maria Teresa e Serafina Ciminelli, Michelina Di Cesare, Lucia Dinella, Maria Giuseppa Gizzi (Peppinella), Maria Oliverio, Filomena Pennacchio, Giuseppina Vitale.
Nella seconda parte del libro abbiamo un elenco delle fiancheggiatrici (un popolo finora senza nome). «Le innumerevoli storie delle donne manutengole sono state ingiustamente considerate marginali – scrive Valentino Romano –. Pare, invece, più giusto considerarle segmenti collaterali della storia maggiore, utili e necessari a meglio inquadrarla e comprenderla». Il catalogo comprende ben 858 (ottocentocinquantotto) nomi, con due o tre righe biografiche per ognuno.
Le storie raccontate non sono certamente edificanti. Ma noi le abbiamo lette con quella laica pietà che ce le ha fatte comprendere e giustificare, sia per i tragici giorni che quelle donne furono costrette a vivere sia per la simpatia che nutriamo verso i perdenti.
Rocco Biondi
Valentino Romano, Brigantesse, Controcorrente edizioni, Napoli 2007, pp. 320, € 20,00
Se vuoi acquistare il libro ordinalo a info@settimanadeibriganti.it
Quasi a sorpresa il libro si apre nel nome di Maria Sofia, la giovane moglie non ancora ventenne di Francesco 2° Re di Napoli, che «si è meritata sul campo i galloni di prima resistente». Resistenza ai piemontesi di Vittorio Emanuele 2° e di Cavour, che invasero il Regno delle Due Sicilie per annetterselo senza alcuna dichiarazione di guerra.
In seguito alla forzata unità d’Italia nel Mezzogiorno esplode la ribellione contadina. Il nuovo governo non ha mantenuto la promessa di dare la terra ai contadini che la lavoravano. Questi ultimi non hanno soldi per acquistarla o riscattarla. Il parlamento dei “galantuomini” fa le leggi a vantaggio dei “galantuomini”. Ai contadini non resta che rassegnarsi o ribellarsi.
La rivolta contadina del Sud viene semplicisticamente bollata come “brigantaggio”. Il Parlamento piemontese, anziché tentare di rimuoverne le cause, sceglie la via della repressione, instaura il terrore nei territori occupati, pratica la fucilazione sul campo.
Al fianco dei molti briganti, alla macchia, vi furono anche delle brigantesse. «Donne che amarono i loro uomini al punto da imbracciare un fucile, cavalcare un cavallo e difenderli sulle montagne fino alla morte. Donne come maschi. Donne spesso più forti dei maschi nella sofferenza, nella sopportazione della fatica, delle privazioni», scrive Raffaele Nigro nella introduzione.
Ma molte di più furono le fiancheggiatrici. Madri, mogli, figlie, sorelle, amanti, simpatizzanti, che favorivano in tutti i modi i briganti. Donne che uscivano di casa la notte, sfidando i rigori della legge, per portare pane e vino ai loro uomini, per portare una notizia, per rassicurarli con l’affetto. Donne che curavano e nascondevano i briganti feriti. Donne che sviavano le ricerche dei militari.
Svariati sono i temi che Valentino Romano affronta nel suo libro. Le brigantesse preunitarie: non esiste una data di nascita del brigantaggio femminile; è azzardato attribuire autonomia al brigantaggio femminile preunitario. Le brigantesse e la maternità: la dura legge della guerriglia e della latitanza non sopprime il bisogno di essere madre. Le brigantesse e le condanne: in media la condanna per le brigantesse catturate si aggira sui quindici anni di carcere; non è una condanna lieve, spessissimo è una condanna a morte; la mancanza di igiene nelle carceri porta a morte prematura. Le brigantesse e l’opinione pubblica: il dramma delle donne del brigantaggio si consuma nell’indifferenza e nel disprezzo; le cronache dei giornali le descrivono solo come amanti, “drude”, donne di piacere dei briganti; è negata loro ogni dignità personale. L’iconografia delle brigantesse: le truppe piemontesi si dotano di fotografi ufficiali al seguito, per documentare e mostrare all’opinione pubblica i briganti come trofei di vittoria; ai briganti catturati vien fatta una foto di gruppo prima di fucilarli, ai capibriganti è riservato l’onore di una foto singola; spesso i briganti vengono fotografati da morti, mettendo in opera una messinscena per farli sembrare vivi. Le brigantesse tra storiografia e letteratura: le brigantesse suscitano nell’immaginario collettivo un grande fascino, tanto che molti autori le introducono nei loro testi letterari; ma anche gli storici hanno scritto di brigantesse, per tutti cito Maurizio Restivo e Franca Maria Trapani.
L’importanza del libro di Valentino Romano è data dall’essere il primo in assoluto che cataloga un grandissimo numero di brigantesse, desunto dagli atti processuali dell’epoca.
«Le schede – scrive l’autore – non hanno certamente presunzione di completezza: rappresentano, semmai, una prima, parziale, ricostruzione biografica della maggior parte delle donne che vissero e parteciparono al brigantaggio postunitario. Un punto di partenza che agevoli successivi approfondimenti e uno strumento che aiuti i lettori a meglio comprendere le cause, gli effetti e le dimensioni del fenomeno del ribellismo femminile in età postunitaria».
Nella prima parte sono raccontate 98 (novantotto) storie di brigantesse. Le singole storie vanno da poche righe a molte pagine. Le più famose ovviamente occupano più spazio; fra queste ultime troviamo Maria Teresa e Serafina Ciminelli, Michelina Di Cesare, Lucia Dinella, Maria Giuseppa Gizzi (Peppinella), Maria Oliverio, Filomena Pennacchio, Giuseppina Vitale.
Nella seconda parte del libro abbiamo un elenco delle fiancheggiatrici (un popolo finora senza nome). «Le innumerevoli storie delle donne manutengole sono state ingiustamente considerate marginali – scrive Valentino Romano –. Pare, invece, più giusto considerarle segmenti collaterali della storia maggiore, utili e necessari a meglio inquadrarla e comprenderla». Il catalogo comprende ben 858 (ottocentocinquantotto) nomi, con due o tre righe biografiche per ognuno.
Le storie raccontate non sono certamente edificanti. Ma noi le abbiamo lette con quella laica pietà che ce le ha fatte comprendere e giustificare, sia per i tragici giorni che quelle donne furono costrette a vivere sia per la simpatia che nutriamo verso i perdenti.
Rocco Biondi
Valentino Romano, Brigantesse, Controcorrente edizioni, Napoli 2007, pp. 320, € 20,00
Se vuoi acquistare il libro ordinalo a info@settimanadeibriganti.it
2 ottobre 2007
2^ Settimana di studi sul brigantaggio meridionale
E’ terminata la grande fatica della “2^ Settimana di studi sul brigantaggio meridionale”, organizzata dall’Associazione “Settimana dei Briganti – l’altra storia”, da me presieduta. Più grande ancora però è la soddisfazione per il grande successo di pubblico e per l’attenzione ottenuta su giornali e televisioni. Villa Castelli, il mio paese, per un’intera settimana, dal 25 settembre al 1° ottobre 2007, è stato il luogo d’incontro di studiosi ed interessati al grande fenomeno che ha coinvolto tutto il sud d’Italia negli anni immediatamente successivi all’Unità d’Italia (1860-1870).
Ho chiuso il convegno ricordando una frase scritta da Piero Bargellini nel suo libro su Fra Diavolo: «Un popolo intero assumeva il titolo di brigante».
Anche quest’anno si sono avvicendati studiosi e scrittori di prestigio. La formula, già sperimentata lo scorso anno, prevedeva ogni sera una relazione centrale, una comunicazione e un “evento” particolare: si è partiti martedì 25 con una relazione di Valentino Romano sul mondo dei briganti attraverso le loro deposizioni e si è continuato con Ettore Catalano che ha relazionato su brigantaggio e letteratura nell’“Eredità della priora” di Carlo Alianello; il 26 Costantino Conte ha tracciato un profilo della figura emblematica del brigante Giuseppe Caruso, cui ha fatto seguito Vito Nigro con la relazione sul governo borbonico in esilio e sul ruolo di Maria Sofia nell’organizzazione del brigantaggio legittimista”; giovedì 27 io mi sono occupato di “brigantaggio e cinematografia” e Michele Prestera, presidente del PAL Lucania, ha raccontato l’esperienza del Cinespettacolo “La storia bandita” di Brindisi di Montagna; venerdì 28 Giuseppe Clemente si è occupato dei biglietti di ricatto delle bande brigantesche e Giuseppe Giordano ha fatto un’originale indagine sulla personalità dei briganti attraverso l’analisi grafologia dei loro scritti; sabato 29 Augusto Conte ha parlato della “legge Pica”, a seguire Arnaldo Travaglini ha presentato “Brigantesse, donne guerrigliere contro la conquista del Sud (1860-1870)”, l’ultimo libro di Valentino Romano; domenica 30 Gaetano Marabello ha tracciato un profilo dissacrante di Giuseppe Garibaldi; ha concluso lunedì 1° ottobre Raffaele Nigro con “Amori, morte e trionfi: il banditismo in versi e in prosa nel ‘900 italiano”, cui ha fatto seguito uno spettacolo applauditissimo del cantastorie Carmine Damiani .
Già mercoledì 26 settembre la compagnia di cantastorie “Cantacunti” aveva eseguiti canti sul brigantaggio.
Giovedì, venerdì e sabato la Compagnia teatrale “Briganti in scena” aveva letto rispettivamente brani da “Il grassiere” di Raffaele Nigro, dal mio “Il Sergente brigante”, dal libro “Brigantesse” di Valentino Romano.
Particolare interesse ha suscitato la sfilata storica di soldati in divisa borbonica e di briganti e brigantesse per le vie del paese.
A conclusione delle manifestazioni brindisi d’arrivederci con degustazioni di vini e cibi locali a cura dell’Associazione Italiana Sommelier – Delegazione di Brindisi.
http://www.settimanadeibriganti.it/
Ho chiuso il convegno ricordando una frase scritta da Piero Bargellini nel suo libro su Fra Diavolo: «Un popolo intero assumeva il titolo di brigante».
Anche quest’anno si sono avvicendati studiosi e scrittori di prestigio. La formula, già sperimentata lo scorso anno, prevedeva ogni sera una relazione centrale, una comunicazione e un “evento” particolare: si è partiti martedì 25 con una relazione di Valentino Romano sul mondo dei briganti attraverso le loro deposizioni e si è continuato con Ettore Catalano che ha relazionato su brigantaggio e letteratura nell’“Eredità della priora” di Carlo Alianello; il 26 Costantino Conte ha tracciato un profilo della figura emblematica del brigante Giuseppe Caruso, cui ha fatto seguito Vito Nigro con la relazione sul governo borbonico in esilio e sul ruolo di Maria Sofia nell’organizzazione del brigantaggio legittimista”; giovedì 27 io mi sono occupato di “brigantaggio e cinematografia” e Michele Prestera, presidente del PAL Lucania, ha raccontato l’esperienza del Cinespettacolo “La storia bandita” di Brindisi di Montagna; venerdì 28 Giuseppe Clemente si è occupato dei biglietti di ricatto delle bande brigantesche e Giuseppe Giordano ha fatto un’originale indagine sulla personalità dei briganti attraverso l’analisi grafologia dei loro scritti; sabato 29 Augusto Conte ha parlato della “legge Pica”, a seguire Arnaldo Travaglini ha presentato “Brigantesse, donne guerrigliere contro la conquista del Sud (1860-1870)”, l’ultimo libro di Valentino Romano; domenica 30 Gaetano Marabello ha tracciato un profilo dissacrante di Giuseppe Garibaldi; ha concluso lunedì 1° ottobre Raffaele Nigro con “Amori, morte e trionfi: il banditismo in versi e in prosa nel ‘900 italiano”, cui ha fatto seguito uno spettacolo applauditissimo del cantastorie Carmine Damiani .
Già mercoledì 26 settembre la compagnia di cantastorie “Cantacunti” aveva eseguiti canti sul brigantaggio.
Giovedì, venerdì e sabato la Compagnia teatrale “Briganti in scena” aveva letto rispettivamente brani da “Il grassiere” di Raffaele Nigro, dal mio “Il Sergente brigante”, dal libro “Brigantesse” di Valentino Romano.
Particolare interesse ha suscitato la sfilata storica di soldati in divisa borbonica e di briganti e brigantesse per le vie del paese.
A conclusione delle manifestazioni brindisi d’arrivederci con degustazioni di vini e cibi locali a cura dell’Associazione Italiana Sommelier – Delegazione di Brindisi.
http://www.settimanadeibriganti.it/
22 agosto 2007
Luce - Romanzo di Rita Pani
Il programma di vita di Luce, la protagonista del romanzo di Rita Pani, potrebbe sintetizzarsi in queste sue due battute: «io non voglio arrivare da nessuna parte, io sto solo andando» e «non mi interessa fare carriera, non voglio sporcarmi, non voglio togliermi il piacere di avere ancora qualcosa in cui credere». Luce ha trentacinque anni, troppi per occupare terreni e rischiare di prendere manganellate, ma troppo pochi per smettere di farlo.
Luce è la presidente di un collettivo ambientalista; con l’aiuto di Simone ed altri ragazzi del collettivo, “estremisti” come lei e poco inclini a chinare il capo o svendersi, cerca di fare luce sull’operato della ditta Ecoplast, che ha donato una grossa somma al Comune per contribuire al rimboschimento di una vasta area industriale che aveva subito molti incendi; ma prima delle piante venivano interrati, di notte, barili blu contenenti «rifiuti tossici nocivi». Altri barili vennero sistemati, sempre di nascosto, sotto l’asfalto di un nuovo parcheggio. Luce si propone l’impossibile missione «di far dissotterrare quei barili al più presto».
Partiti e sindacati sapevano, ma tacevano; «bisogna mediare», dicono loro. E questo per Luce era merda: «prenderò tutta la merda che avranno sparso in giro, gliela lancerò addosso e poi dirò basta a tutto questo. Sono schifata».
Ma nel romanzo non si parla solo di politica, di sociale, di ecologia. Anzi si parla di più di sensazioni, di emozioni, di sentimenti, di passioni, di scopate.
Rita Pani riesce a padroneggiare molto bene il linguaggio, adattandolo egregiamente ai personaggi e alle situazioni. Sentite come si esprime Simone: «Luce, io ti voglio bene, e mi piaci pure, e forse ti scoperei anche se fossi sicuro che tu non mi spezzeresti le gambe a calci, all’istante, cioè, voglio dire, io non ho mai pensato a te come… Insomma non so se mi spiego, tu sei Lucina, il Comandante, la mia droga, la mia eroina, ma negativo, mai potrei… Cazzo! Io ti voglio bene, finiremo i nostri giorni ubriachi a Parigi, scrittori illuminati. Hai capito?».
Luce è molto facile al pianto. E talvolta la sua storia fa inumidire gli occhi anche noi lettori. A me è successo. In alcuni momenti un gruppo mi ha preso alla gola.
Il romanzo è la storia del disincanto di Luce. Ma anche se rinuncerà alla lotta, mai rinuncerà ai suoi ideali. «Mi mancavano i tempi durante i quali credevo davvero che fosse possibile cambiare il mondo, o per lo meno renderlo un po’ più vivibile».
Pino Scaccia, nella postfazione al libro, classifica Luce fra i buoni con la passione, che sono l’ultimo patrimonio per salvare il mondo.
Ed io sono sicuro che prima o poi Luce ritornerà dall’Islanda, dove si è rifugiata, per continuare a combattere fra di noi. Magari facendo solo resistenza infinita con un blog, come fa l’autrice Rita Pani. E non è poco.
Rita Pani, Luce, con una “Nota dell’Editore”, postfazione di Pino Scaccia, Gammarò Editori, Sestri Levante, 2007, pp. 198
Luce è la presidente di un collettivo ambientalista; con l’aiuto di Simone ed altri ragazzi del collettivo, “estremisti” come lei e poco inclini a chinare il capo o svendersi, cerca di fare luce sull’operato della ditta Ecoplast, che ha donato una grossa somma al Comune per contribuire al rimboschimento di una vasta area industriale che aveva subito molti incendi; ma prima delle piante venivano interrati, di notte, barili blu contenenti «rifiuti tossici nocivi». Altri barili vennero sistemati, sempre di nascosto, sotto l’asfalto di un nuovo parcheggio. Luce si propone l’impossibile missione «di far dissotterrare quei barili al più presto».
Partiti e sindacati sapevano, ma tacevano; «bisogna mediare», dicono loro. E questo per Luce era merda: «prenderò tutta la merda che avranno sparso in giro, gliela lancerò addosso e poi dirò basta a tutto questo. Sono schifata».
Ma nel romanzo non si parla solo di politica, di sociale, di ecologia. Anzi si parla di più di sensazioni, di emozioni, di sentimenti, di passioni, di scopate.
Rita Pani riesce a padroneggiare molto bene il linguaggio, adattandolo egregiamente ai personaggi e alle situazioni. Sentite come si esprime Simone: «Luce, io ti voglio bene, e mi piaci pure, e forse ti scoperei anche se fossi sicuro che tu non mi spezzeresti le gambe a calci, all’istante, cioè, voglio dire, io non ho mai pensato a te come… Insomma non so se mi spiego, tu sei Lucina, il Comandante, la mia droga, la mia eroina, ma negativo, mai potrei… Cazzo! Io ti voglio bene, finiremo i nostri giorni ubriachi a Parigi, scrittori illuminati. Hai capito?».
Luce è molto facile al pianto. E talvolta la sua storia fa inumidire gli occhi anche noi lettori. A me è successo. In alcuni momenti un gruppo mi ha preso alla gola.
Il romanzo è la storia del disincanto di Luce. Ma anche se rinuncerà alla lotta, mai rinuncerà ai suoi ideali. «Mi mancavano i tempi durante i quali credevo davvero che fosse possibile cambiare il mondo, o per lo meno renderlo un po’ più vivibile».
Pino Scaccia, nella postfazione al libro, classifica Luce fra i buoni con la passione, che sono l’ultimo patrimonio per salvare il mondo.
Ed io sono sicuro che prima o poi Luce ritornerà dall’Islanda, dove si è rifugiata, per continuare a combattere fra di noi. Magari facendo solo resistenza infinita con un blog, come fa l’autrice Rita Pani. E non è poco.
Rita Pani, Luce, con una “Nota dell’Editore”, postfazione di Pino Scaccia, Gammarò Editori, Sestri Levante, 2007, pp. 198
12 agosto 2007
Storia del Brigantaggio dopo l’Unità di Franco Molfese
Franco Molfese, nelle considerazioni conclusive del suo monumentale e tuttora fondamentale libro sul brigantaggio dopo l’unità d’Italia, si chiede se era possibile evitare l’immane sperpero di vite umane e di ricchezze, provocati dal brigantaggio contadino e dalla repressione statale. Se esisteva nel Sud la possibilità di una diversa soluzione dei rapporti tra classe borghese-liberale e masse contadine. Consapevole comunque che una risposta a tali domande appare sul terreno storiografico sempre azzardata, perché la storia non si scrive con i “se” del senno di poi. Tuttavia, essendo implicito nei fatti storici anche il possibile che non si è realizzato, un ripensamento del genere arricchisce certamente la comprensione dell’accaduto.
La risposta del Molfese è che il grande dramma del brigantaggio avrebbe potuto essere, se non evitato, certamente di molto ridotto nel tempo e nell’intensità da una differente politica dei governi unitari succedutesi nel decennio 1860-1870, guidati da Cavour, Ricasoli, Rattazzi, Farini, Minghetti, La Marmora, Menabrea, Lanza. Evitare completamente il brigantaggio era impossibile, dal momento che esso era stato partorito spontaneamente dalla generale crisi meridionale ad opera di fattori economico-sociali, strutturali e contingenti.
Ma se la politica dei moderati al governo (piemontesi e fuoriusciti napoletani filo-cavouriani) avesse accolto le istanze dei democratici, nelle loro aspirazioni fondamentali: impieghi, sviluppo economico, sicurezza pubblica, il brigantaggio sarebbe stato ridotto e la costruzione dello Stato unitario avrebbe poggiato nel Sud su fondamenta più solide.
Ma così non fu. La Destra moderata, minoritaria nel Sud, fece ricorso alla dittatura militare per reprimere l’offensiva del grande brigantaggio contadino. I salariati-briganti aspiravano al pane, alla libertà, anche alle vendette come forma di rozza giustizia, dibattendosi nelle strette del carovita, della disoccupazione, dei redditi insufficienti. La risposta governativa fu una repressione armata in funzione anti-contadina ed anti-popolare. I contadini del Sud combatterono per anni, contro forze preponderanti, una lotta senza speranza, condannata all’insuccesso. Ma posti di fronte all’alternativa di vivere asserviti in ginocchio o di morire in piedi, scelsero la seconda.
Il libro del Molfese parte dalle prime ondate della guerriglia contadina sviluppatasi dall’autunno del 1860 a tutto l’inverno del 1861, quando agli spontanei movimenti contadini comincia a soprapporsi la reazione borbonico-clericale imprimendo loro un orientamento politico. Il brigantaggio consegue rapidi successi nel Beneventano, nel Molise, in Terra di Lavoro, negli Abruzzi. I moti contadini si intensificarono e si radicalizzarono successivamente in Calabria, Basilicata, Puglia.
Lo scioglimento dell’esercito meridionale garibaldino, con la conseguente frustrazione per le speranze deluse, infoltirono sia di uomini che di rivendicazione le bande brigantesche.
La fine del Regno borbonico delle Due Sicilie, con la resa finale di Gaeta, Messina, Civitella del Tronto e la fuga di Francesco II a Roma presso la corte pontificia, fu un altro elemento che si intersecò con il brigantaggio. I Borboni in qualche modo tentarono di sfruttarlo ai fini di un improbabile tentativo di restaurazione del Regno di Napoli.
Intanto bande armate si andavano costituendo dappertutto, capitanate da valenti e coraggiosi capibanda. Il Molfese, nell’appendice terza del suo libro, pubblica un elenco delle bande brigantesche attive fra il 1861 e il 1870 e ne individua ben 388 (trecentottantaotto), dalle piccole, composte di pochi individui (5-15), fino alle grandi, che raggiunsero e superarono talvolta i 100 uomini, con punte fino a 300-400. Fra le grandi bande, Molfese cita quelle di Giovanni Piccioni, Giacomo Giorgi, Berardo Stramenga nell’Abruzzo Teramano ed Aquilano; di Pasquale Mancini e Salvatore Scenna, Domenico Valerio [Cannone] e Policarpo Romagnoli, Giovanni Di Sciascio, Domenico Saraceni (Pizzolungo) nell’Abruzzo Chietino; di Domenico Coja (Centrillo), Luigi Alonzi (Chiavone), Cedrone, Capoccia, Alessandro Pace, Francesco ed Evangelista Guerra, Domenico Fuoco, Luigi Andreozzi, Tristany nella Terra di Lavoro, Sorano e Stato Pontificio; di Nunzio di Paolo, Giuseppe Schiavone nel Molise, Sannio e Beneventano; di Cipriano e Giona La Gala, Agostino Sacchitiello nell’Irpinia e Salernitano; di Carmine Donatelli (Crocco), Giuseppe Nicola Summa (Ninco-Nanco), Giovanni Fortunato (Coppa), Paolo Serravalle, Pasquale Cavalcante, Donato Tortora, Angelo Antonio Masini, Giuseppe Caruso in Basilicata; Michele Caruso, Angelo Maria Villani (lo Zambro) in Capitanata; Sergente Romano in Terra di Bari e Terra d’Otranto; Mittica in Calabria; Vincenzo Barone in Provincia di Napoli
Sproporzionato appare il numero di quasi 120.000 soldati impegnati dallo stato piemontese nell’opera di repressione, ma questo testimonia come il brigantaggio in quegli anni sia stato un fenomeno di massa, che andava ben al di là dei briganti alla macchia. Questa forza imponente, che rappresentava quasi i due quinti dell’intero esercito italiano, non riusciva, però, a venire a capo della ostinata guerriglia contadina condotta da un numero infinitamente minore ed estremamente fluttuante di armati.
Nel dicembre 1862, dal parlamento torinese, venne istituita la Commissione Parlamentare d’Inchiesta sul Brigantaggio (CPIB), con l’obiettivo di indagare le cause del brigantaggio, studiare l’oggettiva situazione sul campo e proporre i mezzi per sconfiggerlo. Della Commissione facevano parte due parlamentari della sinistra democratica, un indipendente di sinistra, quattro moderati e governativi, due generali dell’esercito (ex garibaldini). Le Relazioni conclusive della Commissione d’inchiesta vennero presentate alla Camera dei deputati nel maggio 1863.
Il 15 agosto 1863 venne promulgata “la legge Pica” che dava ai tribunali militari la competenza a giudicare i briganti e i loro complici e comminava la fucilazione a chi avesse opposto resistenza a mano armata. Ebbe così inizio una legislazione eccezionale che durò fino al 31 dicembre 1865. Quanti furono i cosiddetti briganti fucilati o uccisi? Il numero preciso non lo si saprà mai, ma furono tantissimi. Molfese, dal secondo bimestre del 1861 e tutto il 1865, ne documenta 5.212. Ma vi è chi ha scritto che i guerriglieri caduti in combattimento in quel decennio furono 155.620 e i fucilati o morti in carcere 120.327. Un massacro. L’olocausto del Sud.
La Storia del Brigantaggio del Molfese è un libro che richiede grande fatica nella lettura; ma chi vuol capire cosa veramente è accaduto in Italia nel decennio 1860-1870, non può fare a meno di leggerlo. Sono riportati e sintetizzati i numerosi dibattiti che si tennero in quegli anni nel parlamento italiano sulla questione del brigantaggio, sono spiegate le ragioni per le quali agli spontanei movimenti contadini andarono pian piano a sovrapporsi le ragioni dei borbonici e degli ambienti clericali, sono riportati dettagliatamente i moltissimi episodi della guerriglia contadina che i Briganti combatterono in tutto il Sud.
Il libro fu pubblicato dalla Feltrinelli nel 1964. Raffaele Nigro, nel suo recente libro Giustiziateli sul campo, scrive che quello del Molfese è un saggio destinato a far luce su alcuni aspetti mai chiariti del Risorgimento italiano, e aggiunge: «Un progetto di rivisitazione della storia d’Italia operata da Giangiacomo Feltrinelli e tendente a dimostrare come l’unità fosse nata a scapito dei contadini meridionali».
Noi abbiamo letto la ristampa a cura delle edizioni Nuovo Pensiero Meridiano del 1983, stampata a Madrid.
Franco Molfese, Storia del Brigantaggio dopo l’Unità, Nuovo Pensiero Meridiano, Madrid 1983, pp. 484
La risposta del Molfese è che il grande dramma del brigantaggio avrebbe potuto essere, se non evitato, certamente di molto ridotto nel tempo e nell’intensità da una differente politica dei governi unitari succedutesi nel decennio 1860-1870, guidati da Cavour, Ricasoli, Rattazzi, Farini, Minghetti, La Marmora, Menabrea, Lanza. Evitare completamente il brigantaggio era impossibile, dal momento che esso era stato partorito spontaneamente dalla generale crisi meridionale ad opera di fattori economico-sociali, strutturali e contingenti.
Ma se la politica dei moderati al governo (piemontesi e fuoriusciti napoletani filo-cavouriani) avesse accolto le istanze dei democratici, nelle loro aspirazioni fondamentali: impieghi, sviluppo economico, sicurezza pubblica, il brigantaggio sarebbe stato ridotto e la costruzione dello Stato unitario avrebbe poggiato nel Sud su fondamenta più solide.
Ma così non fu. La Destra moderata, minoritaria nel Sud, fece ricorso alla dittatura militare per reprimere l’offensiva del grande brigantaggio contadino. I salariati-briganti aspiravano al pane, alla libertà, anche alle vendette come forma di rozza giustizia, dibattendosi nelle strette del carovita, della disoccupazione, dei redditi insufficienti. La risposta governativa fu una repressione armata in funzione anti-contadina ed anti-popolare. I contadini del Sud combatterono per anni, contro forze preponderanti, una lotta senza speranza, condannata all’insuccesso. Ma posti di fronte all’alternativa di vivere asserviti in ginocchio o di morire in piedi, scelsero la seconda.
Il libro del Molfese parte dalle prime ondate della guerriglia contadina sviluppatasi dall’autunno del 1860 a tutto l’inverno del 1861, quando agli spontanei movimenti contadini comincia a soprapporsi la reazione borbonico-clericale imprimendo loro un orientamento politico. Il brigantaggio consegue rapidi successi nel Beneventano, nel Molise, in Terra di Lavoro, negli Abruzzi. I moti contadini si intensificarono e si radicalizzarono successivamente in Calabria, Basilicata, Puglia.
Lo scioglimento dell’esercito meridionale garibaldino, con la conseguente frustrazione per le speranze deluse, infoltirono sia di uomini che di rivendicazione le bande brigantesche.
La fine del Regno borbonico delle Due Sicilie, con la resa finale di Gaeta, Messina, Civitella del Tronto e la fuga di Francesco II a Roma presso la corte pontificia, fu un altro elemento che si intersecò con il brigantaggio. I Borboni in qualche modo tentarono di sfruttarlo ai fini di un improbabile tentativo di restaurazione del Regno di Napoli.
Intanto bande armate si andavano costituendo dappertutto, capitanate da valenti e coraggiosi capibanda. Il Molfese, nell’appendice terza del suo libro, pubblica un elenco delle bande brigantesche attive fra il 1861 e il 1870 e ne individua ben 388 (trecentottantaotto), dalle piccole, composte di pochi individui (5-15), fino alle grandi, che raggiunsero e superarono talvolta i 100 uomini, con punte fino a 300-400. Fra le grandi bande, Molfese cita quelle di Giovanni Piccioni, Giacomo Giorgi, Berardo Stramenga nell’Abruzzo Teramano ed Aquilano; di Pasquale Mancini e Salvatore Scenna, Domenico Valerio [Cannone] e Policarpo Romagnoli, Giovanni Di Sciascio, Domenico Saraceni (Pizzolungo) nell’Abruzzo Chietino; di Domenico Coja (Centrillo), Luigi Alonzi (Chiavone), Cedrone, Capoccia, Alessandro Pace, Francesco ed Evangelista Guerra, Domenico Fuoco, Luigi Andreozzi, Tristany nella Terra di Lavoro, Sorano e Stato Pontificio; di Nunzio di Paolo, Giuseppe Schiavone nel Molise, Sannio e Beneventano; di Cipriano e Giona La Gala, Agostino Sacchitiello nell’Irpinia e Salernitano; di Carmine Donatelli (Crocco), Giuseppe Nicola Summa (Ninco-Nanco), Giovanni Fortunato (Coppa), Paolo Serravalle, Pasquale Cavalcante, Donato Tortora, Angelo Antonio Masini, Giuseppe Caruso in Basilicata; Michele Caruso, Angelo Maria Villani (lo Zambro) in Capitanata; Sergente Romano in Terra di Bari e Terra d’Otranto; Mittica in Calabria; Vincenzo Barone in Provincia di Napoli
Sproporzionato appare il numero di quasi 120.000 soldati impegnati dallo stato piemontese nell’opera di repressione, ma questo testimonia come il brigantaggio in quegli anni sia stato un fenomeno di massa, che andava ben al di là dei briganti alla macchia. Questa forza imponente, che rappresentava quasi i due quinti dell’intero esercito italiano, non riusciva, però, a venire a capo della ostinata guerriglia contadina condotta da un numero infinitamente minore ed estremamente fluttuante di armati.
Nel dicembre 1862, dal parlamento torinese, venne istituita la Commissione Parlamentare d’Inchiesta sul Brigantaggio (CPIB), con l’obiettivo di indagare le cause del brigantaggio, studiare l’oggettiva situazione sul campo e proporre i mezzi per sconfiggerlo. Della Commissione facevano parte due parlamentari della sinistra democratica, un indipendente di sinistra, quattro moderati e governativi, due generali dell’esercito (ex garibaldini). Le Relazioni conclusive della Commissione d’inchiesta vennero presentate alla Camera dei deputati nel maggio 1863.
Il 15 agosto 1863 venne promulgata “la legge Pica” che dava ai tribunali militari la competenza a giudicare i briganti e i loro complici e comminava la fucilazione a chi avesse opposto resistenza a mano armata. Ebbe così inizio una legislazione eccezionale che durò fino al 31 dicembre 1865. Quanti furono i cosiddetti briganti fucilati o uccisi? Il numero preciso non lo si saprà mai, ma furono tantissimi. Molfese, dal secondo bimestre del 1861 e tutto il 1865, ne documenta 5.212. Ma vi è chi ha scritto che i guerriglieri caduti in combattimento in quel decennio furono 155.620 e i fucilati o morti in carcere 120.327. Un massacro. L’olocausto del Sud.
La Storia del Brigantaggio del Molfese è un libro che richiede grande fatica nella lettura; ma chi vuol capire cosa veramente è accaduto in Italia nel decennio 1860-1870, non può fare a meno di leggerlo. Sono riportati e sintetizzati i numerosi dibattiti che si tennero in quegli anni nel parlamento italiano sulla questione del brigantaggio, sono spiegate le ragioni per le quali agli spontanei movimenti contadini andarono pian piano a sovrapporsi le ragioni dei borbonici e degli ambienti clericali, sono riportati dettagliatamente i moltissimi episodi della guerriglia contadina che i Briganti combatterono in tutto il Sud.
Il libro fu pubblicato dalla Feltrinelli nel 1964. Raffaele Nigro, nel suo recente libro Giustiziateli sul campo, scrive che quello del Molfese è un saggio destinato a far luce su alcuni aspetti mai chiariti del Risorgimento italiano, e aggiunge: «Un progetto di rivisitazione della storia d’Italia operata da Giangiacomo Feltrinelli e tendente a dimostrare come l’unità fosse nata a scapito dei contadini meridionali».
Noi abbiamo letto la ristampa a cura delle edizioni Nuovo Pensiero Meridiano del 1983, stampata a Madrid.
Franco Molfese, Storia del Brigantaggio dopo l’Unità, Nuovo Pensiero Meridiano, Madrid 1983, pp. 484
5 agosto 2007
Le pere di Mele - Parlamentari a puttane
Che l’onorevole (?) Mele vada a puttane o si spari delle pere o sniffi a me non frega proprio niente. Quello che mi indigna invece è che individui come lui, o amici del suo partito, ci vengano a fare il predicozzo morale sul valore sacro della famiglia, sulla droga che uccide e che bisogna sfuggire come lebbra, sul rispetto della donne come persone (e le puttane non sono persone?). Quello che mi indigna è che persone come lui magari raccolgano firme per abolire le legge sul divorzio e sull’aborto. L’avete notato che i massimi capi dei partiti di destra, che a parole difendono la famiglia, sono tutti divorziati? Sono tutti, non solo i capi, sepolcri imbiancati di fuori ma pieni di vermi schifosi dentro, di evangelica memoria.
E che dire della cazzata che ha sparato Cesa, capo del partito di Mele, quando ha proposto che ai parlamentari bisognerebbe dare una indennità speciale per portarsi le mogli a Roma? Ovviamente bisognerebbe portarsi a Roma anche figli, padri, madri, suoceri e suocere, a carico. E chi ci garantisce che i deputati poi non userebbero quei soldi per andare a puttane? Io invece proporrei, eccetto che per i deputati, una indennità speciale per tutti quelli che la moglie non ce l’hanno o hanno una moglie che non gliela dà più; parte del “tesoretto” potrebbe essere usato per venire incontro agli scapoli di diritto o di fatto per aiutarli a superare lo stress da mancanza; anche una puttana potrebbe aiutare. Senza contare che anche queste lavoratrici ne trarrebbero vantaggio.
E che dire ancora dei test antidroga per gli onorevoli? L’altro giorno, in piazza Montecitorio, solo 120 parlamentari hanno fatto il test. Cosa significa: che gli altri 825, tra deputati e senatori, sono tutti drogati? Ma è stata una emerita buffonata. E chi è così fesso, che dopo essersi fatto va a sottoporsi ad un test volontario? Bisognerebbe fare i test a sorpresa, come per i ciclisti ed i calciatori. Vi immaginate voi, dopo una di quelle invereconde sceneggiate che vengono fatte in parlamento, che un medico si avvicini ad un onorevole o onorevolessa e chieda: mi scusi, mi faccia un po’ di pipì. Allora sì che sarebbe una cosa seria. O no.
Il parlamento è quasi tutto pieno di imbroglioni disonesti. Quelli dell’Unione dei Democratici Cristiani (UDC) sapevano molto bene, quando hanno piazzato Mele nella lista in modo utile per essere eletto, che quest’ultimo solamente qualche giorno prima era uscito dalla galera per aver riscosso tangenti in appalti pubblici e per assunzioni e che quelle tangenti se le andava a giocare al casinò. Non dovrebbe dimettersi da parlamentare solo Mele, ma tutto l’UDC dovrebbe essere cacciato dal Parlamento. Per passare poi agli altri partiti. Si correrebbe il rischio che il Parlamento rimarrebbe svuotato. Da adibire solo alle visite guidate.
E che dire della cazzata che ha sparato Cesa, capo del partito di Mele, quando ha proposto che ai parlamentari bisognerebbe dare una indennità speciale per portarsi le mogli a Roma? Ovviamente bisognerebbe portarsi a Roma anche figli, padri, madri, suoceri e suocere, a carico. E chi ci garantisce che i deputati poi non userebbero quei soldi per andare a puttane? Io invece proporrei, eccetto che per i deputati, una indennità speciale per tutti quelli che la moglie non ce l’hanno o hanno una moglie che non gliela dà più; parte del “tesoretto” potrebbe essere usato per venire incontro agli scapoli di diritto o di fatto per aiutarli a superare lo stress da mancanza; anche una puttana potrebbe aiutare. Senza contare che anche queste lavoratrici ne trarrebbero vantaggio.
E che dire ancora dei test antidroga per gli onorevoli? L’altro giorno, in piazza Montecitorio, solo 120 parlamentari hanno fatto il test. Cosa significa: che gli altri 825, tra deputati e senatori, sono tutti drogati? Ma è stata una emerita buffonata. E chi è così fesso, che dopo essersi fatto va a sottoporsi ad un test volontario? Bisognerebbe fare i test a sorpresa, come per i ciclisti ed i calciatori. Vi immaginate voi, dopo una di quelle invereconde sceneggiate che vengono fatte in parlamento, che un medico si avvicini ad un onorevole o onorevolessa e chieda: mi scusi, mi faccia un po’ di pipì. Allora sì che sarebbe una cosa seria. O no.
Il parlamento è quasi tutto pieno di imbroglioni disonesti. Quelli dell’Unione dei Democratici Cristiani (UDC) sapevano molto bene, quando hanno piazzato Mele nella lista in modo utile per essere eletto, che quest’ultimo solamente qualche giorno prima era uscito dalla galera per aver riscosso tangenti in appalti pubblici e per assunzioni e che quelle tangenti se le andava a giocare al casinò. Non dovrebbe dimettersi da parlamentare solo Mele, ma tutto l’UDC dovrebbe essere cacciato dal Parlamento. Per passare poi agli altri partiti. Si correrebbe il rischio che il Parlamento rimarrebbe svuotato. Da adibire solo alle visite guidate.
2 agosto 2007
Ingmar Bergman
Ingmar Bergman è, per me, uno dei più grandi, se non il più grande, fra i registi di tutti i tempi. Mi sono formato sui suoi film. Fino alla fine dei miei anni universitari a Roma, quando poteva e me ne se presentava l’occasione, vedevo e rivedevo i suoi film. Il mio interesse per il cinema è maturato con lui. Lo sentivo vicino a me e mia guida nella confusa ricerca della verità e del senso della vita. Proveniente, come lui, da un ambiente in cui il sacro ed il divino mi erano stati imposti come verità obbligatorie, cercavo di svincolarmi per approdare in un mondo solamente umano, non meno problematico di quello divino. Il settimo sigillo (1956) è stato per me come una bibbia cinematografica su cui meditare. Il dio per il quale combattevamo nelle nostre crociate muore dentro di noi di fronte alla brutalità e violenza del mondo. Il cavaliere gioca a scacchi con la morte, nella illusoria speranza di indovinare una mossa che la sconfigga. Solo l’incontro con una spensierata famiglia di saltimbanchi gli farà ritrovare una qualche serenità.
Per Bergman dio è morto, e noi dobbiamo rassegnarci a sopravvivere senza di lui.
Il cinema di Bergman non è commerciale, non ha mai riempiti i botteghini, ma ha formato generazioni di cineasti e di liberi ricercatori della verità. Se Bergman ha girato tanti film significa che comunque aveva un mercato.
Ora che Bergman all’età di 89 anni se ne è andato, ci ha però lasciati tanti film su cui riflettere e godere spiritualmente. Io andrò alla ricerca di tutti i suoi film ancora rintracciabili, per rivedermeli. Sorrisi di una notte d’estate (1955), Il posto delle fragole (1957), Il volto (1958), La fontana della vergine (1960), Come in uno specchio (1960), Luci d’inverno (1963), Il silenzio (1963), Persona (1966), Passione (1969), Sussurri e grida (1973), Fanny e Alexander (1982), sono pietre miliari della storia dell’arte cinematografica.
Ingmar Bergman - Wikipedia
Per Bergman dio è morto, e noi dobbiamo rassegnarci a sopravvivere senza di lui.
Il cinema di Bergman non è commerciale, non ha mai riempiti i botteghini, ma ha formato generazioni di cineasti e di liberi ricercatori della verità. Se Bergman ha girato tanti film significa che comunque aveva un mercato.
Ora che Bergman all’età di 89 anni se ne è andato, ci ha però lasciati tanti film su cui riflettere e godere spiritualmente. Io andrò alla ricerca di tutti i suoi film ancora rintracciabili, per rivedermeli. Sorrisi di una notte d’estate (1955), Il posto delle fragole (1957), Il volto (1958), La fontana della vergine (1960), Come in uno specchio (1960), Luci d’inverno (1963), Il silenzio (1963), Persona (1966), Passione (1969), Sussurri e grida (1973), Fanny e Alexander (1982), sono pietre miliari della storia dell’arte cinematografica.
Ingmar Bergman - Wikipedia
28 luglio 2007
L’uomo del Sud - Fumetto di Alarico Gattia - I briganti
Anche il fumetto si è interessato del fenomeno del grande brigantaggio socio-politico, che ha coinvolto l’intero sud d’Italia negli anni immediatamente successivi all’unità imposta dai Savoia piemontesi; in pratica gli anni che vanno dal 1860 al 1870.
In quegli anni, al brigantaggio che dilagava nel Mezzogiorno, la popolazione intera fornisce uomini e viveri. Nei fatti il brigantaggio è una vera e propria guerra civile dei poveri contro i ricchi, fra i proprietari (galantuomini) e i proletari (cafoni). Le bande dei briganti sono composte, oltre che da contadini e braccianti, anche da soldati ex borbonici sbandati, ex garibaldini delusi, renitenti alla leva obbligatoria introdotta dalle leggi unitarie.
Il re Borbone Francesco II, che era stato cacciato dal trono del Regno delle due Sicilie, diviene automaticamente alleato dei contadini, finanzia la formazione dei comitati borbonici, assolda in qualche modo i briganti, promette la terra ai contadini. Ed allo stesso tempo tenta di organizzare la restaurazione borbonica nel sud d’Italia. L’ultimo serio tentativo di dare un indirizzo filoborbonico agli spontanei moti contadini viene fatto, alla fine del 1861, con l’ingaggio del generale spagnolo don José Borjes. Il fumetto di Alarico Gattia racconta ed illustra appunto questa avventura.
Borjes, al calare della notte del 13 settembre 1861, con appena una ventina di uomini, sbarca in Calabria. Dopo un percorso avventuroso e pericoloso, il 22 ottobre, nei pressi di Lagopesole in Lucania, si incontra con il capo della rivolta contadina: Carmine Crocco Donatelli. Tra i due non vi sarà mai simpatia. Rappresentano due mondi opposti e due modi diversi di vedere la situazione del sud. Borjes vorrebbe condurre una campagna in favore del legittimismo borbonico con onestà e coerenza militare. Crocco invece combatte una lotta di classe, lotta dei contadini contro tutti i proprietari terrieri, per una ridistribuzione delle ricchezze; consente il saccheggio come mezzo per approvvigionare i suoi uomini e loro famiglie. Crocco abbandona al suo destino Borjes, che l’8 dicembre viene catturato e fucilato dai bersaglieri piemontesi.
In questo contesto storico, nel fumetto, si inserisce la verosimile figura di Don Nicola Solinas, ricco possidente di idee liberali, che nutre una certa simpatia per Crocco e Borjes; ma che nei fatti, per salvare la sua pelle e l’onore di suo padre (che commerciava armi con i Borboni), porterà i soldati piemontesi sulle tracce di Borjes fino all’epilogo finale. Il fumetto si chiude con questo commento: «L’eco degli spari accompagnerà per sempre il giovane cavaliere [Don Nicola] che lentamente sta tornando alla sua terra tanto travagliata. Le sue speranze e le sue illusioni sono ormai le stesse dei diseredati e degli oppressi, della sua gente…». Ma questo, forse, è solo il desiderio dell’autore del fumetto. La storia ci dirà altro sul comportamento dei nobili e dei borghesi. Il loro mondo è altro rispetto a quello dei poveri. «Ci rivedremo a dicembre, a Napoli, per l’apertura della stagione al San Carlo», così Don Nicola saluta la nobile signorina Chiara Cantore che aveva salvata dai briganti. Idee più chiare aveva invece il suo colono Pizzicchio: «Ma cosa sanno di noi poveri cafoni i piemontesi che ora ci troviamo in casa? Ci guardano come fossimo selvaggi…». L’esercito piemontese non conosce la pietà… Chiunque venga trovato in possesso di un’arma è fucilato sul posto.
Lisa Baruffi nell’introduzione a L’uomo del Sud, intitolata Briganti e contadini, scrive che è impossibile stabilire il numero esatto dei morti, degli arrestati, dei deportati. Un giornale del 1863 calcola 18.000 fucilati e 14.000 incarcerati in un solo anno.
La spietata repressione del brigantaggio, da parte dei piemontesi, riuscirà infine a spezzare il legame che univa la popolazione e le bande armate. Conclude la Baruffi: «Verso la metà degli anni sessanta del secolo scorso, con la morte o l’arresto degli ultimi capibanda, il contadino meridionale non troverà altra soluzione alla sua miseria se non nella emigrazione».
Il fumetto di Alarico Gattia è un cartonato di grande formato (24x32 cm), di 56 pagine, pubblicato nel 1978 nella collana “Un uomo un’avventura” delle edizioni CEPIM di Milano, che avevano come direttore Sergio Bonelli. I disegni delle vignette sono accattivanti e riproducono spesso fotogarafie originali d'epoca (briganti in posa, ritratti di personaggi storici).
A suo modo questo fumetto contribuisce alla meritoria, e per noi necessaria, impresa di riscrivere la storia di quei tragici anni anche dalla parte dei vinti.
Allego tre link sul fumetto
http://www.ubcfumetti.com/uoa/15.htm
http://www.blogga.name/blog/yellow_baby/nostalgia/2005/11/21/luomo_del_sud
http://digilander.libero.it/trombealvento/altriillustrat/gattia.htm
Alarico Gattia, L'uomo del Sud, Edizioni CEPIM, Milano 1978, Collana "Un uomo un'avventura", n. 15, pp. 56
In quegli anni, al brigantaggio che dilagava nel Mezzogiorno, la popolazione intera fornisce uomini e viveri. Nei fatti il brigantaggio è una vera e propria guerra civile dei poveri contro i ricchi, fra i proprietari (galantuomini) e i proletari (cafoni). Le bande dei briganti sono composte, oltre che da contadini e braccianti, anche da soldati ex borbonici sbandati, ex garibaldini delusi, renitenti alla leva obbligatoria introdotta dalle leggi unitarie.
Il re Borbone Francesco II, che era stato cacciato dal trono del Regno delle due Sicilie, diviene automaticamente alleato dei contadini, finanzia la formazione dei comitati borbonici, assolda in qualche modo i briganti, promette la terra ai contadini. Ed allo stesso tempo tenta di organizzare la restaurazione borbonica nel sud d’Italia. L’ultimo serio tentativo di dare un indirizzo filoborbonico agli spontanei moti contadini viene fatto, alla fine del 1861, con l’ingaggio del generale spagnolo don José Borjes. Il fumetto di Alarico Gattia racconta ed illustra appunto questa avventura.
Borjes, al calare della notte del 13 settembre 1861, con appena una ventina di uomini, sbarca in Calabria. Dopo un percorso avventuroso e pericoloso, il 22 ottobre, nei pressi di Lagopesole in Lucania, si incontra con il capo della rivolta contadina: Carmine Crocco Donatelli. Tra i due non vi sarà mai simpatia. Rappresentano due mondi opposti e due modi diversi di vedere la situazione del sud. Borjes vorrebbe condurre una campagna in favore del legittimismo borbonico con onestà e coerenza militare. Crocco invece combatte una lotta di classe, lotta dei contadini contro tutti i proprietari terrieri, per una ridistribuzione delle ricchezze; consente il saccheggio come mezzo per approvvigionare i suoi uomini e loro famiglie. Crocco abbandona al suo destino Borjes, che l’8 dicembre viene catturato e fucilato dai bersaglieri piemontesi.
In questo contesto storico, nel fumetto, si inserisce la verosimile figura di Don Nicola Solinas, ricco possidente di idee liberali, che nutre una certa simpatia per Crocco e Borjes; ma che nei fatti, per salvare la sua pelle e l’onore di suo padre (che commerciava armi con i Borboni), porterà i soldati piemontesi sulle tracce di Borjes fino all’epilogo finale. Il fumetto si chiude con questo commento: «L’eco degli spari accompagnerà per sempre il giovane cavaliere [Don Nicola] che lentamente sta tornando alla sua terra tanto travagliata. Le sue speranze e le sue illusioni sono ormai le stesse dei diseredati e degli oppressi, della sua gente…». Ma questo, forse, è solo il desiderio dell’autore del fumetto. La storia ci dirà altro sul comportamento dei nobili e dei borghesi. Il loro mondo è altro rispetto a quello dei poveri. «Ci rivedremo a dicembre, a Napoli, per l’apertura della stagione al San Carlo», così Don Nicola saluta la nobile signorina Chiara Cantore che aveva salvata dai briganti. Idee più chiare aveva invece il suo colono Pizzicchio: «Ma cosa sanno di noi poveri cafoni i piemontesi che ora ci troviamo in casa? Ci guardano come fossimo selvaggi…». L’esercito piemontese non conosce la pietà… Chiunque venga trovato in possesso di un’arma è fucilato sul posto.
Lisa Baruffi nell’introduzione a L’uomo del Sud, intitolata Briganti e contadini, scrive che è impossibile stabilire il numero esatto dei morti, degli arrestati, dei deportati. Un giornale del 1863 calcola 18.000 fucilati e 14.000 incarcerati in un solo anno.
La spietata repressione del brigantaggio, da parte dei piemontesi, riuscirà infine a spezzare il legame che univa la popolazione e le bande armate. Conclude la Baruffi: «Verso la metà degli anni sessanta del secolo scorso, con la morte o l’arresto degli ultimi capibanda, il contadino meridionale non troverà altra soluzione alla sua miseria se non nella emigrazione».
Il fumetto di Alarico Gattia è un cartonato di grande formato (24x32 cm), di 56 pagine, pubblicato nel 1978 nella collana “Un uomo un’avventura” delle edizioni CEPIM di Milano, che avevano come direttore Sergio Bonelli. I disegni delle vignette sono accattivanti e riproducono spesso fotogarafie originali d'epoca (briganti in posa, ritratti di personaggi storici).
A suo modo questo fumetto contribuisce alla meritoria, e per noi necessaria, impresa di riscrivere la storia di quei tragici anni anche dalla parte dei vinti.
Allego tre link sul fumetto
http://www.ubcfumetti.com/uoa/15.htm
http://www.blogga.name/blog/yellow_baby/nostalgia/2005/11/21/luomo_del_sud
http://digilander.libero.it/trombealvento/altriillustrat/gattia.htm
Alarico Gattia, L'uomo del Sud, Edizioni CEPIM, Milano 1978, Collana "Un uomo un'avventura", n. 15, pp. 56
22 luglio 2007
Festival del Libro - Cassano delle Murge (Bari)
Idea originale ed impegnativa quella di organizzare un festival del libro. Non una rassegna di canzonette o film, ma di libri. E’ risaputo e documentato lo scarso interesse che gli italiani hanno per la lettura. Ed allora un festival del libro va controcorrente. E’ grandemente meritorio tentare di portare in piazza la gente ad ascoltare la lettura di poesie o la presentazione di un libro. La scommessa è grande, ma pare che a Cassano delle Murge, in terra di Bari, stanno cominciando a vincerla. Sono già alla seconda edizione del Festival.
Ieri sera, sabato 21 luglio 2007, ho accompagnato l’amico Valentino Romano, affermato storico del brigantaggio meridionale, che presentava il suo ultimo libro: “Le brigantesse” - edito dalle Edizioni Controcorrente, libro che tra l’altro non è ancora uscito nelle librerie. La piazzetta antistante la biblioteca comunale si è affollata di gente che ha seguito con interesse e partecipazione. Numerosi sono stati gli interventi nel dialogo finale con l’autore.
Il brigantaggio è il tema principale del Festival di quest’anno. Oltre alla presentazione del libro del Romano, in programma vi è anche quella del libro di Raffaele Nigro: “Giustiziateli sul campo” - edito dalla Rizzoli, una degustazione di piatti tipici del periodo del brigantaggio, la narrazione delle imprese del bandito cassanese Servodio. Durante il periodo del Festival, inoltre, sono esposti presso la biblioteca comunale circa duecento libri e giornali appartenenti alla biblioteca personale dello scrittore Raffaele Nigro sul tema del brigantaggio.
A Cassano saranno ancora presenti, per presentare le loro opere, gli scrittori Ferdinando Boero, Gian Antonio Stella, Lorenzo Del Boca, Gianrico Carofiglio, Marco Brando, Giordano Bruno Guerri, Roberto Lorusso.
Il Festival del Libro è iniziato il 13 luglio e terminerà il 30 dello stesso mese. Creatore ed animatore dell’importante evento è Silvio Missoni, assessore alla Cultura del Comune di Cassano. Il Festival è stato organizzato dal Comune, in grande economia, con qualche contributo esterno. Esempio di soldi ben spesi.
Ieri sera, sabato 21 luglio 2007, ho accompagnato l’amico Valentino Romano, affermato storico del brigantaggio meridionale, che presentava il suo ultimo libro: “Le brigantesse” - edito dalle Edizioni Controcorrente, libro che tra l’altro non è ancora uscito nelle librerie. La piazzetta antistante la biblioteca comunale si è affollata di gente che ha seguito con interesse e partecipazione. Numerosi sono stati gli interventi nel dialogo finale con l’autore.
Il brigantaggio è il tema principale del Festival di quest’anno. Oltre alla presentazione del libro del Romano, in programma vi è anche quella del libro di Raffaele Nigro: “Giustiziateli sul campo” - edito dalla Rizzoli, una degustazione di piatti tipici del periodo del brigantaggio, la narrazione delle imprese del bandito cassanese Servodio. Durante il periodo del Festival, inoltre, sono esposti presso la biblioteca comunale circa duecento libri e giornali appartenenti alla biblioteca personale dello scrittore Raffaele Nigro sul tema del brigantaggio.
A Cassano saranno ancora presenti, per presentare le loro opere, gli scrittori Ferdinando Boero, Gian Antonio Stella, Lorenzo Del Boca, Gianrico Carofiglio, Marco Brando, Giordano Bruno Guerri, Roberto Lorusso.
Il Festival del Libro è iniziato il 13 luglio e terminerà il 30 dello stesso mese. Creatore ed animatore dell’importante evento è Silvio Missoni, assessore alla Cultura del Comune di Cassano. Il Festival è stato organizzato dal Comune, in grande economia, con qualche contributo esterno. Esempio di soldi ben spesi.
20 luglio 2007
Il prete brigante - una storia del Sud
Nell’ambito delle manifestazioni “Grottaglie d’estate 2007”, è stato rappresentato mercoledì 18 luglio lo spettacolo teatrale “Il prete brigante - una storia del Sud” di Mimmo Fornaro, con la regia di Alfredo Traversa, a cura della Compagnia “Cesare Giulio Viola” di Taranto.
Scenario naturale era il giardino Mediterraneo del Castello Episcopio, con le sue piante di ficodindia, uva a pergola, fichi, edera, e con fondale un antico muro di pietra e tufo.
La storia è tratta da un poemetto in dialetto del contadino cantastorie Leonardo Arcadio, vissuto a Grottaglie all’epoca dei fatti narrati. L’inquadramento storico è fornito dalla biografia del prete brigante (Don Ciro Annicchiarico 1775-1818) scritta da Rosario Quaranta.
La notte del 16 luglio 1803 viene ucciso don Giuseppe Motolese, contendente dell’Annicchiarico dei favori della bella Antonia Zaccaria (la Curciòla). Viene accusato del delitto Don Ciro, che viene arrestato e condannato a 15 anni di galera. Don Ciro, che si proclamò sempre innocente di questo delitto, si dette alla macchia e divenne capo di una banda di briganti. Tradito dai suoi venne arrestato presso la masseria Scasserba e fucilato a Francavilla Fontana l’8 febbraio 1818.
Un cantastorie porta in giro sul suo carro un gruppo di attori-burattini, con i quali racconta la storia del prete brigante, Papa Ggiru. Il racconto tenta di mettere insieme, in un unicum artistico, recitazione, musiche in diretta, costumi, coreografia. Non sempre il risultato è buono, però. Vi è qualche caduta di stile. Qualche parte deve essere limata e migliorata.
Vengono portate in scena le differenze di classe, sempre esistite, tra ricchi e poveri. E i tentativi di questi ultimi di reagire e ribellarsi, senza alcuna speranza di riuscita però. La storia non viene scritta per i poveri.
Il brigantaggio assumerà una sua più precisa connotazione sociale e politica a cavallo degli anni che portarono all’unità d’Italia: 1860/1870, quando il fenomeno da sporadico ed individuale diventerà corale e di massa. Ma nemmeno allora i poveri riuscirono a riscattarsi dalla loro condizione di sottomissione e sfruttamento.
Attori, molto apprezzati ed applauditi: Daniela Figliola, Mimmo Fornaio, Claudio Genga, Mariangela Lincesso, Marina Lupo, Franco Nacca, Maria Pugliese, Tiziana Risolo, Vincenzo Raimondi; percussioni e musiche originali: Mimmo Gori.
Il prete brigante (video)
Scenario naturale era il giardino Mediterraneo del Castello Episcopio, con le sue piante di ficodindia, uva a pergola, fichi, edera, e con fondale un antico muro di pietra e tufo.
La storia è tratta da un poemetto in dialetto del contadino cantastorie Leonardo Arcadio, vissuto a Grottaglie all’epoca dei fatti narrati. L’inquadramento storico è fornito dalla biografia del prete brigante (Don Ciro Annicchiarico 1775-1818) scritta da Rosario Quaranta.
La notte del 16 luglio 1803 viene ucciso don Giuseppe Motolese, contendente dell’Annicchiarico dei favori della bella Antonia Zaccaria (la Curciòla). Viene accusato del delitto Don Ciro, che viene arrestato e condannato a 15 anni di galera. Don Ciro, che si proclamò sempre innocente di questo delitto, si dette alla macchia e divenne capo di una banda di briganti. Tradito dai suoi venne arrestato presso la masseria Scasserba e fucilato a Francavilla Fontana l’8 febbraio 1818.
Un cantastorie porta in giro sul suo carro un gruppo di attori-burattini, con i quali racconta la storia del prete brigante, Papa Ggiru. Il racconto tenta di mettere insieme, in un unicum artistico, recitazione, musiche in diretta, costumi, coreografia. Non sempre il risultato è buono, però. Vi è qualche caduta di stile. Qualche parte deve essere limata e migliorata.
Vengono portate in scena le differenze di classe, sempre esistite, tra ricchi e poveri. E i tentativi di questi ultimi di reagire e ribellarsi, senza alcuna speranza di riuscita però. La storia non viene scritta per i poveri.
Il brigantaggio assumerà una sua più precisa connotazione sociale e politica a cavallo degli anni che portarono all’unità d’Italia: 1860/1870, quando il fenomeno da sporadico ed individuale diventerà corale e di massa. Ma nemmeno allora i poveri riuscirono a riscattarsi dalla loro condizione di sottomissione e sfruttamento.
Attori, molto apprezzati ed applauditi: Daniela Figliola, Mimmo Fornaio, Claudio Genga, Mariangela Lincesso, Marina Lupo, Franco Nacca, Maria Pugliese, Tiziana Risolo, Vincenzo Raimondi; percussioni e musiche originali: Mimmo Gori.
Il prete brigante (video)
15 luglio 2007
Voci di Luna - Musiche da film
Anche la musica è cultura. A Villa Castelli, in provincia di Brindisi, l’estate culturale, programmata e patrocinata dall’amministrazione comunale, è iniziata con un concerto di flauto (Francesca Salvemini) e pianoforte (Silvana Libardo), venerdì 13 luglio 2007. Sono state eseguite musiche da colonne sonore di film famosissimi. Gli autori erano Cipriani, Rota, Micaliazzi, Trovajoli, Oliviero, Ortolani, Morricone, Salvemini, Bacalov. I brani eseguiti sono stati: Anonimo veneziano, Amarcord, Parla più piano, Il valzer del gattopardo, La dolce vita, Otto e mezzo, L’ultima neve di primavera, Roma nun fa’ la stupida stasera, Ti guarderò nel cuore, C’era una volta il west, Il etait une fois la revolution, Love theme, Gabriel’s oboe, Playng love, Tema di Cecco, Tragico risveglio notturno, Dedicato ad una stella, Il postino.
Tutti i brani sono raccolti in un CD intitolato “Voci di Luna”, pubblicato dall’etichetta “Velut Luna” di Casalserugo di Padova.
Il duo ha suonato con un affiatamento eccezionale; le due artiste sono tra l’altro madre (pianoforte) e figlia (flauto). Sono riuscite a creare un’atmosfera affascinante e coinvolgente. I titoli posseduti sono di livello molto alto. La flautista Francesca Salvemini ha studiato nei conservatori di Lecce, Milano, Ginevra; ha suonato oltre che in Italia, anche in Francia, Germania, Spagna, Belgio, Svizzera, Olanda, Turchia, Romania, Polonia, Stati Uniti, Brasile, Argentina; conseguendo tantissimi premi. La pianista Silvana Libardo si è formata nel conservatorio di Bari, perfezionandosi a Roma; ha svolto attività didattica, come docente, a Lecce, Roma, Molfetta, Pugnochiuso, S. Maria in Brasile, Resistencia in Argentina, Macon e San Antonio in USA, Bruxelles; ha svolto un’intensa attività concertistica, come solista, con formazioni cameristiche ed orchestre; è fondatrice e direttore artistico dell’Associazione artistico musicale “Nino Rota” di Brindisi.
Il concerto è stato tenuto nell’aula consiliare del Comune. Il pubblico, numeroso, ha apprezzato ed ha applaudito con entusiasmo.
La serata è stata organizzata dall’Associazione culturale “l’altro suono”, diretta dai maestri Mino La Penna ed Angelo Pignatelli.
Tutti i brani sono raccolti in un CD intitolato “Voci di Luna”, pubblicato dall’etichetta “Velut Luna” di Casalserugo di Padova.
Il duo ha suonato con un affiatamento eccezionale; le due artiste sono tra l’altro madre (pianoforte) e figlia (flauto). Sono riuscite a creare un’atmosfera affascinante e coinvolgente. I titoli posseduti sono di livello molto alto. La flautista Francesca Salvemini ha studiato nei conservatori di Lecce, Milano, Ginevra; ha suonato oltre che in Italia, anche in Francia, Germania, Spagna, Belgio, Svizzera, Olanda, Turchia, Romania, Polonia, Stati Uniti, Brasile, Argentina; conseguendo tantissimi premi. La pianista Silvana Libardo si è formata nel conservatorio di Bari, perfezionandosi a Roma; ha svolto attività didattica, come docente, a Lecce, Roma, Molfetta, Pugnochiuso, S. Maria in Brasile, Resistencia in Argentina, Macon e San Antonio in USA, Bruxelles; ha svolto un’intensa attività concertistica, come solista, con formazioni cameristiche ed orchestre; è fondatrice e direttore artistico dell’Associazione artistico musicale “Nino Rota” di Brindisi.
Il concerto è stato tenuto nell’aula consiliare del Comune. Il pubblico, numeroso, ha apprezzato ed ha applaudito con entusiasmo.
La serata è stata organizzata dall’Associazione culturale “l’altro suono”, diretta dai maestri Mino La Penna ed Angelo Pignatelli.
13 luglio 2007
“Maledetti Savoia” di Lorenzo Del Boca
«Dov’è l’Italia?», si chiede Lorenzo Del Boca nell’ultimo capitolo del suo libro. E la risposta che si dà è: «Chi cerca l’Italia non la trova, forse perché non esiste».
Esistono tanti italiani, con le loro accentuate differenze di tradizioni socio-culturali, di differenze linguistiche e dialettali, di differenze comportamentali. L’Unità d’Italia ancora non esiste e forse non esisterà mai.
«L’Unità d’Italia – scrive Del Boca – è stato uno slogan con cui la mitologia del Risorgimento ha giustificato un capitolo di storia del tricolore». A partire dal 1860, l’Italia non piemontese non è stata liberata, ma conquistata. Le regioni meridionali non sono state unite nell’unica Italia, ma annesse. L’Italia del Sud e la sua gente sono state maltrattate, anche in modo volgare. Per infangare l’immagine di Francesco II, cacciato dal suo Regno delle due Sicilie, i servizi segreti piemontesi misero in giro una serie di fotomontaggi di sua moglie, la regina Maria Sofia, in atteggiamenti pornografici.
I malanni dell’Italia di oggi sono figli di quella di ieri. La storia ufficiale ha nascosto truffe, imbrogli, bugie, mistificazioni. L’Italia dell’Ottocento è ricca di politici corrotti, di ufficiali mestatori, di traffichini di regime, di burocrati inefficienti, di magistrati senza giustizia.
Ma sono ormai molti gli studiosi che cominciano a rileggere la storia con più attenzione e con uno sguardo più critico.
E’ ormai accertato che l’incontro di Teano fra Garibaldi e Vittorio Emanuele II è un falso storico. In realtà l’incontro è avvenuto a Vairano. E la scena fu goffa ed impacciata. Niente a che fare con l’affresco che il pittore Pietro Aldi disegnò sulla parete del municipio di Siena, a cominciare dall’iconografia dei due personaggi, che sono stati idealizzati come tutti i fatti del Risorgimento.
Vittorio Emanuele II era un poco di buono. Usava il lucido delle scarpe per annerirsi i pochi capelli che gli rimanevano. Vittorio Emanuele considerava la cultura una perdita di tempo; i libri lo innervosivano. Era un campione delle scappatelle; approfittando della sua posizione si faceva tutte le ragazzotte che gli capitavano a tiro. Consumava ingenti somme per cavalli, cani e favorite (più o meno puttane). I soldi non gli bastavano mai. E Vittorio Emanuele pagava con i soldi degli italiani, spremuti con tante tasse.
Vittorio Emanuele II diventò re d‘Italia quasi per caso, usato per loro comodo da altri veri regnanti.
Massimo d’Azeglio, nel suo diario, ipotizza addirittura che Vittorio Emanuele non fosse nemmeno lui, perché quello vero sarebbe morto in un incendio provocato dalla nutrice, e segretamente sostituito con il figlio di un macellaio di Porta Romana a Firenze.
E Garibaldi, chi era? «Un babbeo», secondo Maxime du Camp, uno scrittore francese che aveva vestito la camicia rossa. «Una canna al vento», secondo Giuseppe Mazzini. «Rozzo e incolto», secondo Denis Mack Smith. «Un onesto pasticcione», secondo Indro Montanelli. Tracagnotto e con le gambe corte. Amava l’odore della polvere da sparo e il profumo dei capelli delle signorine; passava indifferentemente dal clangore delle battaglie alle fatiche fra le lenzuola. Gli vengono attribuiti una dozzina di figli fra legali, mezzi legali e illegittimi.
La spedizione dei Mille in realtà, forse, fu solo una farsa. Non ci sarebbe stata la conquista del regno delle due Sicilie se non si fossero unite le convenienze degli inglesi e della mafia meridionale, che finanziarono ed appoggiarono l’impresa. I loro interessi non erano più compatibili con la monarchia dei Borboni. Ammiragli, capitani, generali dell’esercito borbonico furono comprati a peso doro; scapparono anziché difendere ed attaccare. I 100.000 soldati dell’esercito borbonico, se avessero voluto, avrebbero potuto fare a pezzi i mille garibaldini.
Altra farsa fu quella del plebiscito del 21 ottobre 1860, con il quale i meridionali del Regno delle Due Sicilie avrebbero votato l’annessione al Piemonte. Non ci si preoccupò nemmeno di dare una parvenza di consultazione democratica.
Le promesse di Garibaldi e dei piemontesi rimasero solo parole vuote. Le terre non vennero distribuite ai contadini. Le tasse non diminuirono, anzi ne vennero istituite delle nuove. I nuovi padroni non si preoccuparono nemmeno di nascondere gli atteggiamenti, il disprezzo, la supponenza propria degli invasori. I ricchi rimasero ricchi e i poveri divennero più poveri.
E i meridionali cercarono di difendersi. Si nascosero nei boschi e usarono le armi. Non potevano ricevere bastonate ed esseri contenti. Fu una reazione popolare, che durò parecchi anni. I meridionali divennero tutti “briganti”.
Ma il nuovo Stato, straniero per la maggioranza dei meridionali, usò le maniere forti. Fu una mattanza ed un massacro. Quasi un milione di italiani del Sud, considerati tutti briganti, furono ammazzati.
Il libro di Del Boca affronta tanti altri argomenti, dei quali cito solo i titoli: la mafia in campo, un parlamento da operetta, Sicilia senza pace, ferrovie: un affare milionario, Regie Tabaccherie in fumo, il crack della Banca Romana.
“Maledetti Savoia”, che porta il sottotitolo “Il vero Risorgimento non è quello che ci hanno insegnato a scuola”, è un libro che dovrebbe essere letto da tutti. Per conoscere la verità.
Lorenzo Del Boca, Maledetti Savoia, Edizioni Piemme, 1998, (V Edizione Pocket 2005), pp. 287, € 7,90
Esistono tanti italiani, con le loro accentuate differenze di tradizioni socio-culturali, di differenze linguistiche e dialettali, di differenze comportamentali. L’Unità d’Italia ancora non esiste e forse non esisterà mai.
«L’Unità d’Italia – scrive Del Boca – è stato uno slogan con cui la mitologia del Risorgimento ha giustificato un capitolo di storia del tricolore». A partire dal 1860, l’Italia non piemontese non è stata liberata, ma conquistata. Le regioni meridionali non sono state unite nell’unica Italia, ma annesse. L’Italia del Sud e la sua gente sono state maltrattate, anche in modo volgare. Per infangare l’immagine di Francesco II, cacciato dal suo Regno delle due Sicilie, i servizi segreti piemontesi misero in giro una serie di fotomontaggi di sua moglie, la regina Maria Sofia, in atteggiamenti pornografici.
I malanni dell’Italia di oggi sono figli di quella di ieri. La storia ufficiale ha nascosto truffe, imbrogli, bugie, mistificazioni. L’Italia dell’Ottocento è ricca di politici corrotti, di ufficiali mestatori, di traffichini di regime, di burocrati inefficienti, di magistrati senza giustizia.
Ma sono ormai molti gli studiosi che cominciano a rileggere la storia con più attenzione e con uno sguardo più critico.
E’ ormai accertato che l’incontro di Teano fra Garibaldi e Vittorio Emanuele II è un falso storico. In realtà l’incontro è avvenuto a Vairano. E la scena fu goffa ed impacciata. Niente a che fare con l’affresco che il pittore Pietro Aldi disegnò sulla parete del municipio di Siena, a cominciare dall’iconografia dei due personaggi, che sono stati idealizzati come tutti i fatti del Risorgimento.
Vittorio Emanuele II era un poco di buono. Usava il lucido delle scarpe per annerirsi i pochi capelli che gli rimanevano. Vittorio Emanuele considerava la cultura una perdita di tempo; i libri lo innervosivano. Era un campione delle scappatelle; approfittando della sua posizione si faceva tutte le ragazzotte che gli capitavano a tiro. Consumava ingenti somme per cavalli, cani e favorite (più o meno puttane). I soldi non gli bastavano mai. E Vittorio Emanuele pagava con i soldi degli italiani, spremuti con tante tasse.
Vittorio Emanuele II diventò re d‘Italia quasi per caso, usato per loro comodo da altri veri regnanti.
Massimo d’Azeglio, nel suo diario, ipotizza addirittura che Vittorio Emanuele non fosse nemmeno lui, perché quello vero sarebbe morto in un incendio provocato dalla nutrice, e segretamente sostituito con il figlio di un macellaio di Porta Romana a Firenze.
E Garibaldi, chi era? «Un babbeo», secondo Maxime du Camp, uno scrittore francese che aveva vestito la camicia rossa. «Una canna al vento», secondo Giuseppe Mazzini. «Rozzo e incolto», secondo Denis Mack Smith. «Un onesto pasticcione», secondo Indro Montanelli. Tracagnotto e con le gambe corte. Amava l’odore della polvere da sparo e il profumo dei capelli delle signorine; passava indifferentemente dal clangore delle battaglie alle fatiche fra le lenzuola. Gli vengono attribuiti una dozzina di figli fra legali, mezzi legali e illegittimi.
La spedizione dei Mille in realtà, forse, fu solo una farsa. Non ci sarebbe stata la conquista del regno delle due Sicilie se non si fossero unite le convenienze degli inglesi e della mafia meridionale, che finanziarono ed appoggiarono l’impresa. I loro interessi non erano più compatibili con la monarchia dei Borboni. Ammiragli, capitani, generali dell’esercito borbonico furono comprati a peso doro; scapparono anziché difendere ed attaccare. I 100.000 soldati dell’esercito borbonico, se avessero voluto, avrebbero potuto fare a pezzi i mille garibaldini.
Altra farsa fu quella del plebiscito del 21 ottobre 1860, con il quale i meridionali del Regno delle Due Sicilie avrebbero votato l’annessione al Piemonte. Non ci si preoccupò nemmeno di dare una parvenza di consultazione democratica.
Le promesse di Garibaldi e dei piemontesi rimasero solo parole vuote. Le terre non vennero distribuite ai contadini. Le tasse non diminuirono, anzi ne vennero istituite delle nuove. I nuovi padroni non si preoccuparono nemmeno di nascondere gli atteggiamenti, il disprezzo, la supponenza propria degli invasori. I ricchi rimasero ricchi e i poveri divennero più poveri.
E i meridionali cercarono di difendersi. Si nascosero nei boschi e usarono le armi. Non potevano ricevere bastonate ed esseri contenti. Fu una reazione popolare, che durò parecchi anni. I meridionali divennero tutti “briganti”.
Ma il nuovo Stato, straniero per la maggioranza dei meridionali, usò le maniere forti. Fu una mattanza ed un massacro. Quasi un milione di italiani del Sud, considerati tutti briganti, furono ammazzati.
Il libro di Del Boca affronta tanti altri argomenti, dei quali cito solo i titoli: la mafia in campo, un parlamento da operetta, Sicilia senza pace, ferrovie: un affare milionario, Regie Tabaccherie in fumo, il crack della Banca Romana.
“Maledetti Savoia”, che porta il sottotitolo “Il vero Risorgimento non è quello che ci hanno insegnato a scuola”, è un libro che dovrebbe essere letto da tutti. Per conoscere la verità.
Lorenzo Del Boca, Maledetti Savoia, Edizioni Piemme, 1998, (V Edizione Pocket 2005), pp. 287, € 7,90
5 luglio 2007
Siamo borbonici e non asini
La sconfitta dei Borboni non fu provocata dallo slancio dei garibaldini né dal valore delle loro armi. Fu letteralmente comprata a peso d’oro. Ammiragli e capitani di vascelli, in mare, generali e tenenti effettivi, sulla terraferma, concordarono il prezzo per ritirare le loro truppe davanti al nemico, scappando invece di attaccare.
Non ci sarebbe stata conquista del regno delle due Sicilie se non si fossero unite le convenienze inglesi con quelle della mafia meridionale e se, gli uni e l’altra, non avessero finanziato e soccorso il movimento garibaldino.
Gli inglesi investirono nell’operazione circa 29 (ventinove) miliardi delle nostre vecchie lire.
A fare queste affermazioni non è stato un leghista del nord o del sud o un neoborbonico, ma Lorenzo Del Boca, presidente del Consiglio nazionale dell’Ordine dei giornalisti, in carica ormai da più di un decennio.
Garibaldi quindi è stato semplicemente un «onesto babbeo», come scrisse il garibaldino scrittore francese Maxime du Camp. In pratica un utile idiota, direi io.
Meravigliano quindi le improvvide celebrazioni in atto per il secondo centenario della nascita del montato «eroe dei due mondi», con grande sperpero di denaro pubblico, soldi questa volta non degli inglesi ma degli italiani uniti.
Meraviglia pure il grande battage pubblicitario che tutti i giornali italiani stanno facendo per la commemorazione. Persino l’Unità ha messo in vendita in allegato un libro su Garibaldi.
Anzi, il giornale fondato da Gramsci ha pubblicato un articolo nel quale Bruno Gravagnuolo dà dell’asino a chi non si accoda ad incensare Garibaldi, informandoci che Garibaldi aveva battezzato due suoi muli coi nomi di Napoleone III e Pio IX e «non immaginava proprio – aggiunge – quanti asini avrebbe dovuto battezzare e collezionare duecento anni dopo la sua nascita». Io quando avrò un asino lo battezzerò Gravagnuolo.
Mi chiedo su quali libri di storia si sia formato questo giornalista garibaldino. Suppongo su vecchi libri agiografici del Risorgimento. Qualcuno lo informi che la storiografia su tale periodo è andata molto avanti. Il vero Risorgimento non è quello che ci hanno insegnato a scuola.
Concordo con Beppe Grillo, che peraltro seguo poco, quando afferma: «A scuola il Borbone è il cattivo e il Savoia il buono. Stato borbonico è sinonimo di degrado delle istituzioni. Brigante di protomafioso. Forse vanno cambiati i testi di scuola oltre al significato delle parole. Rivalutati i patrioti che persero la vita contro l’esercito piemontese. Forse dobbiamo raccontarci un’altra storia. In cui il Risorgimento è stato in parte, in gran parte, espansionismo di una dinastia. Che ci ha lasciato in eredità l’emigrazione di milioni di persone che fuggivano dalla fame, due guerre mondiali, il fascismo».
Ed allora, siamo borbonici e non asini.
Non ci sarebbe stata conquista del regno delle due Sicilie se non si fossero unite le convenienze inglesi con quelle della mafia meridionale e se, gli uni e l’altra, non avessero finanziato e soccorso il movimento garibaldino.
Gli inglesi investirono nell’operazione circa 29 (ventinove) miliardi delle nostre vecchie lire.
A fare queste affermazioni non è stato un leghista del nord o del sud o un neoborbonico, ma Lorenzo Del Boca, presidente del Consiglio nazionale dell’Ordine dei giornalisti, in carica ormai da più di un decennio.
Garibaldi quindi è stato semplicemente un «onesto babbeo», come scrisse il garibaldino scrittore francese Maxime du Camp. In pratica un utile idiota, direi io.
Meravigliano quindi le improvvide celebrazioni in atto per il secondo centenario della nascita del montato «eroe dei due mondi», con grande sperpero di denaro pubblico, soldi questa volta non degli inglesi ma degli italiani uniti.
Meraviglia pure il grande battage pubblicitario che tutti i giornali italiani stanno facendo per la commemorazione. Persino l’Unità ha messo in vendita in allegato un libro su Garibaldi.
Anzi, il giornale fondato da Gramsci ha pubblicato un articolo nel quale Bruno Gravagnuolo dà dell’asino a chi non si accoda ad incensare Garibaldi, informandoci che Garibaldi aveva battezzato due suoi muli coi nomi di Napoleone III e Pio IX e «non immaginava proprio – aggiunge – quanti asini avrebbe dovuto battezzare e collezionare duecento anni dopo la sua nascita». Io quando avrò un asino lo battezzerò Gravagnuolo.
Mi chiedo su quali libri di storia si sia formato questo giornalista garibaldino. Suppongo su vecchi libri agiografici del Risorgimento. Qualcuno lo informi che la storiografia su tale periodo è andata molto avanti. Il vero Risorgimento non è quello che ci hanno insegnato a scuola.
Concordo con Beppe Grillo, che peraltro seguo poco, quando afferma: «A scuola il Borbone è il cattivo e il Savoia il buono. Stato borbonico è sinonimo di degrado delle istituzioni. Brigante di protomafioso. Forse vanno cambiati i testi di scuola oltre al significato delle parole. Rivalutati i patrioti che persero la vita contro l’esercito piemontese. Forse dobbiamo raccontarci un’altra storia. In cui il Risorgimento è stato in parte, in gran parte, espansionismo di una dinastia. Che ci ha lasciato in eredità l’emigrazione di milioni di persone che fuggivano dalla fame, due guerre mondiali, il fascismo».
Ed allora, siamo borbonici e non asini.
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