Le
storie del volume, scrive Valentino Romano nell’introduzione, al pari di quelle
contenute in “Nacquero contadini,
morirono briganti” di cui queste sono la naturale prosecuzione, sono tutte
estrapolate dalle carte d’archivio che narrano la tragica epopea del mondo
contadino meridionale, travolto dallo tsunami politico e istituzionale che nel
1860 determinò la nascita della “Nuova Italia”. Sono storie di “ordinaria”
violenza del potere e di “straordinaria” violenza contro il potere, storie di
uomini e donne normali che vivono un periodo che normale non è, storie nelle
quali pulsa il cuore antico del Sud che chiede di essere raccontato ma soprattutto
di essere compreso e rispettato.
Le microstorie, scrive Enzo Di Brango nella
postfazione, anche se pervase da una vena scherzosa, travalicano i brevi cenni
biografici dei protagonisti e permettono una ricostruzione dal basso della
grande storia. Ma anche ci consentono di guardare, con occhio critico, a
vicende e problemi dei giorni nostri.
Qui sono raccolte principalmente le
malefatte dei piemontesi invasori nel loro agire quotidiano contro la
maggioranza degli abitanti del Sud. Ma sono anche raccolti brani di documenti
che richiamano fatti più generali.
Nell’isola di Malta per esempio, dove fino
al 1859 hanno trovato rifugio numerosi fuorusciti antiborbonici, dal 1860 in
poi si concentrano tanti protagonisti della reazione antiunitaria. Secondo Francesco
Astengo, uomo di fiducia del presidente del consiglio Ricasoli, mandato
nell’isola per controllare da vicino la situazione, gli abitanti si suddividono
in autonomisti (il gruppo più numeroso che comprende commercianti e possidenti,
nonché parte della nobiltà), borbonici (buona parte del clero e della nobiltà,
oltre impiegati civili e militari, e gran numero di coloro cui la dinastia
borbonica “aveva dato i mezzi di vivere grassamente, rubando ed angariando le
popolazioni”), ed unionisti (comprendente tutte le gradazioni dei liberali,
spesso in lotta tra di loro).
Il beneventano è una delle zone del Sud
nella quale maggiormente si manifestano la prepotenza e la violenza dei
militari piemontesi. Interi paesi e villaggi vengono bruciati, dando vita a
feroci rappresaglie; fra essi i più famosi sono quelli di Pontelandolfo e
Casalduni. Prima di incendiarli furono eseguiti in essi stupri, massacri,
saccheggi. L’autore Romano scrive, con sarcasmo, che l’esercito liberatore
sabaudo liberò i meridionali perfino dei propri averi.
Con il solito sarcasmo, partendo sempre da
documenti, vengono anche descritti i “centri benessere” del nord dove venivano deportati
e decimati i soldati del disciolto esercito borbonico: San Maurizio e
Fenestrelle; parlando del vitto che lasciava a desiderare e delle scarpe troppo
piccole per i piedi degli uomini del Sud.
Si parla anche della guerra civile che l’esercito
piemontese portò contro il Sud. L’onorevole Petruccelli in una seduta
parlamentare di quegli anni di inizio unità d’Italia disse: “i briganti non
sono forse italiani?”.
Dalla pubblicazione del fitto epistolario
tra il barone Bettino Ricasoli, che allora fu presidente del consiglio, ed il
generale Alfonso La Marmora, comandante del corpo d’armata a Napoli e prefetto
di quella provincia, vien fuori la storia del vino “Lacrima Christi”, contenuta
in molte lettere. Le barbatelle delle piante che frutterà quel vino verranno
spedite da La Marmora a Ricasoli.
Non corre buon sangue fra il comandante
della divisione dei Carabinieri di Cosenza ed il colonnello Pietro Fumel,
mandato in Calabria alla fine del 1861 per stroncare il brigantaggio. Il colonnello
non è ben visto dal comandante per i suoi metodi feroci ed inumani con i quali
tratta gli abitanti del Sud. Se l’energico Fumel è rimpianto da qualcuno
avviene perché pagava molto bene, particolarmente gli Ufficiali. “Pecunia non
olet”, benché grondante di sangue spesso innocente, conclude Romano. I soldi
non puzzano.
Il brigante Giuseppe Nicola Summa, più conosciuto
come Ninco Nanco, costretto ad arrendersi, esce con le mani in alto ma un
caporale della Guardia Nazionale, Nicola Coviello, lo fredda a bruciapelo con
un colpo di fucile. Il Coviello è un uomo di Benedetto Corbo, un possidente di
Avigliano, non ingiustamente additato come uno dei principali manutengoli del
brigante: il sospetto è che Coviello abbia pensato bene di tappargli
definitivamente la bocca per evitare fastidi al suo padrone nell’ipotesi di
possibili rivelazioni del luogotenente di Carmine Crocco.
Per concludere mi piace trarre dal libro di
Valentino Romano due considerazioni. La giustizia, da un lato, giudica e
condanna i poveracci, dall’altra, giudica e assolve i potenti. Quella delle
spie e dei delatori – spesso doppiogiochisti dei quali si è fatto largo uso per
debellare il fenomeno del brigantaggio postunitario – è una storia tutta ancora
da scrivere.
Rocco Biondi
Rocco Biondi
Valentino Romano, Briganti e galantuomini, soldati e contadini. (Storie minime della Nuova Italia), Postfazione di Enzo Di Brango, Laruffa Editore, Reggio Calabria 2016, pp. 168, € 13,00