Michele
di Gè di Rionero, accusato per un sequestro di persona, fu processato nel 1869
e condannato all’ergastolo. Fu però scarcerato nel 1893 per uno sconto di pena
accordato in forza del nuovo ordinamento penale. Imparò in galera a leggere e
scrivere. Molti anni dopo il suo ritorno a casa, tra il novembre 1910 e
l’aprile 1911, si dedicò alla stesura di un’autobiografia “per restare un
ricordo” alla sua famiglia e ai cittadini di Rionero. Il Di Gè, nato a Rionero
in Vulture il 24 dicembre 1843, è morto nel 1924. E’ stato uno dei pochi in
grado di narrare le proprie vicende, avendo avuto la doppia rara ventura di
restare vivo dopo la sua vita alla macchia e di uscire vivo di prigione, scrive
il De Blasi.
Una copia della prima stampa del testo
giunse a Giustino Fortunato, che nello stesso 1911 lo fece ristampare, mentre
avviava con Gaetano Salvemini il progetto della sua pubblicazione sulla rivista
specializzata “Lares”, cosa che avvenne nel 1914. Non si è mai riusciti però a
risalire al manoscritto autografo.
L’edizione curata dal Salvemini per “Lares”
porta discreti ma decisivi interventi che avvicinano la scrittura del Di Gè
alla lingua scritta normalmente accettata come corretta. La stampa del 1911
presenta invece una lingua che, nonostante i possibili ritocchi del tipografo,
conserva tutte le caratteristiche dell’italiano popolare. Il volume, scritto dal
De Blasi, porta all’inizio la ristampa del testo pubblicato nel 1911 a Melfi
dall’Insabato (per un totale di 47 pagine).
L’autobiografia del Di Gè non è il frutto
di un’esposizione casuale ma è un racconto organizzato. L’ex brigante racconta
i fatti con una sequenza e una selezione meditate, cosa che induce a numerose
reticenze. Come nota il Salvemini, non racconta tutto quello che sa, di quasi
tutti i suoi compagni tace i nomi, evita ogni designazione topografica o
cronologica precisa, delle imprese a cui ha partecipato ne racconta una sola:
il sequestro del settembre 1866 perché questo dette luogo a un processo e a una
condanna. L’attenta selezione degli eventi da narrare è visibile anche nella
cautela con cui presenta ogni episodio che potrebbe configurarsi come reato.
L’autobiografia è quindi condotta
costantemente sulla difensiva. Il testo è tutt’altro che un’accozzaglia
occasionale di episodi narrati disordinatamente, esso nella sua coerenza è un
intreccio tra sventura, male e bene, che sono significativamente rievocati
nella chiusa: «Questo è il libro della sventura, e chi vuole sentire il vero
qui ci è il male ed il bene».
L’analisi che il De Blasi fa del testo non
riguarda il contenuto, ma la forma linguistica che in esso viene usata. Vengono
enucleati la storia del testo, edizioni e varianti, la lingua, il lessico, la
cultura orale nella sua concretezza e tradizioni.
Il Di Gè fu chiamato per il servizio
militare nell’esercito italiano nel 1863, ma riuscì a non partire come soldato
e lavorò con il padre come pastore a Lavello. Si sposò nel 1864. Si diede al
brigantaggio agli inizi del 1866 ed entrò prima nella banda di Giacomo Parri e
Carmine Meula e poi in quella di Luigi Cerino. Si costituì alle autorità l'8
dicembre 1866.
In carcere sfregiò al volto con un piatto
il capo lavorante, che era veneziano, perché aveva affermato che nello Stato
napolitano erano tutti briganti, camorristi, magnacci, bambocci.
Nicola De Blasi quando nel 1991 pubblicò il
libro sul brigante Di Gè era professore associato di Storia della lingua italiana
presso l’Università della Basilicata.
Rocco Biondi