Tarquinio
Maiorino, nato ad Isernia (Molise) il 20 gennaio 1927 e morto a Roma il 2
ottobre 2005, in questo suo libro esprime sostanzialmente sul brigantaggio,
come lui stesso scrive a proposito delle brigantesse, un giudizio di
comprensione e di rispetto, anche se non certo di approvazione.
L’autore, dopo aver tentato molto
rapidamente quasi una storia universale del fenomeno, si concentra sul periodo
ritenuto aureo dei briganti italiani e cioè un po’ tutto l’arco dell’Ottocento,
con particolare riguardo al periodo postunitario dal 1860 in poi. Nel decennio
1860-1870 infatti la metà dell’esercito nazionale fu impiegato nell’ex Regno
delle Due Sicilie per combattere il dilagare del brigantaggio filoborbonico,
che riuscì a contare fino a 80.000 briganti-guerriglieri. Scrive il Maiorino:
«Si disse allora che la repressione del brigantaggio poteva essere considerata
la nostra quarta guerra di indipendenza».
Ma già l’inizio del secolo aveva visto la
vicenda della spedizione sanfedista del cardinale Ruffo, che servendosi fra gli
altri del brigante Fra Diavolo era riuscito a riportare sul trono di Napoli il
re Borbone Ferdinando IV. Fra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento
poi si assisterà al banditismo sardo e ai «ai grandi solisti dello schioppo»
come il calabrese Giuseppe Musolino.
Di brigantaggio si parlò già nel primo secolo
avanti Cristo quando il gladiatore Spartaco riuscì a guidare contro Roma 70.000
uomini schiavi, tristemente sconfitti però. Anche nel Medio Evo fiorì il
brigantaggio; per tutti basta ricordare Ghino di Tacco in Toscana e Marco
Berardi in Calabria. Molti briganti italiani si rifacevano al semileggendario
bandito inglese Robin Hood, che toglieva ai ricchi per dare ai poveri.
All’autore del libro sembra quasi
incredibile che il cinema si sia lasciato sfuggire quasi totalmente un filone
su cui avrebbe potuto vivere di rendita, esattamente come ha fatto Hollywood
con l’epopea western. Il cinema italiano, scrive Maiorino, non ha ancora
trovato il suo Cecil De Mille.
Nel libro si parla poi di Michele Pezza,
ossia Fra Diavolo, nato a Itri (provincia di Latina) nel 1771 e morto a Napoli
nel 1806 impiccato dai francesi.
A Napoli nel 1815 tornò per la seconda
volta il Borbone Ferdinando IV, che con rapida transizione considerò i briganti
da ex alleati nemici da combattere.
Vittime di questo voltafaccia dei Borbone
furono i fratelli Vardarelli, che sconfissero con la loro banda in diverse
occasioni l’esercito borbonico. Tant’è che il regno delle Due Sicilie fu
costretto a sottoscrivere un armistizio con i fratelli Vardarelli. La loro
«Comitiva» entrava trionfalmente a far parte degli organici di polizia
borbonica. Ma attirati in un tranello i Vardarelli furono massacrati.
Non miglior fortuna toccò al «prete
brigante» Ciro Annicchiarico, che fu fucilato da un plotone d’esecuzione
borbonico.
Ma nonostante questa atmosfera cupa, scrive
il Maiorino, il regno borbonico, in cui il brigantaggio ebbe la sua culla come
fenomeno che faceva comodo nei momenti critici e come piaga da estirpare nelle
fasi di normalizzazione, fu anche un mondo di luci. A Napoli, dopo la doppia
restaurazione, si registrarono iniziative tecnologiche e urbanistiche
decisamente d’avanguardia. Nell’ottobre 1839 il regno del Sud fu il primo Stato
italiano a possedere una strada ferrata: la ferrovia Napoli-Portici. A
Pietrarsa fu impiantata una fabbrica di locomotive a vapore. Nel 1844 fu
inaugurato l'Osservatorio vesuviano, il più antico osservatorio vulcanologico
del mondo, fondato dal re delle due Sicilie Ferdinando II di Borbone. L’anno
successivo Napoli venne scelta come sede del settimo congresso degli scienziati
italiani. La reggia di Caserta veniva paragonata a Versailles. Il Teatro San
Carlo, uno dei più famosi e prestigiosi al mondo, costituiva un sicuro polo
d’attrazione. Un altro richiamo era costituito dagli studi di famosi pittori.
Con le repressioni concluse intorno al 1820
parve che il brigantaggio si avviasse al tramonto. Sarebbero passati quattro
buoni decenni, scrive ancora il Maiorino, prima che i «cafoni» in vesti di
briganti tornassero grandemente in auge, ancora una volta nel ruolo di
benemeriti patrioti borbonici.
Di tutti i periodi vengono elencati, quasi
sempre con note biografiche, molti briganti. E il brigantaggio fu un fenomeno
non solo del Sud. Nel libro tra gli altri troviamo, con molti dettagli,
Giuseppe Antonio Majno, detto «Majno della Spinetta», nel Piemonte, nato il
1780 e ucciso dai gendarmi nel 1806; Stefano Pelloni, chiamato da Giovanni
Pascoli «Passator cortese», in Romagna, nato nel 1824 e ucciso dai gendarmi nel
1851; Domenico Tiburzi, detto «Domenichino» e che s’era guadagnato il titolo di
«re della Maremma», nell’alto Lazio, nato il 1836 e ucciso dai carabinieri nel
1896.
Del decennio 1860-1870, nel Sud, insieme ad
altri vengono presentati Pasquale Domenico Romano, detto «sergente Romano»,
nato a Gioia del Colle (Bari) il 1833 e ucciso a sciabolate nel 1863 dai
soldati piemontesi; i fratelli Cipriano e Giona La Gala, nato il primo, più
grande, nel 1830 a Nola (Campania), furono famosi, in seguito al loro arresto
sulla nave francese Aunis, per il processo che li condannò a morte (fucilazione
in seguito commutata in ergastolo); Michele Caruso, nato a Torremaggiore
(Foggia) nel 1837 e fucilato dai piemontesi nel 1863; Cosimo Mazzeo, detto «Pizzichicchio»,
nato a San Marzano (Taranto) il 1837 fu fucilato dai piemontesi nel 1864; Luigi
Alonzo, detto «Chiavone», nato a Sora nel 1825, vittima di una faida interna,
infatti fu fucilato dal legittimista generale spagnolo Tristany
Un capitolo a parte è riservato a Carmine
Crocco Donatelli «il generalissimo», nato a Rionero (Potenza in Basilicata) il
1830. La sua banda brigantesca riuscì a contare fino a 2.200 uomini, di cui
molte centinaia a cavallo. Inflisse varie sconfitte ai piemontesi. Tradito dal
suo capobanda Giuseppe Caruso, dopo un processo fu rinchiuso nel carcere di
Portoferraio dell'Isola d'Elba, dove morì nel 1905.
Si parla anche del brigantaggio nello Stato
Pontificio, e tra gli altri del capobrigante Giovanni Battista Gasparoni e di
Gaetano Coletta detto «Mammone».
L’ultimo capitolo è dedicato alle
brigantesse, che, imbracciando la carabina, cavalcarono nelle scorribande
accanto ai loro uomini, partecipando agli agguati e agli scontri a fuoco. Si
parla tra le altre di Rosa Reginella, Serafina Ciminelli, Filomena Cianciarulo,
Maria Capitanio, Michelina Di Cesare, Maria Orsola D’Acquisto, Maria Oliverio.
Di tanto altro ancora e di tanti altri si
parla nel libro, tentando di tracciare un quadro generale del fenomeno
brigantaggio, finendo con l’essere purtroppo un po’ generico.
Rocco Biondi
Tarquinio Maiorino, Storia e leggende di briganti e brigantesse.
Sanguinari nemici dell’Unità d’Italia, Piemme Edizioni, Casale Monferrato
(Alessandria) 1997, pp. 380
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