Sogno un governo che approvi un disegno di legge che preveda per le quattro cariche più alte dello Stato pene raddoppiate rispetto ai comuni mortali. Loro dovrebbero dare l’esempio nel comportarsi correttamente ed essere condannati più severamente se hanno sgarrato o sgarrano. E questo per sempre, a prescindere dal numero del loro mandato. Esattamente l’opposto da quello che prevedono le facce di bronzo di Berlusconi & Soci.
Gli eletti dal popolo se erano delinquenti, tali restano.
Con l’attuale legge elettorale poi il popolo non sceglie un bel niente, vota i delinquenti che gli vengono proposti; prendere o lasciare. Non solo. I presidenti della repubblica, del senato e della camera non vengono eletti dal popolo, ma dai sodali loro. Solo Berlusconi è il padreterno che si fa eleggere dal popolo, utilizzando le sue televisioni e la moral suasion che ne deriva.
Col lodo Alfano (chi era costui?) l’attuale maggioranza esegue il diktat del gran capo Berlusconi: «Fate una legge che mi salvi dai processi una volta per tutte». Alla faccia di quello che in altri tempi avevano affermato i Fini, i La Russa, i Gasparri, i Bossi contro l’immunità.
Non si può non concordare con Massimo Giannini quando scrive che siamo alla personalizzazione della norma giuridica, alla privatizzazione della cosa pubblica, a tentativi di ripiegare la vita nazionale su una biografia personale.
Quando leggevo l’Unità, diretta da Furio Colombo, mi capitava assai spesso che quello che io scrivevo contro Berlusconi su questo blog la sera prima, l’indomani me lo trovavo su quel giornale. Vi era un comune sentire.
Ora vi è un comune sentire con Di Pietro. Quello che io penso, lui lo dice. «Le intercettazioni che loro vogliono limitare ci fanno vedere un capo del governo che fa un lavoro più da magnaccia, impegnato a piazzare le veline che parlavano troppo», ha detto oggi Di Pietro. In altre parole «Abbiamo un capo del governo che fa il magnaccia».
E Libero, il giornale di Berlusconi, aveva ieri già preventivamente confermato a tutta pagina: «Il guaio è la gnocca».
28 giugno 2008
26 giugno 2008
Le telefonate di Berlusconi
La prima telefonata inzia con una abbastanza lunga musichetta d'attesa... ma poi la musica cambia.
LEGGI E ASCOLTA
LEGGI E ASCOLTA
25 giugno 2008
Fischio anch’io Berlusconi
CORRIERE DELLA SERA.it
mercoledì 25 giugno 2008
«Pm politicizzati, un cancro»Berlusconi fischiatoVideo
la Repubblica.it
Ultimo aggiornamento mercoledi 25.06.2008 ore 13.46
Berlusconi attacca i giudicie dalla platea piovono fischi
LA STAMPA.it
13:51 Mercoledì 25/06/08
"Giudici politicizzati, un cancro"Berlusconi fischiato dalla platea
Il Messaggero.it
Mercoledì 25 Giugno 2008
Nuovo attacco di Berlusconi alle toghe: «I giudici politicizzati metastasi della democrazia»
Raffica di fischi dei commercianti al premier
Il SOLE 24 ORE.com
Aggiornato alle 13.54 Mercoledì, 25 Giugno 2008
Berlusconi attacca i giudici, fischi dalla platea Confesercenti
l'Unità.it
25 giugno 2008
Berlusconi attacca i giudici: «Metastasi della democrazia»
Il premier fischiato dalla Confesercenti
.
21 giugno 2008
Le marionette di Berlusconi
Si era facilissimi profeti quando si diceva di Berlusconi che il lupo perde il pelo ma non il vizio. Ma forse non può perdere nemmeno il pelo; vi ricordate delle bandane per coprire i trapianti alla testa?
E’ rientrato sulla scena europea insultando in blocco parlamento e parlamentari europei. «All’Europa serve un drizzone», ha sentenziato. E i commissari europei «parlano troppo», mettendo in difficoltà i capi di governo; dove per capi di governo è da intendersi Berlusconi, che si è autodesignato il capo dei capi.
Chissà quanto aveva studiato per inventare il neologismo «drizzone»; ma forse a lui gli escono spontanei i neologismi. Filippo Ceccarelli ne ha collezionati alcuni. «Abbiamo cantierato» con «programmi ben tempificati», diceva Berlusconi, ma la «modernazione» non ebbe poi tutta questa «convincenza». A me drizzone fa venire in mente tante altre parole a rima, che ci azzeccano bene con il Berlusca. Ne prendo in prestito alcune che Berlusconi stesso ha rivolto agli italiani che non la pensano come lui. Eccole: coglione, cazzone, buffone, sbruffone, imbroglione, cafone, padrone.
Ma torniamo all’Europa. Gli irlandesi non approvano il Trattato di Lisbona? Berlusconi propone di approvarlo comunque. L’Italia lo farà subito. Ma il suo alleato leghista Calderoli replica: «Il Trattato di Lisbona non esiste più». Telefonata del signore al vassallo Bossi, che subito corregge: «Il Trattato è ancora vivo. Penso che l’approveremo».
Io mi indigno a sentire le dichiarazioni a marionetta di tutti i parlamentari salariati di Berlusconi, che senza vergogna alcuna ripetono pappagallescamente i diktat del grande capo. Anche se sono delle emerite stronzate o ancora peggio. Berlusconi ripete il solito ritornello che i giudici sono dei sovversivi, in quanto osano indagare su di lui. E giù tutti i vassalli a gridare che i giudici bisogna cacciarli nelle fogne. E per essere più credibili nei suoi insulti ai magistrati, Berlusconi giura la sua innocenza sulla testa dei suoi cinque figli, avuti da due mogli (alla faccia del teatrale baciamani al Papa).
Berlusconi pontifica che Veltroni è un fallito, in quanto ha osato dichiarare che è finito il tempo del dialogo. E tutti i giannizzeri berlusconiani a gridare che bisogna annientare Veltroni. Il povero ex sindaco di Roma finalmente si incazza un po’ e proclama che in autunno scenderà in piazza contro il governo e contro Berlusconi (finalmente l’ha nominato). Fabio Mussi (ma dov’era finito?) sarcasticamente ne prende atto: «Il Pd ha scoperto chi è Berlusconi. Sono contento per una tale prova di intelligenza». Di Pietro chiosa che per andare in piazza non bisogna aspettare l’autunno, perché «allora i buoi saranno già scappati dalla stalla». Parimenti Paolo Flores D’Arcais, direttore di Micromega ed animatore dei girotondi, e Sandra Bonsanti, di Libertà e Giustizia, vorrebbero che in piazza opposizioni e società civile ci debbano scendere al più presto. Ed io che sostengo che le piazze dovrebbero essere presidiate permanentemente chiedo a Mussi, Di Pietro, D’Arcais e Bonsanti di non aspettare Veltroni, in piazza ci possono scendere subito loro con quanti altri riescono a mobilitare.
Ed in tanta melma da una parte e scaricabarile dall’altra io mi consolo con le nobili parole del cardinale Dionigi Tettamanzi, che avrei voluto Papa al posto di Ratzinger. Militarizzare le città serve solo ad aumentare il senso di smarrimento e la paura. Perché la paura non passa per decreto legge. E’ la solitudine la malattia del nostro tempo. Sono soli tanti anziani. Soli troppi giovani. Soli molti adulti, anche con posizioni sociali prestigiose. La solitudine causa ulteriore sfiducia verso l’altro e genera la paura dell’incontro. Solidarietà, rispetto delle leggi e accoglienza devono coniugarsi. Carità e legalità non sono mai in contrapposizione: gli immigrati, prima di essere tali, sono persone. Tettamanzi vorrebbe che Milano diventasse sempre più la città dell’incontro (non come lo intende Veltroni ovviamente). Incontro tra religioni e culture differenti, tra collocazioni sociali diverse, tra chi è cittadino a tutti gli effetti e chi lo vorrebbe diventare, tra età della vita distanti, tra chi ha un lavoro e chi l’ha perso o non l’ha mai avuto, tra chi è sano e chi è malato. Ed io dico che questo tipo di incontro sarebbe auspicabile non solo a Milano, ma in tutte le città, paesi e paesini d’Italia.
E’ rientrato sulla scena europea insultando in blocco parlamento e parlamentari europei. «All’Europa serve un drizzone», ha sentenziato. E i commissari europei «parlano troppo», mettendo in difficoltà i capi di governo; dove per capi di governo è da intendersi Berlusconi, che si è autodesignato il capo dei capi.
Chissà quanto aveva studiato per inventare il neologismo «drizzone»; ma forse a lui gli escono spontanei i neologismi. Filippo Ceccarelli ne ha collezionati alcuni. «Abbiamo cantierato» con «programmi ben tempificati», diceva Berlusconi, ma la «modernazione» non ebbe poi tutta questa «convincenza». A me drizzone fa venire in mente tante altre parole a rima, che ci azzeccano bene con il Berlusca. Ne prendo in prestito alcune che Berlusconi stesso ha rivolto agli italiani che non la pensano come lui. Eccole: coglione, cazzone, buffone, sbruffone, imbroglione, cafone, padrone.
Ma torniamo all’Europa. Gli irlandesi non approvano il Trattato di Lisbona? Berlusconi propone di approvarlo comunque. L’Italia lo farà subito. Ma il suo alleato leghista Calderoli replica: «Il Trattato di Lisbona non esiste più». Telefonata del signore al vassallo Bossi, che subito corregge: «Il Trattato è ancora vivo. Penso che l’approveremo».
Io mi indigno a sentire le dichiarazioni a marionetta di tutti i parlamentari salariati di Berlusconi, che senza vergogna alcuna ripetono pappagallescamente i diktat del grande capo. Anche se sono delle emerite stronzate o ancora peggio. Berlusconi ripete il solito ritornello che i giudici sono dei sovversivi, in quanto osano indagare su di lui. E giù tutti i vassalli a gridare che i giudici bisogna cacciarli nelle fogne. E per essere più credibili nei suoi insulti ai magistrati, Berlusconi giura la sua innocenza sulla testa dei suoi cinque figli, avuti da due mogli (alla faccia del teatrale baciamani al Papa).
Berlusconi pontifica che Veltroni è un fallito, in quanto ha osato dichiarare che è finito il tempo del dialogo. E tutti i giannizzeri berlusconiani a gridare che bisogna annientare Veltroni. Il povero ex sindaco di Roma finalmente si incazza un po’ e proclama che in autunno scenderà in piazza contro il governo e contro Berlusconi (finalmente l’ha nominato). Fabio Mussi (ma dov’era finito?) sarcasticamente ne prende atto: «Il Pd ha scoperto chi è Berlusconi. Sono contento per una tale prova di intelligenza». Di Pietro chiosa che per andare in piazza non bisogna aspettare l’autunno, perché «allora i buoi saranno già scappati dalla stalla». Parimenti Paolo Flores D’Arcais, direttore di Micromega ed animatore dei girotondi, e Sandra Bonsanti, di Libertà e Giustizia, vorrebbero che in piazza opposizioni e società civile ci debbano scendere al più presto. Ed io che sostengo che le piazze dovrebbero essere presidiate permanentemente chiedo a Mussi, Di Pietro, D’Arcais e Bonsanti di non aspettare Veltroni, in piazza ci possono scendere subito loro con quanti altri riescono a mobilitare.
Ed in tanta melma da una parte e scaricabarile dall’altra io mi consolo con le nobili parole del cardinale Dionigi Tettamanzi, che avrei voluto Papa al posto di Ratzinger. Militarizzare le città serve solo ad aumentare il senso di smarrimento e la paura. Perché la paura non passa per decreto legge. E’ la solitudine la malattia del nostro tempo. Sono soli tanti anziani. Soli troppi giovani. Soli molti adulti, anche con posizioni sociali prestigiose. La solitudine causa ulteriore sfiducia verso l’altro e genera la paura dell’incontro. Solidarietà, rispetto delle leggi e accoglienza devono coniugarsi. Carità e legalità non sono mai in contrapposizione: gli immigrati, prima di essere tali, sono persone. Tettamanzi vorrebbe che Milano diventasse sempre più la città dell’incontro (non come lo intende Veltroni ovviamente). Incontro tra religioni e culture differenti, tra collocazioni sociali diverse, tra chi è cittadino a tutti gli effetti e chi lo vorrebbe diventare, tra età della vita distanti, tra chi ha un lavoro e chi l’ha perso o non l’ha mai avuto, tra chi è sano e chi è malato. Ed io dico che questo tipo di incontro sarebbe auspicabile non solo a Milano, ma in tutte le città, paesi e paesini d’Italia.
Il vero sovversivo è Tettamanzi e non i giudici. Bisognerebbe suggerirlo a Berlusconi. Ma forse Tettamanzi e quelli della Chiesa (forse pochi) che la pensano come lui parlano al vento. E quindi non fanno paura.
15 giugno 2008
Non disturbate Berlusconi
Non disturbate Berlusconi, che continua a farsi gli affari suoi, volendo far credere (riuscendoci) di stare a fare gli affari dei cittadini. Le indagini statistiche di questi giorni documentano che la grande maggioranza degli italiani è d’accordo con lui. Ma ricordiamo che anche Mussolini e Hitler avevano folle oceaniche nelle piazze che li acclamavano.
Anche se non tutto va per il verso voluto. Vedi il tentato salvataggio, ope legis, della sua (di Berlusconi) Rete 4. Per ora solo rinviato, ma statene certi riuscirà ad accontentare i cani che abbaiano con pezzi più consistenti di lardo.
L’opinione pubblica si lascia abbindolare da provvedimenti demagogici. I soldati armati di fucili e pistole, in uniforme grigioverde con elmetti, giubbotto antiproiettile e automezzi militari, per le strade delle città, a difesa dei cittadini. Ma saranno solo 2.500 (duemilacinquecento) per tutta l’Italia. E che faranno i centomila poliziotti, i centomila carabinieri, i centomila finanzieri? E’ ovvio che quei pochi soldati sono pura sceneggiata. Nel 1992, dopo l’uccisione di Falcone e Borsellino, i soldati mandati a presidiare solo la Sicilia furono ventimila.
A me i soldati schierati per le strade delle città, ed a difesa delle discariche pubbliche a Napoli, fanno venire in mente la famigerata legge Pica del 15 agosto 1863 contro il brigantaggio, quando il Sud d’Italia resisteva all’annessione piemontese. E’ vero ora non siamo ancora alla prescrizione di allora: «I colpevoli del reato di brigantaggio, i quali armata mano oppongono resistenza alla forza pubblica, saranno puniti colla fucilazione». Ma non si mai.
Che dire poi del divieto delle intercettazioni telefoniche, con la banale scusa della salvaguardia della privacy? Pensate voi che a qualcuno interessi se io per telefono mandi a fare in culo il mio dirigente del posto di lavoro o le corna che qualcuno possa mettere a sua moglie e viceversa? Le intercettazioni che interessano ai giudici sono quelle inerenti ai reati penali. E Berlusconi lo sa molte bene. Per questo vuole impedirle. Non sono le intercettazioni che bisogna impedire, ma i reati.
Berlusconi non vuole militarizzare solo le città, le discariche, le Procure, vuole militarizzare anche i giornali e l’opinione pubblica. I tre anni di galera a chi pubblica le intercettazioni significano in pratica togliere il controllo delle notizie da pubblicare ai direttori per affidarlo ai proprietari dei giornali.
Scrive Eugenio Scalfari ed io concordo con lui: «Questi provvedimenti stravolgono la Costituzione. Identificano di fatto lo Stato con il governo e il governo con il “premier”». Berlusconi si crede il Re Sole de “L’Etat c’est moi”. «Ma qui il sole non c'è – scrive ancora Scalfari –. C'è fanghiglia, cupidigia, avventatezza, viltà morale. Corteggiamento dell'opposizione. Montaggio di paure e di pulsioni. Picconamento quotidiano della Costituzione».
E gli italiani dormono. Ma attenti al risveglio, può essere durissimo. Può essere il risveglio d'un paese senza democrazia. Dominato dall'antipolitica. Dall'anti-Europa. Dall'anarchia degli indifferenti e dalla dittatura dei furboni.
Ed io, prima che per legge chiudano i blog che criticano Berlusconi, lo mando ancora una volta a fare in culo (metaforicamente). O se volete, più garbatamente, a quel paese, che spero non sia il mio.
Anche se non tutto va per il verso voluto. Vedi il tentato salvataggio, ope legis, della sua (di Berlusconi) Rete 4. Per ora solo rinviato, ma statene certi riuscirà ad accontentare i cani che abbaiano con pezzi più consistenti di lardo.
L’opinione pubblica si lascia abbindolare da provvedimenti demagogici. I soldati armati di fucili e pistole, in uniforme grigioverde con elmetti, giubbotto antiproiettile e automezzi militari, per le strade delle città, a difesa dei cittadini. Ma saranno solo 2.500 (duemilacinquecento) per tutta l’Italia. E che faranno i centomila poliziotti, i centomila carabinieri, i centomila finanzieri? E’ ovvio che quei pochi soldati sono pura sceneggiata. Nel 1992, dopo l’uccisione di Falcone e Borsellino, i soldati mandati a presidiare solo la Sicilia furono ventimila.
A me i soldati schierati per le strade delle città, ed a difesa delle discariche pubbliche a Napoli, fanno venire in mente la famigerata legge Pica del 15 agosto 1863 contro il brigantaggio, quando il Sud d’Italia resisteva all’annessione piemontese. E’ vero ora non siamo ancora alla prescrizione di allora: «I colpevoli del reato di brigantaggio, i quali armata mano oppongono resistenza alla forza pubblica, saranno puniti colla fucilazione». Ma non si mai.
Che dire poi del divieto delle intercettazioni telefoniche, con la banale scusa della salvaguardia della privacy? Pensate voi che a qualcuno interessi se io per telefono mandi a fare in culo il mio dirigente del posto di lavoro o le corna che qualcuno possa mettere a sua moglie e viceversa? Le intercettazioni che interessano ai giudici sono quelle inerenti ai reati penali. E Berlusconi lo sa molte bene. Per questo vuole impedirle. Non sono le intercettazioni che bisogna impedire, ma i reati.
Berlusconi non vuole militarizzare solo le città, le discariche, le Procure, vuole militarizzare anche i giornali e l’opinione pubblica. I tre anni di galera a chi pubblica le intercettazioni significano in pratica togliere il controllo delle notizie da pubblicare ai direttori per affidarlo ai proprietari dei giornali.
Scrive Eugenio Scalfari ed io concordo con lui: «Questi provvedimenti stravolgono la Costituzione. Identificano di fatto lo Stato con il governo e il governo con il “premier”». Berlusconi si crede il Re Sole de “L’Etat c’est moi”. «Ma qui il sole non c'è – scrive ancora Scalfari –. C'è fanghiglia, cupidigia, avventatezza, viltà morale. Corteggiamento dell'opposizione. Montaggio di paure e di pulsioni. Picconamento quotidiano della Costituzione».
E gli italiani dormono. Ma attenti al risveglio, può essere durissimo. Può essere il risveglio d'un paese senza democrazia. Dominato dall'antipolitica. Dall'anti-Europa. Dall'anarchia degli indifferenti e dalla dittatura dei furboni.
Ed io, prima che per legge chiudano i blog che criticano Berlusconi, lo mando ancora una volta a fare in culo (metaforicamente). O se volete, più garbatamente, a quel paese, che spero non sia il mio.
10 giugno 2008
Brigantaggio lealismo repressione nel Mezzogiorno (1860-1870)
Nel 1984 fu allestita a Napoli una monumentale mostra sul brigantaggio meridionale, presso il Museo Pignatelli, dal 30 giugno al 18 novembre; organizzata dalla Soprintendenza per i beni culturali e storici di Napoli, in collaborazione con l’Archivio di Stato, la Biblioteca Nazionale, la Biblioteca Universitaria, la Società napoletana di Storia patria.
Per presentare e documentare la mostra fu pubblicato dall’editore Gaetano Macchiaroli, con il contributo del Banco di Napoli, un corposo catalogo di 330 pagine. Quel catalogo rimane a tutt’oggi uno strumento fondamentale per chi si interessa del fenomeno del brigantaggio meridionale nel primo decennio postunitario.
La premessa fu scritta da Giuseppe Galasso.
Seguono sette introduzioni tematiche sul brigantaggio. Alfonso Scirocco affronta il tema de Il brigantaggio e l’Unità d’Italia, Mario Buonajuto quello di Una ricerca archivistica, Ferruccio Diozzi di Una ricerca bibliografica, Maria Antonella Fusco de L’iconografia, Ugo Di Pace de La fotografia, Raffaele De Magistris de La letteratura, Sergio Riccio de L’opinione pubblica.
Galasso sostiene che al momento dell’unificazione del Sud al Nord l’urto fu violento, in quanto quei due mondi erano tanto diversi dal punto di vista antropologico-culturale. E senza dubbio il brigantaggio rappresentò la difficoltà più grave. Né le mene borboniche e le congiure clericali e reazionarie bastano a spiegare l’intenso pullulare di agitazioni e di lotte antiunitarie in quegli anni. Si trattò di una guerra sociale e di una guerra nazionale per bande. Le provocazioni al brigantaggio provenivano sia dall’azione del governo di Torino, ma anche dagli atteggiamenti e dai comportamenti di vecchie e nuove classi dirigenti e proprietarie del Mezzogiorno. Ma, conclude Galasso, «la ragione di una storia superiore condannava, comunque, il brigantaggio alla sconfitta radicale, che ad esso in pochi anni toccò».
Per Alfonso Scirocco il brigantaggio fu il risultato più appariscente del divario fra quello che il Mezzogiorno si aspettava nell’autunno ’60, e quello che era in grado di dare il nuovo governo sabaudo. Vera natura del brigantaggio è la ribellione endemica del mondo contadino, che trova nella crisi politica l’occasione per divampare. Negli anni ’60-61-62 migliaia di uomini si raccolgono sulle montagne, e si abituano ad una vita di stenti, ma anche di soddisfazioni per chi ha sofferto fame ed umiliazione ed ora si vede temuto e servito.
Mario Buonajuto mette in rilievo che con la ricerca archivistica si è cercato di evidenziare il legame tra brigantaggio e rivendicazioni contadine e quello tra brigantaggio e movimenti politici. Il brigante si attribuisce spesso la funzione di raddrizzatore di torti. Ma è anche vero che il brigantaggio meridionale rappresentò l’unica carta che i Borboni ritennero di avere per riguadagnare il regno perduto.
Ferruccio Diozzi afferma che dalla ricerca bibliografica risulta immediatamente evidente una netta lontananza dagli avvenimenti e dai problemi del Mezzogiorno che nei giornali torinesi degenera in aperto disprezzo per le popolazioni meridionali, sbrigativamente assimilate “in toto” ai briganti.
Per Maria Antonella Fusco l’iconografia coeva ai tempi in cui si svolsero i fatti del brigantaggio è principalmente un veicolo propagandistico usato dagli unitari per orientare verso la condanna e la deplorazione del brigantaggio.
Ugo Di Pace fa constatare che l’esplosione del brigantaggio post unitario coincide con la diffusione e l’uso della fotografia in larghi strati di popolazione. Di norma l’orientamento dei fotografi dell’epoca è filo-governativo-sabaudo. I briganti vengono rappresentati come il male da sconfiggere, una piaga sociale da eliminare. Committenti delle fotografie erano i generali sabaudi, che facevano documentare la sconfitta dei ribelli dopo un conflitto. Le fotografie dei briganti italiani rappresentano uno dei pochi casi al mondo in cui un ceto sociale emarginato diventa soggetto fotografico in modo così massiccio.
Raffaele De Magistris documenta la grande fioritura di libri sul brigantaggio nei primi anni del periodo post unitario. Si tratta in linea di massima di letteratura d’appendice non solo ideologicamente schematica e per lo più attestata sulle posizioni ufficiali delle classi dirigenti, ma soprattutto a basso costo e di rapidissimo consumo. Spesso le “storie” diventano una sequenza di episodi truci, sui quali si indugia morbosamente, e il brigante è uno psicopatico che instancabilmente squarta, si ciba di interiora umane, stupra gentili fanciulle. Rimane comunque il canonico principio che il brigante depreda i ricchi per donare ai poveri.
Sergio Riccio infine ci confessa che «la molla che ci ha fatto scegliere il brigantaggio successivo all’Unità d’Italia come soggetto di una mostra è stata appunto la curiosità intellettuale di conoscere meglio le nostre origini, capire e, per quanto possibile, vedere cosa ci fosse alla base della mai risolta “questione meridionale”.
Ma chi erano in briganti? Su 10 briganti 8 erano lavoratori della terra, e gli altri due potevano essere, nell’ordine, operai, negozianti, religiosi, disoccupati, studenti, cocchieri, facchini.
Gli studi sul brigantaggio non si sono mai fermati e continuano tuttora. Si è continuato a scavare nella memoria collettiva e negli archivi, producendo molte storie locali e seri studi complessivi.
Nella mostra di Napoli furono schedati ed esposti 640 pezzi, non tutti però riprodotti nel catalogo. Si tratta di piante corografiche e topografiche, disegni, decreti, ordinanze, rapporti, biglietti di ricatto, suppliche, verbali di processi, relazioni, memorie, liste di fuorbando, libri, giornali, manifesti, statistiche, figurini, stampe, quadri, fotografie, telegrammi, illustrazioni satiriche, poesie, opere teatrali, diari, canti.
Brigantaggio lealismo repressione nel Mezzogiorno (1860-1870), Catalogo - Mostra presso Museo Diego Aragona Pignatelli Cortes - Napoli - 30 giugno / 18 novembre 1984, Gaetano Macchiaroli editore, Napoli 1984, pp. 330
Per presentare e documentare la mostra fu pubblicato dall’editore Gaetano Macchiaroli, con il contributo del Banco di Napoli, un corposo catalogo di 330 pagine. Quel catalogo rimane a tutt’oggi uno strumento fondamentale per chi si interessa del fenomeno del brigantaggio meridionale nel primo decennio postunitario.
La premessa fu scritta da Giuseppe Galasso.
Seguono sette introduzioni tematiche sul brigantaggio. Alfonso Scirocco affronta il tema de Il brigantaggio e l’Unità d’Italia, Mario Buonajuto quello di Una ricerca archivistica, Ferruccio Diozzi di Una ricerca bibliografica, Maria Antonella Fusco de L’iconografia, Ugo Di Pace de La fotografia, Raffaele De Magistris de La letteratura, Sergio Riccio de L’opinione pubblica.
Galasso sostiene che al momento dell’unificazione del Sud al Nord l’urto fu violento, in quanto quei due mondi erano tanto diversi dal punto di vista antropologico-culturale. E senza dubbio il brigantaggio rappresentò la difficoltà più grave. Né le mene borboniche e le congiure clericali e reazionarie bastano a spiegare l’intenso pullulare di agitazioni e di lotte antiunitarie in quegli anni. Si trattò di una guerra sociale e di una guerra nazionale per bande. Le provocazioni al brigantaggio provenivano sia dall’azione del governo di Torino, ma anche dagli atteggiamenti e dai comportamenti di vecchie e nuove classi dirigenti e proprietarie del Mezzogiorno. Ma, conclude Galasso, «la ragione di una storia superiore condannava, comunque, il brigantaggio alla sconfitta radicale, che ad esso in pochi anni toccò».
Per Alfonso Scirocco il brigantaggio fu il risultato più appariscente del divario fra quello che il Mezzogiorno si aspettava nell’autunno ’60, e quello che era in grado di dare il nuovo governo sabaudo. Vera natura del brigantaggio è la ribellione endemica del mondo contadino, che trova nella crisi politica l’occasione per divampare. Negli anni ’60-61-62 migliaia di uomini si raccolgono sulle montagne, e si abituano ad una vita di stenti, ma anche di soddisfazioni per chi ha sofferto fame ed umiliazione ed ora si vede temuto e servito.
Mario Buonajuto mette in rilievo che con la ricerca archivistica si è cercato di evidenziare il legame tra brigantaggio e rivendicazioni contadine e quello tra brigantaggio e movimenti politici. Il brigante si attribuisce spesso la funzione di raddrizzatore di torti. Ma è anche vero che il brigantaggio meridionale rappresentò l’unica carta che i Borboni ritennero di avere per riguadagnare il regno perduto.
Ferruccio Diozzi afferma che dalla ricerca bibliografica risulta immediatamente evidente una netta lontananza dagli avvenimenti e dai problemi del Mezzogiorno che nei giornali torinesi degenera in aperto disprezzo per le popolazioni meridionali, sbrigativamente assimilate “in toto” ai briganti.
Per Maria Antonella Fusco l’iconografia coeva ai tempi in cui si svolsero i fatti del brigantaggio è principalmente un veicolo propagandistico usato dagli unitari per orientare verso la condanna e la deplorazione del brigantaggio.
Ugo Di Pace fa constatare che l’esplosione del brigantaggio post unitario coincide con la diffusione e l’uso della fotografia in larghi strati di popolazione. Di norma l’orientamento dei fotografi dell’epoca è filo-governativo-sabaudo. I briganti vengono rappresentati come il male da sconfiggere, una piaga sociale da eliminare. Committenti delle fotografie erano i generali sabaudi, che facevano documentare la sconfitta dei ribelli dopo un conflitto. Le fotografie dei briganti italiani rappresentano uno dei pochi casi al mondo in cui un ceto sociale emarginato diventa soggetto fotografico in modo così massiccio.
Raffaele De Magistris documenta la grande fioritura di libri sul brigantaggio nei primi anni del periodo post unitario. Si tratta in linea di massima di letteratura d’appendice non solo ideologicamente schematica e per lo più attestata sulle posizioni ufficiali delle classi dirigenti, ma soprattutto a basso costo e di rapidissimo consumo. Spesso le “storie” diventano una sequenza di episodi truci, sui quali si indugia morbosamente, e il brigante è uno psicopatico che instancabilmente squarta, si ciba di interiora umane, stupra gentili fanciulle. Rimane comunque il canonico principio che il brigante depreda i ricchi per donare ai poveri.
Sergio Riccio infine ci confessa che «la molla che ci ha fatto scegliere il brigantaggio successivo all’Unità d’Italia come soggetto di una mostra è stata appunto la curiosità intellettuale di conoscere meglio le nostre origini, capire e, per quanto possibile, vedere cosa ci fosse alla base della mai risolta “questione meridionale”.
Ma chi erano in briganti? Su 10 briganti 8 erano lavoratori della terra, e gli altri due potevano essere, nell’ordine, operai, negozianti, religiosi, disoccupati, studenti, cocchieri, facchini.
Gli studi sul brigantaggio non si sono mai fermati e continuano tuttora. Si è continuato a scavare nella memoria collettiva e negli archivi, producendo molte storie locali e seri studi complessivi.
Nella mostra di Napoli furono schedati ed esposti 640 pezzi, non tutti però riprodotti nel catalogo. Si tratta di piante corografiche e topografiche, disegni, decreti, ordinanze, rapporti, biglietti di ricatto, suppliche, verbali di processi, relazioni, memorie, liste di fuorbando, libri, giornali, manifesti, statistiche, figurini, stampe, quadri, fotografie, telegrammi, illustrazioni satiriche, poesie, opere teatrali, diari, canti.
Brigantaggio lealismo repressione nel Mezzogiorno (1860-1870), Catalogo - Mostra presso Museo Diego Aragona Pignatelli Cortes - Napoli - 30 giugno / 18 novembre 1984, Gaetano Macchiaroli editore, Napoli 1984, pp. 330
7 giugno 2008
La Chiesa preferisce i politici laici puttanieri
L’incontro avvenuto ieri in Vaticano tra Papa Benedetto XVI e l’Unto Berlusconi IV ne è una testimonianza.
Silvio Berlusconi è stato intervistato dal giornale della Cei l’Avvenire e dall’organo della Santa Sede L’Osservatore Romano, Romano Prodi invece no.
Romano Prodi da capo del governo ha subito continue e quasi quotidiane critiche dalle gerarchie cattoliche, il governo di Berlusconi invece viene osannato ed incensato spudoratamente e direttamente da Benedetto XVI.
Alla domanda: «Perché la Curia Vaticana, ai politici cattolici praticanti e osservanti dei comandamenti, preferisce i politici laici, magari puttanieri, ma osservanti?», Raffaele Crovi, nel suo ultimo romanzo Nerofumo, fa rispondere da un monsignore: «Perché i cattolici praticanti, ritenendosi parte della Chiesa, mettono bocca nelle scelte delle autorità ecclesiastiche, mentre i laici, senza far domande, mettono mano alla borsa».
E Berlusconi a vantaggio della Chiesa romana, non alla sua borsa ovviamente, ma a quella dello Stato italiano, ha già largamente messo mano nei precedenti suoi governi e più ancora si ripromette di fare d’ora in poi. Aspettiamoci quindi una pioggia di aiuti di Stato alla Chiesa in materia di fisco, finanziamenti alle scuole ed enti sanitari cattolici, altre assunzioni nella scuola statale con falsi concorsi di professori di religione cattolica cristiana romana.
L’unto del signore Berlusconi sarà ben contento di dare tanto al monaco questuante Ratzinger.
A noi laici non ci resta che alzare bandiera bianca. O forse no.
Silvio Berlusconi è stato intervistato dal giornale della Cei l’Avvenire e dall’organo della Santa Sede L’Osservatore Romano, Romano Prodi invece no.
Romano Prodi da capo del governo ha subito continue e quasi quotidiane critiche dalle gerarchie cattoliche, il governo di Berlusconi invece viene osannato ed incensato spudoratamente e direttamente da Benedetto XVI.
Alla domanda: «Perché la Curia Vaticana, ai politici cattolici praticanti e osservanti dei comandamenti, preferisce i politici laici, magari puttanieri, ma osservanti?», Raffaele Crovi, nel suo ultimo romanzo Nerofumo, fa rispondere da un monsignore: «Perché i cattolici praticanti, ritenendosi parte della Chiesa, mettono bocca nelle scelte delle autorità ecclesiastiche, mentre i laici, senza far domande, mettono mano alla borsa».
E Berlusconi a vantaggio della Chiesa romana, non alla sua borsa ovviamente, ma a quella dello Stato italiano, ha già largamente messo mano nei precedenti suoi governi e più ancora si ripromette di fare d’ora in poi. Aspettiamoci quindi una pioggia di aiuti di Stato alla Chiesa in materia di fisco, finanziamenti alle scuole ed enti sanitari cattolici, altre assunzioni nella scuola statale con falsi concorsi di professori di religione cattolica cristiana romana.
L’unto del signore Berlusconi sarà ben contento di dare tanto al monaco questuante Ratzinger.
A noi laici non ci resta che alzare bandiera bianca. O forse no.
3 giugno 2008
Il Divo, film di Paolo Sorrentino
Giulio Andreotti è nato a Roma il 14 gennaio 1919. Ha quindi 89 anni ed è ancora vivo e lucido.
Del film che Paolo Sorrentino ha girato su di lui gli è stata fatta una proiezione privata. Ovviamente non è rimasto per niente soddisfatto. «E’ una mascalzonata, è cattivo, è maligno», ha detto. Ma non sporgerà querela. «Se uno fa politica pare che essere ignorato sia peggio che essere criticato. Dunque...». Il divino Giulio ha perdonato.
Nonostante nel film sia stato chiamato il gobbo, la volpe, Moloch, la salamandra, l’uomo delle tenebre, Belzebù.
Andreotti passa attraverso morti misteriose (Pecorelli, Calvi, Sindona, Ambrosoli, e soprattutto Moro) nelle quali lo si riterrà coinvolto. Si intenta contro di lui un processo per collusione con la mafia, ma ne esce assolto.
Cinema politico, che fa riflettere.
Magistrale l’interpretazione di Toni Servillo.
Trama
Brigate Rosse; Democrazia Cristiana; Loggia P2; Aldo Moro. Un glossario italiano apre il film che ha vinto il Premio Speciale al 61° Festival di Cannes. Perché per capire questa Italia, il pubblico, internazionale e non, deve avere bene in mente alcune parole e il loro significato. Questo vocabolario ha come comune denominatore un uomo che per quarant'anni e oltre ha rappresentato il potere nel nostro paese: Giulio Andreotti, sette volte Presidente del Consiglio, esponente di spicco della DC dal giorno della sua fondazione, senatore a vita; indagato, processato e assolto per associazione mafiosa; ambiguo, impassibile, ironico e tanto tanto altro ancora.
Doveva accadere prima o poi, che qualcuno cedesse alla tentazione di raccontarlo. Per fortuna lo ha fatto Paolo Sorrentino, grandioso pensatore in immagini, con un film che non è una biografia nel senso solito e stanco del termine, ma un'opera bizzarra, originale, lontana anni luce sia dallo statico biografismo che dalla satira pecoreccia, entrambi di stampo televisivo."Il divo", prodotto dalla Indigo Film di Francesca Cima e Nicola Giuliano (David di Donatello quest'anno con "La ragazza del lago" di Andrea Molaioli e produttori storici di Sorrentino), è una lezione di stile da parte del regista e sceneggiatore napoletano, che riesce a tenere le fila di una materia immensa, fatta di tanti "prima" e altrettanti "dopo", lasciando passare infinite informazioni sulle dinamiche del potere politico senza tralasciare la dimensione privata dell'uomo. Andreotti, chiuso nel suo appartamento perennemente buio, a combattere l'insonnia e i mal di testa, a pregare, è già di per sé talmente "personaggio" che non ha bisogno di ulteriori caratterizzazioni (il "qualcosa in più" è lo straordinario talento di Toni Servillo). Le orecchie un po' piegate, la gobba, l'uscire di scena camminando all'indietro, le battute pungenti: tutto materiale attinto dalla realtà. Sarebbe stato credibile un personaggio così se fosse stato frutto di invenzione e non fosse, invece, esistito veramente? Il divo tanto più è grottesco quanto più è reale. Un paradosso che, pensato in relazione a cinquant'anni di storia italiana, mette i brividi.
"Il divo" è un film da godere in tutte le sue dimensioni, non ultima quella tragicamente divertente. Da non perdere, non perché ha vinto un premio a Cannes ma perché è un gran film sul potere e sulla verità.
[Alessia Lepore in http://www.icine.it/fmm/articoli.php?id=30922]
Crediti
Regia: Paolo Sorrentino
Sceneggiatura: Paolo Sorrentino
Fotografia: Luca Bigazzi
Montaggio: Cristiano Travaglioli
Musiche: Teho Teardo
Paese: Italia/Francia
Anno: 2008
Durata: 110'
Produzione: Indigo Film, Lucky Red, Parco Film, Babe Film (Francia
Distribuzione (Italia): Lucky Red
Uscita nelle sale italiane: 28 maggio 2008 in 340 copie
Sito ufficiale: www.luckyred.it/ildivo/
Interpreti e personaggi
Toni Servillo: Giulio Andreotti
Anna Bonaiuto: Livia Danese
Giulio Bosetti: Eugenio Scalfari
Flavio Bucci: Franco Evangelisti
Carlo Buccirosso: Paolo Cirino Pomicino
Paolo Graziosi: Aldo Moro
Giorgio Colangeli: Salvo Lima
Alberto Cracco: Don Mario
Lorenzo Gioielli: Carmine Pecorelli
Gianfelice Imparato: Vincenzo Scotti
Massimo Popolizio: Vittorio Sbardella
Aldo Ralli: Giuseppe Ciarrapico
Giovanni Vettorazzo: Magistrato Scarpinato
Piera Degli Esposti: Signora Enea
Premi
Festival di Cannes 2008: Premio della giuria
Il Divo - Trailer e Video del Film
Del film che Paolo Sorrentino ha girato su di lui gli è stata fatta una proiezione privata. Ovviamente non è rimasto per niente soddisfatto. «E’ una mascalzonata, è cattivo, è maligno», ha detto. Ma non sporgerà querela. «Se uno fa politica pare che essere ignorato sia peggio che essere criticato. Dunque...». Il divino Giulio ha perdonato.
Nonostante nel film sia stato chiamato il gobbo, la volpe, Moloch, la salamandra, l’uomo delle tenebre, Belzebù.
Andreotti passa attraverso morti misteriose (Pecorelli, Calvi, Sindona, Ambrosoli, e soprattutto Moro) nelle quali lo si riterrà coinvolto. Si intenta contro di lui un processo per collusione con la mafia, ma ne esce assolto.
Cinema politico, che fa riflettere.
Magistrale l’interpretazione di Toni Servillo.
Trama
Brigate Rosse; Democrazia Cristiana; Loggia P2; Aldo Moro. Un glossario italiano apre il film che ha vinto il Premio Speciale al 61° Festival di Cannes. Perché per capire questa Italia, il pubblico, internazionale e non, deve avere bene in mente alcune parole e il loro significato. Questo vocabolario ha come comune denominatore un uomo che per quarant'anni e oltre ha rappresentato il potere nel nostro paese: Giulio Andreotti, sette volte Presidente del Consiglio, esponente di spicco della DC dal giorno della sua fondazione, senatore a vita; indagato, processato e assolto per associazione mafiosa; ambiguo, impassibile, ironico e tanto tanto altro ancora.
Doveva accadere prima o poi, che qualcuno cedesse alla tentazione di raccontarlo. Per fortuna lo ha fatto Paolo Sorrentino, grandioso pensatore in immagini, con un film che non è una biografia nel senso solito e stanco del termine, ma un'opera bizzarra, originale, lontana anni luce sia dallo statico biografismo che dalla satira pecoreccia, entrambi di stampo televisivo."Il divo", prodotto dalla Indigo Film di Francesca Cima e Nicola Giuliano (David di Donatello quest'anno con "La ragazza del lago" di Andrea Molaioli e produttori storici di Sorrentino), è una lezione di stile da parte del regista e sceneggiatore napoletano, che riesce a tenere le fila di una materia immensa, fatta di tanti "prima" e altrettanti "dopo", lasciando passare infinite informazioni sulle dinamiche del potere politico senza tralasciare la dimensione privata dell'uomo. Andreotti, chiuso nel suo appartamento perennemente buio, a combattere l'insonnia e i mal di testa, a pregare, è già di per sé talmente "personaggio" che non ha bisogno di ulteriori caratterizzazioni (il "qualcosa in più" è lo straordinario talento di Toni Servillo). Le orecchie un po' piegate, la gobba, l'uscire di scena camminando all'indietro, le battute pungenti: tutto materiale attinto dalla realtà. Sarebbe stato credibile un personaggio così se fosse stato frutto di invenzione e non fosse, invece, esistito veramente? Il divo tanto più è grottesco quanto più è reale. Un paradosso che, pensato in relazione a cinquant'anni di storia italiana, mette i brividi.
"Il divo" è un film da godere in tutte le sue dimensioni, non ultima quella tragicamente divertente. Da non perdere, non perché ha vinto un premio a Cannes ma perché è un gran film sul potere e sulla verità.
[Alessia Lepore in http://www.icine.it/fmm/articoli.php?id=30922]
Crediti
Regia: Paolo Sorrentino
Sceneggiatura: Paolo Sorrentino
Fotografia: Luca Bigazzi
Montaggio: Cristiano Travaglioli
Musiche: Teho Teardo
Paese: Italia/Francia
Anno: 2008
Durata: 110'
Produzione: Indigo Film, Lucky Red, Parco Film, Babe Film (Francia
Distribuzione (Italia): Lucky Red
Uscita nelle sale italiane: 28 maggio 2008 in 340 copie
Sito ufficiale: www.luckyred.it/ildivo/
Interpreti e personaggi
Toni Servillo: Giulio Andreotti
Anna Bonaiuto: Livia Danese
Giulio Bosetti: Eugenio Scalfari
Flavio Bucci: Franco Evangelisti
Carlo Buccirosso: Paolo Cirino Pomicino
Paolo Graziosi: Aldo Moro
Giorgio Colangeli: Salvo Lima
Alberto Cracco: Don Mario
Lorenzo Gioielli: Carmine Pecorelli
Gianfelice Imparato: Vincenzo Scotti
Massimo Popolizio: Vittorio Sbardella
Aldo Ralli: Giuseppe Ciarrapico
Giovanni Vettorazzo: Magistrato Scarpinato
Piera Degli Esposti: Signora Enea
Premi
Festival di Cannes 2008: Premio della giuria
Il Divo - Trailer e Video del Film
1 giugno 2008
Gomorra, film di Matteo Garrone
Il termine Gomorra, città biblica distrutta da Dio, viene qui usato come sinonimo di corruzione e decadimento morale e umano.
A vedere il film in sala eravamo solo una diecina di spettatori. Nell’intervallo una signora ha commentato: «Mancano completamente lo Stato, la famiglia, la scuola, la Chiesa». Dalla loro mancanza scaturisce la camorra napoletana.
Nel film si rappresenta un’altra società, diversa da quella ufficiale. E’ una rappresentazione quasi asettica, senza condanna e senza accettazione. E’ la vita reale.
Il film segue quattro vicende parallele, quelle di Pasquale il sarto, la faida di Scampia, lo smaltimento dei rifiuti tossici, due ragazzi che cercano di mettersi in proprio. [Vedi Wikipedia]
Ho comprato, ma ancora non letto, l’omonimo libro di Roberto Saviano, da cui è tratto il film.
Trama
Totò ha tredici anni, aiuta la madre a portare la spesa a domicilio nelle case del vicinato e sogna di affiancare i grandi, quelli che girano in macchina invece che in motorino, che indossano i giubbotti antiproiettile, che contano i soldi e i loro morti. Ma diventare grandi, a Scampia, significa farli i morti, scambiare l'adolescenza con una pistola. O magari, come accade a Marco e Ciro, trovare un arsenale, sparare cannonate che ti fanno sentire invincibile. Puoi mettere paura, ma c’è sempre chi ne ha meno di te. Impossibile fuggire, si sta da una parte o dall'altra, e può accadere che la guerra immischi anche Don Ciro (Imparato), una vita da tranquillo porta-soldi, perché gli ordini sono mutati, il clan s'è spezzato in due. Si può cambiare mestiere, passare come fa Pasquale dalla confezione di abiti d'alta moda in una fabbrica in nero a guidare i camion della camorra in giro per l'Italia, ma non si può uscire dal Sistema che tutto sa e tutto controlla. Quando Roberto si lamenta di un posto redditizio e sicuro nel campo dello smaltimento dei rifiuti tossici, Franco (Servillo), il suo datore di lavoro, lo ammonisce: non creda di essere migliore degli altri. Funziona così, non c’è niente da fare. Matteo Garrone porta sullo schermo Gomorra, libro-scandalo di Roberto Saviano che in Italia ha venduto oltre un milione di copie, aprendo il sipario sulla luce artificiale e ustionante di una lampada per camorristi vanitosi ed esaltati. Il sole non illumina più le province di Napoli e Caserta, impossibile rischiarare questa terra buia e straniera al punto che gli italiani hanno bisogno dei sottotitoli per decifrarla. Siamo in un altro paese: all'inferno. Che non si trova nel centro della terra, ma solo pochi metri giù dalla statale o sotto la coltivazione delle pesche che mangiamo tutti, nutrite di scorie letali, trasformate in bombe che seminano tumori con la compiacenza dei rispettabili industriali del nord. Nessun barlume di bellezza dentro questo buio fitto sotto il sole; forse la bellezza è nata qui, per caso o per errore, ma è volata lontano, addosso a Scarlett Johansson, col risultato che chi l'ha partorita è rimasto ancora più solo ed impotente. Il film di Garrone è crudo e angosciante, ripreso dal vero, musicato dal suono delle grida e degli spari di Scampia. Una volta si diceva "giusto", quando dire "bello" non aveva senso. Giustissimo, dunque. Del libro, il film sceglie alcuni fili, li intreccia, s'impone come uno sciroppo avvelenato, senza la possibilità di voltar pagina o sospendere la lettura. Del libro, soprattutto, sposa il punto di vista, da dentro, e tuttavia inevitabilmente fuori, in salvo. "Ma - scrive Saviano - osservare il buco, tenerlo davanti insomma, dà una sensazione strana. Una pesantezza ansiosa. Come avere la verità sullo stomaco". Gomorra, sullo stomaco, pesa come un macigno. Solo una ruspa potrebbe sollevarlo, per "sversarlo" altrove e chiudere in circolo vizioso, come il suono del film.
Da: http://www.mymovies.it/dizionario/recensione.asp?id=46991
Crediti
Regia: Matteo Garrone
Soggetto: Roberto Saviano (romanzo)
Sceneggiatura: Matteo Garrone, Massimo Gaudioso, Roberto Saviano, Maurizio Braucci, Ugo Chiti, Gianni Di Gregorio
Casa di produzione: Fandango, in collaborazione con Rai Cinema e SKY, e con il supporto del Ministero dei Beni Culturali
Paese: Italia
Anno: 2008
Durata: 135'
Distribuzione (Italia): 01 Distribuzione
Fotografia: Marco Onorato
Montaggio: Marco Spoletini
Scenografia: Paolo Bonfini
Interpreti e personaggi
Toni Servillo: Franco
Gianfelice Imparato: Don Ciro
Maria Nazionale: Maria
Salvatore Cantalupo: Pasquale
Gigio Morra: Iavarone
Salvatore Abbruzzese: Totò
Marco Macor: Marco
Ciro Petrone: Ciro (detto Pisellì)
Carmine Paternoster: Roberto
Gaetano Altamura: Gaetano
Italo Renda: Italo
Salvatore Ruocco: Boxer
Simone Sacchettino: Simone
Vincenzo Fabricino: Pitbull
Salvatore Striano: Scissionista
Vincenzo Bombolo: Bombolone
Alfonso Santagata: Dante Serini
Massimo Emilio Gobbi: Imprenditore
Salvatore Caruso: Responsabile cava
Italo Celoro: Contadino
Manuela Lo Sicco: moglie di Pasquale
Zhang Ronghua: Xian
Giovanni Venosa: Giovanni
Vittorio Russo: Pirata
Bernardino Terracciano: Zi' Bernardino
Premi
Festival di Cannes 2008: Grand Prix Speciale della Giuria, Premio Arcobaleno Latino
Trailer Gomorra
A vedere il film in sala eravamo solo una diecina di spettatori. Nell’intervallo una signora ha commentato: «Mancano completamente lo Stato, la famiglia, la scuola, la Chiesa». Dalla loro mancanza scaturisce la camorra napoletana.
Nel film si rappresenta un’altra società, diversa da quella ufficiale. E’ una rappresentazione quasi asettica, senza condanna e senza accettazione. E’ la vita reale.
Il film segue quattro vicende parallele, quelle di Pasquale il sarto, la faida di Scampia, lo smaltimento dei rifiuti tossici, due ragazzi che cercano di mettersi in proprio. [Vedi Wikipedia]
Ho comprato, ma ancora non letto, l’omonimo libro di Roberto Saviano, da cui è tratto il film.
Trama
Totò ha tredici anni, aiuta la madre a portare la spesa a domicilio nelle case del vicinato e sogna di affiancare i grandi, quelli che girano in macchina invece che in motorino, che indossano i giubbotti antiproiettile, che contano i soldi e i loro morti. Ma diventare grandi, a Scampia, significa farli i morti, scambiare l'adolescenza con una pistola. O magari, come accade a Marco e Ciro, trovare un arsenale, sparare cannonate che ti fanno sentire invincibile. Puoi mettere paura, ma c’è sempre chi ne ha meno di te. Impossibile fuggire, si sta da una parte o dall'altra, e può accadere che la guerra immischi anche Don Ciro (Imparato), una vita da tranquillo porta-soldi, perché gli ordini sono mutati, il clan s'è spezzato in due. Si può cambiare mestiere, passare come fa Pasquale dalla confezione di abiti d'alta moda in una fabbrica in nero a guidare i camion della camorra in giro per l'Italia, ma non si può uscire dal Sistema che tutto sa e tutto controlla. Quando Roberto si lamenta di un posto redditizio e sicuro nel campo dello smaltimento dei rifiuti tossici, Franco (Servillo), il suo datore di lavoro, lo ammonisce: non creda di essere migliore degli altri. Funziona così, non c’è niente da fare. Matteo Garrone porta sullo schermo Gomorra, libro-scandalo di Roberto Saviano che in Italia ha venduto oltre un milione di copie, aprendo il sipario sulla luce artificiale e ustionante di una lampada per camorristi vanitosi ed esaltati. Il sole non illumina più le province di Napoli e Caserta, impossibile rischiarare questa terra buia e straniera al punto che gli italiani hanno bisogno dei sottotitoli per decifrarla. Siamo in un altro paese: all'inferno. Che non si trova nel centro della terra, ma solo pochi metri giù dalla statale o sotto la coltivazione delle pesche che mangiamo tutti, nutrite di scorie letali, trasformate in bombe che seminano tumori con la compiacenza dei rispettabili industriali del nord. Nessun barlume di bellezza dentro questo buio fitto sotto il sole; forse la bellezza è nata qui, per caso o per errore, ma è volata lontano, addosso a Scarlett Johansson, col risultato che chi l'ha partorita è rimasto ancora più solo ed impotente. Il film di Garrone è crudo e angosciante, ripreso dal vero, musicato dal suono delle grida e degli spari di Scampia. Una volta si diceva "giusto", quando dire "bello" non aveva senso. Giustissimo, dunque. Del libro, il film sceglie alcuni fili, li intreccia, s'impone come uno sciroppo avvelenato, senza la possibilità di voltar pagina o sospendere la lettura. Del libro, soprattutto, sposa il punto di vista, da dentro, e tuttavia inevitabilmente fuori, in salvo. "Ma - scrive Saviano - osservare il buco, tenerlo davanti insomma, dà una sensazione strana. Una pesantezza ansiosa. Come avere la verità sullo stomaco". Gomorra, sullo stomaco, pesa come un macigno. Solo una ruspa potrebbe sollevarlo, per "sversarlo" altrove e chiudere in circolo vizioso, come il suono del film.
Da: http://www.mymovies.it/dizionario/recensione.asp?id=46991
Crediti
Regia: Matteo Garrone
Soggetto: Roberto Saviano (romanzo)
Sceneggiatura: Matteo Garrone, Massimo Gaudioso, Roberto Saviano, Maurizio Braucci, Ugo Chiti, Gianni Di Gregorio
Casa di produzione: Fandango, in collaborazione con Rai Cinema e SKY, e con il supporto del Ministero dei Beni Culturali
Paese: Italia
Anno: 2008
Durata: 135'
Distribuzione (Italia): 01 Distribuzione
Fotografia: Marco Onorato
Montaggio: Marco Spoletini
Scenografia: Paolo Bonfini
Interpreti e personaggi
Toni Servillo: Franco
Gianfelice Imparato: Don Ciro
Maria Nazionale: Maria
Salvatore Cantalupo: Pasquale
Gigio Morra: Iavarone
Salvatore Abbruzzese: Totò
Marco Macor: Marco
Ciro Petrone: Ciro (detto Pisellì)
Carmine Paternoster: Roberto
Gaetano Altamura: Gaetano
Italo Renda: Italo
Salvatore Ruocco: Boxer
Simone Sacchettino: Simone
Vincenzo Fabricino: Pitbull
Salvatore Striano: Scissionista
Vincenzo Bombolo: Bombolone
Alfonso Santagata: Dante Serini
Massimo Emilio Gobbi: Imprenditore
Salvatore Caruso: Responsabile cava
Italo Celoro: Contadino
Manuela Lo Sicco: moglie di Pasquale
Zhang Ronghua: Xian
Giovanni Venosa: Giovanni
Vittorio Russo: Pirata
Bernardino Terracciano: Zi' Bernardino
Premi
Festival di Cannes 2008: Grand Prix Speciale della Giuria, Premio Arcobaleno Latino
Trailer Gomorra
Iscriviti a:
Post (Atom)