Il
soldato borbonico Émile de Christen, autore del Diario, era in realtà un colonnello francese, venuto a Roma nel 1860
per schierarsi a difesa del Papa. Poi fu a Gaeta come volontario al fianco del
re Francesco II di Borbone, che era stato costretto a lasciare Napoli. Era nato
nel 1835 a Colmar, nell’Alsazia francese. Morì a Ronno in Francia nel 1870, a
soli 35 anni.
Francesco II lo incaricò di formare una
truppa e recarsi negli Abruzzi nel tentativo di ricondurre quelle terre in mano
borbonica. Tale impresa in un primo momento viene condotta positivamente, ma
poi, anche per il tradimento di alcuni generali borbonici, viene abbandonata.
De Christen ritorna a Roma, aspettando tempi migliori. Si reca più volte alla
casina di Frisio, a Posillipo, dove
ha sede un comitato di cospiratori borbonici. Rimane coinvolto nella congiura
di Frisio, viene arrestato il 7
settembre 1861 e condotto nel carcere di Santa Maria Apparente di Napoli.
Il Diario,
che è il giornale della prigionia del De Christen, dopo una premessa di
carattere generale, per il 1862 porta scritto qualcosa alle date generali di
gennaio, marzo, luglio, dicembre. Il 1863 diventa quasi giornaliero e termina
il 27 agosto. Questo Diario, scrive
Silvio Vitale nell’introduzione, «avrebbe potuto essere il contraltare delle
più famose Mie prigioni di Silvio
Pellico. Ma i circoli reazionari non hanno i mezzi e la sapienza
propagandistica dei liberali. Il libro circola in poche copie, in ambienti
ristretti, una ne giunge nella biblioteca di Francesco II».
Il Diario,
pubblicato nel 1866, descrivendo le inumane condizioni nelle quali erano tenuti
dai piemontesi i prigionieri e i reclusi dell’ex Regno delle Due Sicilie,
costituisce uno spaccato della repressione che si abbatté su detto Regno dopo
l’unificazione.
Vengono descritti i vari carceri nei quali
fu richiuso e trasferito il de Christen: carcere Santa Maria Apparente di
Napoli, bagno penale di Nisida (Napoli), forte Sant’Elmo (Napoli), prigione
piemontese di Gavi (Alessandria), Cittadella d’Alessandria.
Santa Maria Apparente era una prigione preventiva,
riservata esclusivamente agli incolpati politici. I detenuti erano tutti
partigiani di Garibaldi o dei Borboni, nemici del nuovo regime e accusati
d’aver cospirato per la sua fine. Vi si incontravano membri dell’aristocrazia
napoletana, magistrati, avvocati, medici, giornalisti, operai, contadini. Le
celle erano circoscritte da quattro mura bianche con un tetto a volta ed un
pavimento in asfalto. L’unico mobilio consentito, dietro pagamento di un franco
al giorno (il governo forniva il luogo nudo), era della paglia per coricarsi,
una tavola e una sedia. «Fu in siffatto luogo – scrive il de Christen – ch’io
trascorsi lunghi giorni immerso nella noia e nella tristezza, col cuore e lo
spirito agitati, e non di rado oppresso da sinistre idee». Di giorno leggeva e
scriveva, oppure passeggiava nel cortile (si poteva uscire e rientrare nella
cella a piacimento). Vi erano però anche dei falsi prigionieri, che erano delle
spie.
Il processo contro de Christen, e gli altri
congiurati di Frisio, finalmente inizia il 18 luglio 1862, dinanzi alla Corte
d’Assise di Napoli. La detenzione preventiva, fino a quella data, era durata
oltre dieci mesi. Termina il 7 agosto 1862, con la condanna a dieci anni di
lavori forzati.
Nel Diario
vengono narrati due tentativi di fuga dal carcere di Santa Maria, falliti per l’intervento
delle spie.
Nel gennaio 1863 de Christen fu trasferito
nel bagno penale di Nisida; per questo trasferimento i polsi furono stretti
nelle manette. «E queste ci furono strette con tanta violenza – scrive de
Christen – da farne spicciare il sangue dai pugni». I detenuti furono
incatenati a due a due anche ai piedi. «L’anello ribadito alle nostre gambe ci
ferì crudelmente».
Successivamente re Vittorio Emanuele
commuta al De Christen la pena di dieci anni di galera in dieci anni di
detenzione in un forte del regno. Viene quindi trasferito al forte Sant’Elmo.
In effetti qui la situazione peggiora. «A Nisida avevamo almeno una eccellente
aria di mare, e negli ultimi giorni vi possedevamo libri, penne, carta e
facoltà di servircene; la nostra nuova prigione, all’incontro, essendo priva
come d’aria così di luce, la sua umidità ci avrebbe certamente resi malati».
Durante il viaggio di trasferimento in nave
in Piemonte gli ufficiali dell’esercito piemontese non fecero altro che parlare
di briganti uccisi, di villaggi saccheggiati e incendiati.
Nella prigione di Gavi de Christen
ricevette e veniva chiamato numero 150; Tortora 151, Caracciolo 152, De Luca
153, Bishop 154.
Durante un periodo di isolamento de
Christen, non avendo inchiostro e penna, tenta di proseguire il suo Diario utilizzando la fuliggine della
sua lucerna e uno stecchetto come penna.
Le condizioni migliorarono nella cittadella
d’Alessandria.
Il 1 novembre 1863 Vittorio Emanuele emanò
un decreto d’amnistia per vari detenuti, tra di essi vi era de Christen, che
lasciò il carcere nei primi giorni di dicembre.
De Christen ritornò a Roma, forse per
riprendere la lotta; ma il governo di Torino riuscì a farlo espellere.
Silvio Vitale chiude la sua lunga
introduzione al Diario affermando:
«La figura di Teodolo Emilio de Christen, si colloca tra le molte dei
legittimisti stranieri che si posero al servizio di Francesco II durante e dopo
l’eroica resistenza di Gaeta. È un uomo che, lungi dal poter essere considerato
vinto, si presenta come vincitore nella misura in cui ha concepito e attuato la
propria vita come dovere».
Rocco Biondi
Émile de Christen, Diario di un soldato borbonico nelle carceri
italiane. Introduzione di Silvio Vitale, Editoriale il Giglio, Napoli 1996,
pp. XXXVI-60. Titolo originale: Journal de ma captivité suivi du rêcit d’une campagne dans les Abruzzes,
Parigi 1866
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