28 novembre 2018

Signora Ava, di Francesco Jovine


Il titolo Signora Ava non deriva da una protagonista del romanzo, né da un personaggio comprimario, ma da un canto popolare del Mezzogiorno, posto da Jovine ad epigrafe, che suona così: «O tiempo da Gnora ava / nu viecchio imperatore / a morte condannava / chi faceva a’mmore». Tale epigrafe, posta nella edizione del Tumminelli del 1942, scompare nell’edizione di Donzelli del 2010; edizione quest’ultima che è fedelmente esemplata su quella prefata e annotata nel 1967 da Dina Bertoni, la moglie di Jovine, nella collana «Letture per la Scuola Media» dell’Einaudi. Tale soppressione fa mancare il significato del titolo del romanzo. L’edizione di Donzelli ha la prefazione di Goffredo Fofi e la postfazione di Francesco D’Episcopo.
     Il romanzo è la ricostruzione storica della provincia molisana negli anni della spedizione garibaldina nel Mezzogiorno e dell’annessione al Regno d’Italia, osservata con gli occhi del mondo contadino, con giudizio negativo sul Risorgimento. Jovene proveniva dall’ambiente contadino.
     Signora Ava parla di cafoni ed è scritto dalla parte dei cafoni, scrive Fofi nella prefazione.
     Il romanzo si divide in due parti. Nella prima viene rappresentata la vita del paese Guardialfiera, dove è nato Jovine. Si narra della famiglia borghese dei de Risio: don Beniamino, il “Signor Zio”, un vecchio canonico, grasso e goloso; don Giovannino, il colonnello, ha vissuto l’epoca napoleonica e dirige la scuola del paese; don Eutichio, che è anche capo della polizia, dà a prestito ai contadini la semenza del grano da seminare; monsignor de Risio, al quale il prete don Matteo Tridone rivolge una supplica per fargli avere i soldi che gli spettano; Antonietta, figlia di don Eutichio, amerà Pietro e poi lo seguirà nella sua vita da brigante.
     Nella seconda parte viene narrata la vita dei briganti e delle loro donne, nell’anno 1860. Protagonisti sono il prete don Matteo Tridone e Pietro Veleno. Il primo riuscirà a riscattare la vita di povero prete incerto, consegnandosi ai soldati. Il secondo si trasformerà da servo dei de Risio in brigante. Ambedue, insieme ad Antonietta figlia dei padroni, entreranno nella grande Storia.
     Goffredo Fofi, nella introduzione, scrive che gli piace molto di più Signora Ava de Il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa. Ambedue gli autori ritengono che tutto deve cambiare affinché nulla cambi; ma la differenza è che Tommasi è un erede dei Gattopardi e Jovine dei Cafoni.
     Jovine si ispira a De Martino, a Carlo Levi, a Verga. La sua scrittura ricercata e la sua cultura richiamano la terra (in senso di terreno), da cui proviene.

Francesco Jovine, Signora Ava, Donzelli, Roma 2010, pp. XIV-224

24 agosto 2018

Vento del nord, vento del sud, di Pieroni e Gatteschi


Anche le edizioni scolastiche talvolta si interessano di brigantaggio. È il caso della Bompiani che pubblicò, nel lontano 1974, il romanzo del fiorentino Piero Pieroni e Riccardo Gatteschi intitolato “Vento del nord, vento del sud”, nella collana “Narratori moderni per la scuola”. È un libro sul brigantaggio meridionale postunitario.
     Alcuni personaggi sono inventati, altri sono reali anche se la loro storia nel romanzo non sempre segue la realtà. È inventato Agostino La Gala, «ma esprime bene nella sua scelta per le bande, contro il governo, tutta la speranza del popolo meridionale stanco di aspettare», scrive Gaetano Sansone nella sua introduzione. Sono reali i nomi di Crocco, Pasolini, Ninco Nanco, Borjes, Romano, anche se avremmo preferito che la storia personale fosse quella reale (non condivido la scelta degli autori di cambiarne di alcuni la modalità di morte).
     Il libro si apre con l’accoglienza trionfale fatta al capobrigante Crocco nella città di Melfi in Basilicata. In chiesa, per il canto del “Te Deum”, ai banchi di sinistra sedevano prima le donne (madri, mogli, sorelle) dei feudatari, poi le donne dei dipendenti dei feudatari (amministratori, camerieri, giardinieri, campieri, fattori, guardaboschi), poi ancora le donne dei cosiddetti “liberali” (bottegai, piccoli commercianti, usurai, scrivani, speziali, avvocaticchi), ed infine le donne dei contadini, dei piccoli affittuari, dei pastori, dei braccianti, dei cafoni insomma. Ai banchi di destra sedevano gli uomini, nello stesso rigido e immutabile ordine. Pochi amavano Crocco davvero, ed erano quelli che sedevano nelle ultime file o stavano in piedi attorno al fonte battesimale.
     Ma questa accoglienza trionfale sarebbe durata poco. Il giorno successivo o l’altro ancora, Crocco sarebbe dovuto andare via, prima che arrivassero i piemontesi. Era la legge della guerriglia, si passava rapidamente dalla vittoria alla sconfitta. E i piemontesi si sarebbero vendicati sulla povera gente: non torcevano un capello ai feudatari e all’arciprete o al parroco, si scatenavano solo su quelli che ritenevano i cafoni.
     Dopo varie azioni, molte di esse vittoriose, Crocco che aveva raccolto attorno a sé più di mille uomini viene rinchiuso nelle carceri italiane. Muore nel penitenziario di Portoferraio nel 1905; fu uno dei pochi che riuscì a sopravvivere nella lotta del brigantaggio.
     Il catalano generale Borges era stato mandato dal re borbone Francesco II a tentare di dare forma di esercito alle bande brigantesche. Si incontra e combatte, per un certo tempo, con Crocco. Ma la visione della lotta fra i due è diversa: Borges crede di far diventare i briganti dei soldati e come tali farli combattere, Crocco invece crede come sempre alla guerriglia e secondo essa fa combattere i suoi.
     La fine di Borges, come del resto tanti episodi della lotta brigantesca, vengono narrati con l’espediente delle lettere al padre dal tenente Andrea Pasolini, bresciano mandato nel Sud a combattere i briganti. I tristi metodi dell’esercito piemontese contro i poveri abitanti del Sud lo avrebbero convinto a dare le dimissioni dall’esercito e tornare a casa per sempre, cambiando mestiere, non credendo più in quello che faceva.
     Nel libro il sergente Romano è un luogotenente di Crocco, mentre nella realtà il Romano stette con Crocco per poco tempo; e poi non è vero che venne ucciso, nella battaglia del vallone di San Donato, dal tenente Pasolini, morì invece nelle campagne tra Gioia del Colle e Santeramo.
     Giuseppe Caruso tradì Crocco e passò dalla parte dei piemontesi; nel romanzo già da parecchio faceva il doppio gioco.

Piero Pieroni – Riccardo Gatteschi, Vento del nord, vento del sud, a cura di Gaetano Sansone, Bompiani Editore, Milano 1974, pp. 194

17 agosto 2018

Potere e libertà, di Maria Pettinato


Il libro è la pubblicazione della tesi di laurea di Maria Pettinato, conseguita presso l’università di Genova, con voti 110 e lode. Come in tutte le tesi si sente la presenza dei professori che l’hanno seguita. Ma Maria Pettinato in questo lavoro ha saputo dimostrare la sua autonomia, valutando il brigantaggio secondo i più moderni criteri di studi.
     Il libro è didascalico, molto utile per chi comincia ad avvicinarsi al fenomeno del brigantaggio. Il lavoro è infatti suddiviso in tre parti, che portano i seguenti titoli: “L’unificazione italiana”, “Il brigantaggio meridionale” e “Il brigantaggio in Calabria dal 1861 al 1865”.
     La prima parte ripercorre le tappe principali che hanno dato vita al Regno d’Italia ad opera dei piemontesi.
     La seconda parte descrive sia il brigantaggio preunitario che quello postunitario, dando particolare rilevanza al manutengolismo. In rilievo viene messo il tema della repressione piemontese.
     La terza parte, in cui si parla del brigantaggio postunitario calabrese, costituisce la parte più originale del lavoro della Pettinato. Si affrontano infatti le caratteristiche principali del brigantaggio calabrese. Si parla delle tre bande più importanti della Sila: quelle di Pietro Bianco, di Pietro Monaco e Maria Oliverio, di Domenico Palma.
     Qualche contraddizione vien fuori nel libro, laddove o i briganti vengono chiamati “malfattori” o invece si dice che i briganti “intendevano proteggere il proprio mondo con la sua religione, le sue tradizioni, le sue cerimonie, i suoi costumi”. Per noi, i briganti postunitari rappresentano il lato positivo degli uomini e delle donne di tutti i tempi anche se inconsciamente.
     Pietro Bianco, nato nel 1839, all’età di 23 anni decise di darsi alla macchia e mise su una banda armata di circa 24 uomini. Molte furono le estorsioni e i sequestri di persona cui diede vita. Condannato dalla Corte di Cassazione venne decapitato il 19 settembre 1873 nel Vallone di Rovito, vicino Cosenza.
     Pietro Monaco nacque nel 1836 e a 22 anni sposò Maria Oliverio. Lottò a fianco di Garibaldi. Poi quando l’esercito meridionale garibaldino fu smobilitato, e sia non vedendo attuati i decreti garibaldini sulla concessione ai contadini delle terre demaniali della Sila e sia il dover rispondere alla chiamata alle armi non avendo completato il servizio di leva, si rifugiò nei boschi. Entrò dapprima nella banda Palma, poi ne creò una sua. Intanto Maria Oliverio, per gelosia, uccise a colpi di accetta sua sorella Teresa, ed entrò a pieno titolo come brigantessa nella banda del marito. Insieme a lui acquisì la fama di vendicatrice delle offese e di benefattrice dei poveri. Il sequestro più famoso fu quello del vescovo Tropea. Monaco fu ucciso a tradimento. Maria, dopo varie fughe, si arrese; condannata in un primo momento alla pena di morte, poi si vide commutata questa pena in quella dei lavori forzati a vita.
     Domenico Palma nacque a Longobucco nel 1831. Frequentò le prime classi elementari e imparò a leggere e scrivere. L’insofferenza verso i soprusi e privilegi dei nobili latifondisti lo convinsero già nel 1859 a mettere su una banda di briganti. Non eccedette in fatti di sangue, incarnando la figura dell’eroe romantico, generoso con i poveri e crudele contro i prepotenti. Suoi nemici principali furono il generale Sacchi e il maggiore Milon, dell’esercito piemontese; i quali ritennero che con l’uccisione di questo brigante sarebbe cessato il brigantaggio in Calabria. Venne ucciso vigliaccamente nel 1869 dal “compare” Librandi.
     Per noi la parola “potere” del titolo si riferisce ai piemontesi invasori del Sud e “libertà” a quello che i briganti volevano.

Maria Pettinato, Potere e libertà. Briganti nella Calabria post-unitaria (1861-1865), la rondine edizioni, Catanzaro 2013, pp. 178

25 luglio 2018

Il Risorgimento visto dall’altra sponda, di Cesare Bertoletti


Cesare Bertoletti, figlio di piemontesi di Fosseno, sul Lago Maggiore, fu mandato a Napoli durante la prima guerra mondiale, ai primi del 1918; divenne capitano pilota di arei di combattimento. Sposò la napoletana “Perzechella”.
     Il libro non è antirisorgimentale, come anche l’autore. Il Risorgimento però è visto dall’altra sponda, contrariamente a quello che troviamo scritto nei libri di storia ufficiali; esso è visto dalla parte dei perdenti, a vantaggio quindi dell’Italia meridionale. La ragione non è del più forte, ma di chi sta dalla parte della ragione. L’esercito borbonico era ben istruito; i generali borbonici erano più preparati di quelli piemontesi.
     Vengono narrati i fatti storici dalla rivoluzione francese alla prima guerra mondiale, mettendo in risalto il contributo dato dalla popolazione dell’Italia meridionale.
     Bertoletti parla bene di Garibaldi e Mazzini; meno bene di Cavour.
     A noi piace evidenziare la parte del libro, che parla del Regno delle Due Sicilie. In questo Regno furono costruiti il palazzo di Capodimonte e la reggia di Caserta, dovuti al genio del Vanvitelli. Napoli divenne il centro della cultura musicale, con la costruzione del teatro San Carlo. Fu costruito anche l’imponente “Albergo dei poveri”. Il re Carlo III curò, tra l’altro, il miglioramento dell’università, gli studi nautici; stipulò trattati commerciali con numerose potenze europee. Ferdinando IV istituì, presso la reggia di Caserta, in località San Leucio, una manifattura di seta, dando ad essa una organizzazione originale per i suoi tempi.
     Napoli nel 1860 in Europa, come grandezza, veniva subito dopo Londra, Parigi e Pietroburgo; aveva veramente l’aspetto di una Capitale, sia per la sua posizione naturale che per l’imponenza delle sue costruzioni.
     Il Regno delle Due Sicilie era lo Stato più importante di tutta la penisola italiana; pur avendo nell’agricoltura la sua principale risorsa era però all’avanguardia nei settori marittimo, commerciale e industriale. L’unità per l’Italia meridionale non fu un “affare”, ma fu una rovina economica e una diminuzione di prestigio.
     Fiorente erano la marina da guerra e mercantile; la circolazione monetaria in oro e argento era il doppio di quella degli altri Stati della Penisola messi insieme; l’industria tessile, oltre a fornire il mercato locale, esportava all’estero buona parte del prodotto, e dava lavoro a molte migliaia di operai; sviluppata era l’industria siderurgica: si fabbricavano armi da fuoco, macchine a vapore, locomotive, rotaie, gru, fucine, tubi di ferro, macchine agrarie, telescopi, pianoforti, orologi ecc.; si produceva anche ottima carta, guanti, vetri, porcellana, acidi ecc. In agricoltura una notevole importanza economica aveva l’allevamento delle pecore e delle capre; dall’Italia meridionale venivano esportati principalmente l’olio, ma anche vini tipici, e legname dei monti calabresi.
     I “briganti” e i “lazzaroni” erano partigiani che difendevano le loro case, i loro averi, le loro donne, la loro religione, la propria patria dallo straniero invasore.
     Dopo il 1861, con l’annessione al Piemonte, ebbe inizio l’immiserimento dell’Italia meridionale, la distruzione delle sue industrie, il malessere del suo artigianato e della sua agricoltura, e quindi la sua decadenza economica, le cui funeste conseguenze – scrive Bertoletti – ancora sono presenti e dannosamente operanti. È una leggenda – scrive ancora il Bertoletti – che il Mezzogiorno, al momento dell’unità, fosse torpido e languente.
     Ad unità conseguita veniva caricato sull’Italia meridionale metà del debito pubblico per sollevare il bilancio dello Stato piemontese, il quale nel 1860 era sull’orlo del fallimento. Furono messi in vendita i beni ecclesiastici; gli ordini religiosi concedevano in uso ai contadini i latifondi per un modestissimo affitto; passati tali beni in proprietà di privati danarosi, i contadini poveri si trovarono privi di ogni risorsa e alla fame, e questo fu uno dei motivi per i quali le campagne meridionali furono piene di briganti.
     Altro motivo importante che fece aumentare il brigantaggio fu il repentino scioglimento, da parte del governo italiano-piemontese, dell’esercito borbonico subito dopo la caduta di Gaeta.
     Finito a poco a poco il brigantaggio, anche a causa delle fucilazioni sommarie ad opera dei piemontesi, si diede luogo all’emigrazione di massa dei meridionali.
     La maggior parte degli uomini politici meridionali mai presero una decisa posizione di difesa della propria regione.
     Bertoletti conclude il suo libro riassumendo le più importanti “verità vere” sul Mezzogiorno. Il governo borbonico non era affatto retrogrado, ma all’avanguardia in Europa; i monarchi borbonici furono i meno feroci nelle repressioni politiche; l’industria era protetta e dava lavoro a centinaia di migliaia di operai; il commercio, anche per l’estero, era incoraggiato; non è vero che l’esercito borbonico non fosse combattivo e fosse indisciplinato e mal organizzato; non è che lo stato delle Due Sicilie fosse povero; è ingiusto l’appellativo di “re bomba” al borbonico Ferdinando II, tale appellativo dovrebbe essere dato al piemontese Vittorio Emanuele.

Cesare Bertoletti, Il Risorgimento visto dall’altra sponda. Verità e giustizia per l’Italia meridionale, Introduzione di Giovanni Artieri, con 42 tavole fuori testo, Arturo Berisio editore, Napoli 1967, pp. 333