23 giugno 2007

Moana Pozzi: un mito

Come era prevedibile la trasmissione televisiva Enigma, condotta da Corrado Augias e mandata in onda ieri 22 giugno 2007 su Rai Tre, non ha fugato nessun dubbio sulla via e la morte di Moana Pozzi. Tutti i partecipanti hanno confermato le proprie posizioni, contraddittorie fra di loro. Né il conduttore è riuscito a trovare una superiore mediazione che potesse essere accettata da tutti.
Moana è veramente morta il 15 settembre 1994, nell’ospedale Hotel de Dieu a Lione, come ha affermato la madre? O è ancora viva? Molti giurano di averla vista e sentita dopo quella data.
Di che malattia sarebbe morta: tumore al fegato o Aids?
Che fine ha fatto il suo corpo? E’ stato cremato, come lei avrebbe voluto? In quei giorni l’impianto per le cremazioni nell’ospedale di Lione era guasto. Nessuno ha visto Moana da morta. Non esiste documento fotografico della sua morte. I funerali non sono mai stati celebrati.
Moana ha veramente sposato nel 1991 a Las Vegas il suo autista tuttofare, Antonio Di Ciesco? O è stato solo uno scherzo? Tale matrimonio è stato reso pubblico solo nel 1995, dopo la sua presunta morte, per questioni di eredità.
Che valore scientifico può avere l’affermazione del Di Ciesco di aver aiutato Moana a morire, facendo entrare piccole bolle d’aria attraverso la flebo?
Che valore hanno i documenti, mostrati da Brunetto Fantauzzi, che testimonierebbero di firme messe da Moana, dopo la sua presunta morte, su atti pubblici?
Il mistero sulla vita e la morte di Moana si infittisce sempre più.
Io, che mi auto proclamo fratello adottivo di Moana, propendo a credere che Moana non sia morta e che anzi resterà sempre viva.
Un mito non potrà mai morire. Di lei se ne parlerà sempre di più. Moana forse riapparirà.

Miei precedenti post su Moana
Moana Pozzi
Via Moana Pozzi - Cronache dal congresso radicale
Satira dissacrante
Moana Pozzi pornostar e spia
Moana tutta la verità - Libro
Moana Pozzi pensiero 1°: Chi sono
Moana Pozzi pensiero 2°: la giovinezza
Moana Pozzi pensiero 3°: la filosofia (collezionare vip)
Moana Pozzi pensiero 4°: educazione e sesso
Moana Pozzi pensiero 5°: sesso e pornografia
Moana Pozzi pensiero 6°: la solitudine
Moana Pozzi pensiero 7°: il corpo
Moana Pozzi pensiero 8°: la casa e i vestiti
Moana Pozzi pensiero 9°: il cinema
Moana Pozzi pensiero 10°: la morte

15 giugno 2007

Sogno banche alle cooperative

Ormai scrivo pochissimo in questo mio blog. Il poco tempo libero che ho lo dedico più a leggere (libri) che a scrivere post.
Confesso però che le tentazioni a scrivere sono molte e la rinuncia mi pesa.
Per esempio su due fatti di questi giorni avrei delle riflessioni da fare.
Sintetizzo.
Non vedo niente di strano che le cooperative italiane abbiano o aspirano ad avere delle proprie banche. Non vedo perché i tanti soci delle cooperative devono essere costretti ad arricchire le banche degli altri. Plaudo a D’Alema quando tifa per la scalata di Unipol alla Banca Nazionale del Lavoro, purtroppo poi fallita. Io sogno non una ma tante banche di proprietà delle cooperative. Per me il sogno più grande sarebbe se le cooperative rosse riuscissero a fregare la Banca Mediolanum a Berlusconi. Non capisco perché dobbiamo essere solo noi a farci fregare da lui e non il contrario.
Altra cosa che m’indigna è l’evasione delle tasse da parte dei tanti furbi. Sono un dipendente statale che viene spogliato preventivamente. Le cifre comunicate dall’Agenzia delle entrate sono astronomiche: 270 miliardi di euro vengono nascoste al fisco. 43 miliardi di euro di Iva quindi non vengono versati nelle casse dello Stato. Il dato si riferisce al 2004, anno in cui regnava Berlusconi., il teorizzatore della necessità di evadere il fisco e forse il più grande evasore fiscale. Alla faccia di noi fessi che per merito degli evasori siamo costretti a pagare il 10 per cento in più, rispetto al dovuto. Berlusconi e soci le tasse le fanno pagare solo a noi. Loro se le riducono. Sarebbe ora di cambiare.

10 giugno 2007

Analisi politica del brigantaggio attuale nell’Italia meridionale

Tommaso Cava de Gueva, capo dello stato maggiore borbonico a Capua durante l’assedio del 1860, scrisse questo piccolo libro di sole 60 pagine nel 1865, quando ancora infuriava la liberticida repressione del brigantaggio da parte dello stato italiano (piemontese). E’ una condanna spietata ed accorata degli illiberali metodi con cui si volle sradicare la rivolta popolare e di massa con la quale il sud invaso rivendicava dignità, libertà, lavoro.
Il libro si apre con una sfiduciata lettera dell’autore indirizzata al Re Vittorio Emanuele II. Io che vi scrivo - dice in apertura il Cava de Gueva al Re piemontese - non sono uno dei vostri adoratori, e lo confesso con quella lealtà che è il mio distintivo, perché la mia venerazione continua ad essere rivolta ai miei legittimi Sovrani napoletani. Poi mette in guardia il Re dal prestare attenzione agli adulatori che simulano amicizia e che invece tradiscono, per cupidigia ed ambizione. L’esperienza - dice sarcasticamente il Cava - dimostra che il traditore è come la donna corrotta: il difficile consiste nel primo fallo; preso questo, poi se ne prendono facilmente tantissimi altri, per necessità di professione.
I nuovi sovrani avrebbero tutto il diritto di governare ed essere stimati se rendessero migliori le condizioni di vita del popolo che hanno sottratto ai sovrani che hanno rovesciato. Ma così non è.
E si passa subito a parlare del tema del libro: il brigantaggio.
«Chi sono i briganti?», si chiede il Cava.
Se briganti sono quelli che combattono con le armi l’attuale governo che ha imposto con la forza l’unità d’Italia ed ha rovesciato i legittimi sovrani del Regno delle Due Sicilie, briganti sono stati pure i Fratelli Bandiera che nel 1844 tentarono di effettuare una sollevazione popolare nel Sud Italia contro i Borboni, brigante è stato pure Giuseppe Garibaldi che nel 1849 con le armi in pugno tentò invano d’invadere il Regno di Napoli, riuscendovi poi nel 1860, brigante è stato pure Carlo Pisacane che nel 1857 venne a sconvolgere l’ordine pubblico nel napoletano.
Giuseppe Mazzini scriveva: «La guerra d’insurrezione per bande, deve essere la guerra di tutte le nazioni che vogliono emanciparsi da un usurpatore straniero». Ed è appunto quello - scrive Cava - che stanno facendo i cosiddetti briganti contro i Savoia.
Caratteristica fondamentale del brigantaggio postunitario è stata la compartecipazione, quasi corale, di tutti i cittadini del Sud. Perché una banda di “briganti” possa reggere alla macchia in campagna ha bisogno dell’appoggio degli abitanti dei paesi presso i quali si aggira, altrimenti non potrebbe mantenersi oltre qualche mese. Le attuali bande invece stanno in campagna da cinque anni - scriveva appunto Cava nel 1865 - senza che 80.000 uomini di truppa piemontesi siano riuscite a distruggerle, anzi sono stati essi decimati. Dunque è chiaro che tali bande sono sorrette, appoggiate, agevolate e sostenute dagli abitanti dei paesi e delle città dove esse operano.
E fino ad un certo periodo, quanto più aumentava la repressione più aumentavano di numero le comitive brigantesche. Fucilazioni di massa, incendi di interi paesi, atrocità di ogni genere, legge Pica, hanno ottenuto come risultato di far aumentare la reazione ed il brigantaggio.
Ed anche tanti uomini cospicui per ingegno, per dottrina, per onestà e per popolarità - scrive ancora il Cava - guardano sogghignando le convulsioni di questo aborto che si chiama governo italiano.
Successivamente il Cava si lancia in una lunga serie di confronti (ne ho cantati ben 57), dai quali ne esce sempre vincitore il passato governo borbonico rispetto all’attuale governo piemontese. «Questo lungo paragone - scrive il Cava - però non significa punto che il passato governo era perfetto, poicchè esso poteva esser migliore. Ma per Dio! rispetto all’attuale, era qualche cosa di divino». Ed è per questo che molti uomini, pressati dalla miseria, dalla fame, dalla minaccia dell’esilio, dalla violazione di ciò che gli è caro, finisce col procurarsi un fucile per andare ad ingrossare le file della reazione.
Cava de Gueva fa l’elenco di quelli che lui ritiene essere eroi (e non briganti come ritengono quelli del governo piemontese): i Borjes, i Tristany, i Castagna, i Lagrande, gli Alonzi, i Coja, i Mattei, i Conte, i De Riviere, i Massot, i Basile, i De Trazegnies, i Caretti, i Zimmerman, i Valenzuela, i Rodriquez Melendez, gli Alvarez, i Patti, i de Riman, i Bockelman, i Cappuccio, i Sammartino, i d’Amore, i Molini, i Patrizi, i Matteis, i Duch, i Rosser, i Rufat, i Schettino, i Frosard, i Kalcreut, ed altri.
Tutto il libro di Tommaso Cava tende a dimostrare che l’«epiteto di brigante, nel suo vero schifoso significato», non è da attribuirsi ai guerriglieri del Sud che semplicemente si difendono, ma agli invasori piemontesi ed ai loro satelliti. Briganti furono loro.

Tommaso Cava, Analisi politica del brigantaggio attuale nell'Italia meridionale, Arnaldo Forni Editore 2004, Ristampa dell'edizione di Napoli 1865, pp. 60

1 giugno 2007

Preti pedofili: la Chiesa non sia omertosa

Se i preti si sposassero, forse scopando con le proprie mogli avrebbero meno voglia di allungare le mani sui bambini e sulle bambine che capitano loro a tiro. So che questa affermazione forse ci azzecca poco ed è poco documentabile. Ma credo che talvolta si arriva al sesso malato per mancanza di sesso sano. Ma questo non è problema nostro, ma della Chiesa. Chi sceglie (se veramente lo sceglie liberamente) di farsi prete sa che rinuncia a sposarsi. La castità è una scelta e la Chiesa si impone le scelte che vuole.
Ma la Chiesa sulla pedofilia dei preti non può mentire e non può essere omertosa. Come invece lo è stato e continua ad esserlo. Lo abbiamo sperimentato ieri sera, assistendo alla trasmissione televisiva di Michele Santoro Anno zero. Tutti abbiamo visto e sentito come il Monsignore presente in studio si arrampicava sugli specchi per giustificare il comportamento della Chiesa.
E’ ovvio che non tutti i preti sono pedofili. Ma fra i preti il fenomeno è molto più diffuso di quanto non si creda. Non è accettabile che la Chiesa voglia nascondere ed insabbiare, per salvarsi la faccia e la falsa coscienza.
Dal 2001 ad oggi su mille casi di pedofilia, perpetrati da preti, che sono arrivati al tribunale ecclesiastico solo per dieci è stato avviato un processo. La parola d’ordine della Chiesa è tacere, nascondere, minimizzare. Un simile comportamento, in pratica, potrebbe significare accettare. La Chiesa, minacciando la scomunica, impone a vittime e carnefici di pedofilia di non parlare, di non comunicare ad altri simile reato.
Per noi è inammissibile che chi viene a sapere di un tale reato, che è penalmente punibile, taccia, sia pure esso un prete. E’ assolutamente insufficiente che la punizione per i preti pedofili sia semplicemente essere spostati da una parrocchia ad un’altra, da un paese ad un altro. I preti pedofili devono essere spretati e messi nella condizione di non poter più reiterare il reato.
Altrimenti il comandamento «Non commettere atti impuri», nella pratica diventa «Commettete tutti gli atti impuri che volete, purché non si sappia». Su questo Papa Ratzinger dovrebbe dire qualcosa di più chiaro.