«Un
cane, in un orto, con voce roca e spezzata si mise ad abbaiare per far sapere a
tutti che ce l’aveva fatta, che era ancora vivo, nonostante le ferite infette,
nonostante la pioggia, nonostante il gelo della notte. A Filomena sembrò di
vederlo, quel cane, legato, con una corta catena che gli segava il collo… E si
sentì simile a lui. Legata da una corta catena alla morte». È un passo
esemplare del romanzo di Licia Giaquinto. La morte infatti aleggia come un
soffio nelle pagine del libro. Ma esemplare anche della forma che assume il
narrare dell’autrice. È un fraseggiare asciutto, ma pieno dei colori e degli
odori della sua terra del Sud.
Le vicende che si narrano riguardano
personaggi realmente esistiti, tratti dalla storia del brigantaggio
postunitario, visto principalmente come fenomeno sociale ma anche politico. I
briganti tentavano di uscire dallo stato di miseria nella quale erano relegati
dalla società dell’epoca. In un primo momento si fece credere ai meridionali,
abitanti il territorio delle Due Sicilie, che la loro condizione sarebbe
migliorata con la distribuzione delle terre demaniali. Ma rimasero speranze
deluse. E allora si volle ritornare ad essere governati dai Borbone. E i
briganti divennero il braccio armato di quella rivolta.
I personaggi che nella realtà sono veri,
nel romanzo sono rivestiti da una psicologia che li fa rivivere ai nostri occhi
riportandoli quasi ad un presente senza tempo.
Filomena Pennacchio è la briganta che, nata
a San Sossio Baronia nel 1841, ebbe la morte come amica; la quale passò con la
sua mano bianca sul suo viso, e non la portò via con sé, ma la lasciò lì, nel
campo dove sua madre l’aveva partorita. Quest’ultima credette di aver dato alla
luce il Bambingesù. La raccolse Reginella che la crebbe come una figlia sua
senza aver dovuto fare le due cose peggiori per averla: accoppiarsi con gli
uomini e partorire con mille dolori e col pericolo di morire. Nella primavera
del 1862 il morso di una vipera legò il suo destino a quello di Giuseppe.
Filomena legò con un rametto di ginestra la gamba dell’uomo e incise con un
pugnale tra i due fori attraverso i quali la vipera aveva iniettato la morte. E
succhiò il sangue avvelenato.
Giuseppe Schiavone, detto lo Sparviero,
nato nel 1838 a Sant’Agata di Puglia, fece per circa un anno il militare
nell’esercito borbonico, e dopo la presa di Gaeta da parte dei piemontesi e la
fuga del re Francesco a Roma venne congedato. Ma come gli altri della sua età
venne richiamato a fare il militare dai piemontesi. E lui disertò. Non sono un
brigante, usava dire, ho solo deciso di non fare il militare. Ma presto capì
che per non essere cacciati bisognava farsi cacciatori. Ed entrò a far parte
della comitiva di Carmine Crocco, divenendone un capo insieme a Ninco Nanco,
Caruso, Sacchitiello, Coppa. Convisse con la sua compaesana Rosa Giuliani fino
a quando non la lasciò per Filomena Pennacchio. Fu tradito proprio da Rosa.
Carmine Crocco, si dice nel libro, si
sentiva davvero un generale, in grado di condurre i suoi uomini alla vittoria,
e i miserabili e i pezzenti alla riscossa. Vengono riportati brani
significativi delle “Memorie”, redatte molti anni dopo durante la sua prigionia
a vita nelle carceri di Portoferraio.
Michele Rago, doppiogiochista come tanti in
quei tempi, capitano della guardia civica, affitta le stanze dei piani
superiori del suo palazzo agli ufficiali piemontesi, mentre le sorelle si
occupano di riempire i sotterranei di briganti. E l’affitto dei sotterranei è
molto più alto di quello delle stanze dei piani alti.
Insieme alla morte anche la pazzia aleggia nei
comportamenti di alcuni personaggi del libro. Pazza è Vincenza, la madre di
Filomena; ogni giorno andava nei boschi, e lì incontrava le anime dei morti,
che si accoppiavano con lei; e nascevano dei figli morti o che uccideva lei
appena nati. Pazza è diventata Carmina, la madre di Giuseppe; meglio così,
pensavano in molti. Almeno il dolore un poco si calma. A volte la pazzia è un
balsamo.
Altri personaggi che aleggiano nel libro
sono i morti, che starebbero volentieri coi vivi; sono i vivi che non li
vogliono. E si parlano nella lingua universale dei morti.
E poi ancora le guerre, che servivano a
proteggere i potenti; il destino, «se non fosse stato per il destino – dice
Filomena a Giuseppe – io sarei morta appena nata, e a te non ti avrei
incontrato»; il sesso, «le ragazze belle e povere per i signori sono solo
pazziarelle po’ cazzo».
Filomena pensa «che basterebbe che le donne
tutte assieme smettessero di fare figli. Così senza spargere sangue, senza
dolore, il mondo finirebbe piano piano come una candela che si spegne. E
finirebbero le guerre, le uccisioni, la pazzia, le malattie, la miseria, la
fame, la siccità, la cattiveria».
A chiusura di questa recensione mi piace
ricordare per il contenuto storico il libro “Giuseppe Schiavone” di Giuseppe
Osvaldo Lucera, per la forma letteraria il romanzo di Raffaele Nigro “I fuochi
del Basento”.
Rocco Biondi
Licia Giaquinto, La briganta e lo sparviero, Marsilio Editori, Venezia 2014, pp.
302, € 18,00
Nessun commento:
Posta un commento