6 dicembre 2014

Il Sergente di Francesco II, di Maria Landi


Il mondo universitario sempre più si interessa del brigantaggio postunitario. Sono frequenti le tesi di laurea su questo tema. Per lo più si conserva una equidistanza tra la valutazione totalmente negativa che ritiene i briganti puri delinquenti e quella positiva che li considera insorgenti e partigiani. E’ il caso della tesi di Maria Landi, tenutasi nel febbraio 2014 presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Salerno, dal titolo “Il Sergente di Francesco II. Mito e storia del brigantaggio meridionale attraverso la biografia di Pasquale Romano”.
     La tesi, piuttosto snella, sintetizza in una prima parte alcuni scritti sulle motivazioni generali che portarono al brigantaggio e sulla figura certamente tra le più significative fra i briganti: Pasquale Romano di Gioia del Colle in provincia di Bari; in una seconda parte poi si rende conto delle tante iniziative che ai giorni nostri vengono tenute sul Sergente Romano, a testimonianza della rivalutazione e dell’interesse che tuttora suscita il fenomeno del brigantaggio postunitario; ed infine vengono riprodotte molte immagini che documentano tali rivalutazioni ed interesse che in modo sempre crescente provoca la figura del Romano.
     Per spiegare la crisi del Regno delle Due Sicilie si ripetono le valutazioni positive sul Risorgimento italiano in genere e sul Risorgimento nel Mezzogiorno, per approdare infine alle motivazioni che portarono al brigantaggio meridionale postunitario. Di quest’ultimo si afferma che fu un fenomeno complesso, che mise a dura prova il neonato Stato Unitario, costringendolo ad impiegare 120.000 uomini per la sua repressione. Una differente politica del governo piemontese avrebbe potuto ridimensionare questo fenomeno. Nella sua tesi Maria Landi sostiene che «la mancata conoscenza dei reali problemi del Meridione, la scarsa importanza riservata dalla Destra moderata alla risoluzione della “questione demaniale”, insieme ad una “politica di conciliazione”, condotta nei confronti delle forze legittimiste e clericali, portarono ad una vera guerra civile fra italiani».
     Particolare rilievo vien dato al brigantaggio in Terra di Bari ed ovviamente alla reazione di Gioia del Colle dell’estate 1861, capeggiata dal sergente Pasquale Romano. La rivolta raggiunse l’apice nel borgo San Vito, dove molti abitanti si unirono ai briganti al grido di “Viva Francesco II” e marciarono verso Gioia. Ma la loro avanzata fu bloccata dalla Guardia Nazionale che li costrinse a rifugiarsi nel borgo, dove vennero effettuati saccheggi e violenze. La repressione dei piemontesi fu feroce con esecuzioni sommarie.
     Pasquale Romano riuscì a sfuggire e a ricostruire la sua banda con la quale nel novembre del 1862 assaltò vittoriosamente Carovigno, in provincia di Brindisi. Ma poi fu sconfitto dai piemontesi presso la Masseria Monaci.
     Il Romano, insieme ad altri briganti, riuscì nuovamente a sfuggire e decise di preparare un nuovo attacco al suo paese natio Gioia del Colle. Ma, tradito, i piemontesi lo attaccarono di sorpresa nel bosco Vallata, dove la sua banda fu sterminata e lui stesso cadde in combattimento. Era il 5 gennaio del 1863. Pasquale Romano, che era nato nel settembre 1833, aveva solo 29 anni. «Ebbe termine, così, - scrive Maria Landi - il sogno del sergente Romano di veder restaurato il regime borbonico».
      Ma non muoiono il ricordo ed il mito del sergente Romano, se nel 2006 è stata eretta una stele commemorativa nel luogo dove fu ucciso e presso la quale ogni 5 gennaio si celebra una manifestazione in suo onore, se a Villa Castelli (Brindisi) nel 2010 viene intitolata a lui una strada, se ancora oggi, a distanza di 150 anni dalla sua morte, libri, siti e blog, parlano bene di lui.
Rocco Biondi 

19 novembre 2014

Chiedo scusa alla Dirigente Maria Conserva


Accogliendo il suggerimento del giudice Dott. Biondi del Tribunale di Brindisi, chiedo pubblicamente scusa alla dott.ssa Maria Conserva se quello che scrissi su questo blog il 4 novembre 2008 possa averla offesa. Non era mia intenzione diffamarla, né ho mai voluto accostare il termine “padrino” ad attività o protezioni di tipo mafioso. Intendevo solo descrivere, con un termine di colore, quello che avveniva allora nella scuola di Villa Castelli. Lo ripeto, se la Dott.ssa Conserva potrebbe essersi sentita offesa, ne chiedo pubblicamente scusa. 
Da parte mia quindi sto accogliendo l’invito del Giudice.

14 novembre 2014

Il “primato” del Regno delle Due Sicilie, di José Mottola

Libro inutile (per il Sud), che tenta di riportare gli studi sul Regno delle Due Sicilie e sul Brigantaggio a molti anni fa, quando autori e mondo accademico si sforzavano di giustificare l’intervento “liberatore” dei piemontesi nel Mezzogiorno, che in realtà fu invasione ed annessione.
     Né ci si lasci ingannare dal titolo del libro. Il primato del Regno delle Due Sicilie di cui si parla è (provocatoriamente) quello dell’analfabetismo e dell’arretratezza del Mezzogiorno rispetto al Piemonte.
     Ecco un florilegio di affermazioni, presenti nel libro, che ne fanno capire i contenuti. “L’Unità arrecò più benefici che svantaggi al Sud” (pag. 42). “Si tratta di prove del fallimento storico di una monarchia oscurantista [quella borbonica], fonte di effetti negativi per l’economia, il civismo, la cultura e la qualità della vita delle popolazioni meridionali di allora e delle generazioni successive” (pag. 101). “La legge Pica fu uno strumento di difesa dell’incolumità e dell’ordine pubblico” (pag. 113). Quella neoborbonica è una “subcultura” (pag. 134). E per finire Alessandro Barbero nella postfazione parla di “buffonesca mitologia dei primati” (pag. 147).
     In qualche modo potremmo capire la posizione del piemontese Barbero, ma non capiamo l’astio del pugliese (?) Mottola contro il Sud.
     Ed infine potremmo invitare l’editore meridionale Capone a fare una scelta più oculata nel pubblicare libri, evitando quelli contro il Sud.
Rocco Biondi

27 ottobre 2014

Ferite aperte, di Angelo Panarese



Libro utile e interessante per conoscere e capire le motivazioni, specialmente economiche, che portarono al crollo e alla fine del Regno delle Due Sicilie. E' il tentativo, dice Panarese nella introduzione, di scrivere una controstoria, lontana dalla storiografia paludata e retorica, molto presente nel panorama culturale, nei libri scolastici e testi universitari, del nostro Paese. Una qualche contraddizione però la si riscontra tra la definizione di “fenomeno negativo” del brigantaggio presente nella introduzione e le affermazioni poste all’inizio del capitolo undicesimo, dedicato appunto al brigantaggio, quando si afferma: «La reazione contadina contro le privatizzazioni degenera in brigantaggio. E proprio da qui che bisogna partire se si vuole comprendere la natura del brigantaggio e non considerarlo semplicemente un fenomeno criminale».
    Il libro si compone di undici capitoli che trattano dei problemi dell’economia napoletana alla vigilia dell’unificazione, della classe dirigente meridionale nella crisi dello Stato borbonico, dell’unione dei Moderati a Napoli e nel Mezzogiorno, della (cosiddetta) liberazione del Mezzogiorno da parte dei piemontesi, della funzione del Piemonte nel (cosiddetto) Risorgimento italiano, del mercato italiano capitalistico, della colonizzazione del Mezzogiorno da parte del capitale tosco-padano, del Banco delle Due Sicilie, del brigantaggio postunitario inteso come guerra civile e sociale.
    Qui mi limiterò a presentare l’ultimo capitolo che verte sul brigantaggio postunitario.
    L’abolizione della feudalità, promulgata nel 1806, non apportò nessun vantaggio e nessun utile ai contadini, che poveri erano e ancora più poveri divennero. Quella legislazione del Decennio francese contribuì invece a rafforzare nobili e borghesi, che ricchi già erano. Lo stato di miseria esasperò e fece nascere nei contadini un profondo odio che sfociò nel 1806 in vasti fenomeni di insorgenza e poi nel 1860 nella lotta armata contro il nuovo Stato unitario. Ai contadini nel giro di pochi anni fu negato l’esercizio degli usi civici sulle terre che nobili e borghesi usurparono trasformando il possesso in proprietà. L’uso civico consentiva caccia, pascolo, legnatico, semina su terreni di proprietà comunale o anche di terzi. La perdita degli usi civici, non sostituiti dalla quotizzazione delle terre, influì negativamente sulle condizioni economiche dei contadini e ha fatto sparire la piccola proprietà contadina nelle campagne dell’antico Regno di Napoli. I contadini furono costretti a ricorrere ai “galantuomini” per prestiti che non si riusciva ad estinguere. Oltre la terra, ai contadini veniva sottratta dai creditori anche la casa. A loro non rimaneva più nulla, se non la rivolta sociale che esplose violenta «in quegli anni, che vanno inquadrati in questo mosaico complessivo che è, al tempo stesso, economico, sociale, politico».
    In una situazione così delicata, scrive Panarese, il popolo basso, quello costituito dai contadini e dai cafoni, dai pastori e dai guardiani delle pecore, dagli artigiani e dalla povera gente, non ha altra soluzione che accettare come propria bandiera, quella dei Borbone.
    A capo dei briganti insorgenti furono posti valenti condottieri: Carmine Crocco, Eustachio Fasano, Luigi Alonzi detto Chiavone, il sergente Pasquale Romano, Cosimo Giordano, i fratelli La Gala, il legittimista spagnolo Josè Borges, e molti altri.
    Nel 1862 fu costituita una commissione d’inchiesta sul brigantaggio, che visitò diverse località del Sud ed ascoltò molti che in qualche modo erano impegnati contro il brigantaggio, ma non ascoltò i contadini e i briganti.
    Risultato pratico della commissione fu la promulgazione nel 1863 della legge Pica, che assegnava ai tribunali militari un ruolo decisivo ed annullava nei fatti qualsiasi forma di Stato di diritto.
    «Non è in discussione – scrive Panarese – il processo unitario, l’esito finale delle lotte risorgimentali, ma il come è avvenuto quel processo, che non ha costruito una nuova nazione, ma ha cristallizzato ed esasperato le “Due Italie”». Le ferite allora aperte non si sono ancora rimarginate.
Rocco Biondi

Angelo Panarese, Ferite aperte, Il crollo del Regno delle Due Sicilie, Capone Editore, Cavallino (Lecce) 2014, pp. 176, € 13,00