Vincenzo
Carella dedica il libro «a tutti i lavoratori di questa tribolata Terra del
Sud, che recano nelle carni i segni delle sofferenze e delle lotte, lungamente
sostenute, per la conquista di condizioni più umane di esistenza». E i briganti
lottarono per ottenere queste condizioni.
Il brigantaggio postunitario certamente
rappresenta una delle pagine più dolorose della nostra storia. Un malinteso
amor di patria ha fatto per lungo tempo tacere su di esso, ma ora si cerca di
approfondirlo per ottenerne il significato e l’insegnamento più profondo.
I briganti lottarono contro i piemontesi,
che certamente non furono dei liberatori, per uscire dalle loro condizioni di
miseria e di arretratezza. Francesco II di Borbone, sostiene il Carella,
certamente esercitò nei confronti del brigantaggio una indiscussa azione
favoreggiatrice e anche promotrice, ma quest’azione è stata solamente
complementare e secondaria, non assolutamente determinante. La vera e profonda
causa di questa esplosione rabbiosa e disperata va ricercata proprio nel
tentativo di uscire dallo stato di miseria e di abbrutimento in cui viveva la
classe più povera, vittima di secolari ingiustizie e sopraffazioni esercitate
da feudatari, possidenti e galantuomini.
Questa esplosione aveva avuto notevoli
manifestazioni in precedenza, ma assume proporzioni di massa nel periodo
immediatamente successivo all’Unità per una serie di circostanze e fatti nuovi.
Gli auspici e le speranze, di un risanamento di tale stato di cose, su cui era
sorto lo Stato sabaudo ben presto si trasformarono in delusioni e le condizioni
generali risultarono addirittura aggravate dall’unificazione.
Nelle pagine del libro, pubblicato nel
1974, viene trattato il brigantaggio politico postunitario relativamente alla
zona di Brindisi e dintorni, che fino ad allora non era stata sufficientemente
esplorata. Brindisi e dintorni in realtà costituiscono un focolaio fertile ed
acceso di brigantaggio politico, e meritano quindi di essere fatti oggetto di
indagine specifica e approfondita.
Le fonti a cui il Carella attinge sono
principalmente le risultanze dei processi penali e relative istruttorie,
raccolte a carico di quanti furono implicati nel brigantaggio, nonché gli atti
della “Commissione parlamentare d’inchiesta sul brigantaggio nelle province
meridionali del 1863”. Questi atti costituiscono soltanto la parte residuata
delle carte segrete della Commissione,
che giacevano ignorati in un sotterraneo della biblioteca del palazzo di
Montecitorio, finché furono scoperti e tratti dall’oblio dal vice direttore di
quella biblioteca, Franco Molfese, autore della preziosa Storia del brigantaggio dopo l’Unità.
Vengono passate in rassegna alcune
dichiarazioni presentate alla Commissione parlamentare d’inchiesta, che
sostanzialmente provano che la cosiddetta unificazione fu micidiale per
l’Italia meridionale.
Il periodo che il Carella prende in esame
abbraccia i fatti di brigantaggio avvenuti nel brindisino e dintorni nel trimestre
settembre-novembre 1862.
L’8 settembre 1862 la banda brigantesca
capitanata da Giuseppe Nicola Laveneziana rapì il figlio sedicenne di Domenico
Brandi, proprietario della masseria Masciarella.
Venivano richiesti, con biglietto di ricatto, mille ducati, quattro camicie, un
paio di stivali, il fucile buono e due pacchetti di sigari. Questo riscatto
venne pagato molto parzialmente. Furono avvertite le forze di polizia, che si
misero all’inseguimento. I cinque briganti riuscirono a fuggire, ma fu lasciato
libero il sequestrato Vincenzo Brandi.
Il giorno 10 successivo la banda del
Laveneziana è alla masseria Cuoco,
sita tra Brindisi e Mesagne, e viene lasciato un biglietto di ricatto per il
padrone don Pasquale Perez, con la richiesta di 700 ducati. Il Perez ignorò
questa richiesta e l’ira del Laveneziana si riversò inesorabile sulla sua
masseria, procurando un danno ingente: furono uccisi dei buoi a fucilate; furono
incendiate stanze interne dell’edificio, i carri, il fieno; furono presi un
cavallo con tutta la bardatura e 10 forme di formaggio. Alcuni della comitiva
non furono d’accordo sull’uccisione degli animali. Il Perez ancora non pagò e
fittò la masseria. E tornarono i briganti, in circa ottanta, e bruciarono e
distrussero ancora.
Nei giorni successivi furono assalite altre
masserie e scritti biglietti di ricatto verso i proprietari. Le masserie
assalite furono: Lucci appartenente a
Innocenza e Chiara Perez, sorelle di don Pasquale; La Siribanda di Marcello Scazzeri di Mesagne; Cerrito, Chimienti, Angelini, Sardella, Casamassima, Spada, Restinco, Masciullo, Camardella, S. Nicola, Torricella, Baroni, Specchia, Castelluzzo, Sciotta, S. Giacomo e altre.
Gli assalti a queste masserie possono
apparire puri fatti di banditismo comune commessi a fin di rapina e di
grassazione (tra l’altro riferiti in base alle dichiarazioni di parte
padronale). Sono episodi invece, scrive il Carella, che fanno parte del
generale disegno rivoluzionario, che aveva per scopo il sovvertimento di
istituzioni gravose e indesiderate. «Del resto, - scrive ancora il Carella -
quei manipoli di gente che vivevano alla macchia, aspettando e preparandosi
all’insurrezione, dovevano pur mangiare e vestirsi e dormire!».
Il libro poi si sofferma in modo
particolare su alcuni episodi rimasti memorabili: la grazia di S. Teresa, la sollevazione di Carovigno,
il conflitto della Badessa.
Il 23 ottobre 1862 una cinquantina di
briganti a cavallo assalirono nei pressi della masseria S. Teresa una ventina di componenti, fra Carabinieri e Guardie
nazionali, delle forze dell’ordine. I briganti ebbero la meglio e catturarono
tredici guardie nazionali; si decise la loro fucilazione. Ma dopo la fucilazione
dei primi tre, il quarto gridò: «Madonna del Carmine aiutami», e il fucile del
brigante si inceppò. E il sergente Romano disse: «Tu sei devoto della Madonna
del Carmine come me, siete graziati, andate liberi». Ed ebbero salva la vita.
All’alba del 21 novembre 1862 un centinaio
di briganti a cavallo, capitanati dal Romano e dal Laveneziana, invasero
Carovigno al grido: «Fuori i lumi!». Il paese fu subito illuminato a giorno. E
si gridò: «Viva Francesco Secondo! Viva la Religione! Viva la Madonna! Abbasso
l’assassino Vittorio Emanuele! All’impiedi il popolo basso!». Vi fu una vera
sollevazione. Furono assalite le case dei liberali e di quanti non avevano esposto
i lumi, arrecando gravi danni. L’invasione durò circa tre ore. Il tutto terminò
con una processione al Santuario della Vergine di Belvedere e con la promessa che il popolo avrebbe avuto un sicuro
trionfo finale.
Lo stesso giorno 21 vi fu uno scontro fra i
briganti e le forze dell’ordine presso la masseria Badessa, sita a circa 6 chilometri da S. Vito, durante il quale fu
fatto prigioniero il militare Michele Catamerò, che venne poi ucciso.
I fatti del 21 novembre 1862 costituiscono
la fase principale del brigantaggio nel Brindisino. Alle bande del Romano e del
Laveneziana si erano unite nel frattempo quelle del Pizzichicchio e del Capraro.
Insieme decisero, seguendo un itinerario tortuoso e complicato, di raggiungere
il bosco Pianella, presso Martina.
Dopo la disfatta del 1 dicembre 1862 avvenuta presso la masseria Monaci, posta tra Noci, Alberobello e
Mottola, i capi briganti, dopo reciproche accuse ed ingiurie, decisero di separarsi
prendendo ognuno con la banda una propria strada.
I principali briganti dei quali il Carella
parla sono: Pasquale Domenico Romano, detto il sergente Romano, di Gioia del Colle; Giuseppe Nicola Laveneziana,
detto Figlio del Re, di Carovigno;
Giuseppe Valente, detto Nenna Nenna,
di Carovigno; Giovanni De Biase, di Carovigno; Carmine e Vincenzo Patisso,
detto il Capraro, di Carovigno; Francesco
Monaco, di Ceglie; e tantissimi altri. Di ognuno vengono narrate le principali
gesta e riferita la morte, quando conosciuta.
A distanza di oltre un secolo, conclude il
Carella, il brigantaggio lo si può ritenere una tappa fondamentale, forse
obbligata, nel cammino delle conquiste sociali e della civiltà, percorso dalle
genti del Sud.
Rocco Biondi
Rocco Biondi
Vincenzo Carella, Il brigantaggio politico nel brindisino dopo
l’Unità, Grafischena, Fasano 1974, pp. 206 (il
libro è stato ristampato nel 2013 sempre da Schena € 15,30)
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