Antonio
Lucarelli, pugliese di Acquaviva delle Fonti (Bari), nato il 1874 e morto nel
1952, è un risorgimentalista e antiborbonico, che però guarda con simpatia e
interesse al brigantaggio.
Il libro raccoglie tre studi del Lucarelli,
il primo del 1927 è tratto da La Puglia
nel secolo XIX, il secondo pubblicato tra il 1944-1945 su Il Nuovo Risorgimento mette insieme sei
articoli, il terzo tre articoli del 1945 pubblicati ancora su Il Nuovo Risorgimento.
Riguarda direttamente il brigantaggio il
primo studio, puntiglioso spoglio dei documenti sull’argomento, presso gli
archivi di Bari e di Gioia del Colle (Bari), e dei molti contributi
bibliografici di vari autori. I documenti d’archivio sono molto importanti per
conoscere la dislocazione delle milizie piemontesi e i vertiginosi movimenti
dei briganti, «nei quali [briganti] le nostre plebi scorgevano il simbolo delle
loro contrastate aspirazioni morali ed economiche». I documenti dell’archivio
comunale di Gioia del Colle offrono un contributo largo ed efficace, in quanto
in questo paese sorsero i primi nuclei dell’organizzazione borbonica e qui, il
28 luglio 1861, esplose il più grande conflitto «fratricida», dando origine
alla più agguerrita delle bande brigantesche pugliesi.
La guerra intestina fra nord e Sud (fra
invasori piemontesi e briganti) fu nel Mezzogiorno così dura da richiedere la
mobilitazione di circa 120.000 soldati, la direzione strategica di generali
(che il Lucarelli definisce valorosi), come La Marmora, Cadorna, Cialdini,
Pallavicini, Mazè de la Roche, Villarey, Cosenz, Pinelli, la cooperazione della
guardia nazionale, l’arruolamento di speciali squadre volontarie. Ma a
debellare il brigantaggio valse soprattutto il terrore della legge Pica. «Le
crudeltà inaudite, - scrive il Lucarelli -, con cui fu soffocata
l’insurrezione, rattristano il pensiero»: soltanto nei primi venti mesi si
annoverano fra i briganti 1000 fucilati, 2500 morti in conflitto, 3000
condannati al carcere. Per convincere i briganti a presentarsi alle autorità,
se ne imprigionavano arbitrariamente i genitori, i fratelli, le sorelle, i
congiunti. Si fucilava senza alcuna garanzia non solo da parte delle truppe, ma
anche dalle guardie nazionali, dai sindaci.
Così sorgeva la nuova Italia «fra sinistri
bagliori di sangue». «Non come italiani noi fummo considerati, - scrive ancora
il Lucarelli -, ma come una conquistata colonia».
La rivoluzione per l’Unità d’Italia fu
voluta solo da alcuni del ceto dei ricchi (il patriottismo fu infatti un loro
lusso spirituale), il popolo invece sente ed ama come sua patria «il tugurio e
la grotta, ove geme la sua derelitta famiglia». Il contadino del sud del 1860 è
antitaliano, antiliberale, borbonico. Quanto più la ricca borghesia vuol
liberarsi dal giogo borbonico, tanto più il popolo si lega ai sovrani borbonici
e reclama la sua libertà e la sua patria, consistente nel demanio usurpato dai
ricchi e nella terra bagnata dal suo sudore. E questo spiega l’insurrezione e
la rivolta popolare degli anni 1860-65. Si gridava: «Viva il popolo basso!
Abbasso Garibaldi e Vittorio Emanuele! Viva Francesco II!».
Nel secondo studio del Lucarelli, tra l’altro,
vengono contrastate le tesi preconcette di molti studiosi della situazione
italiana, delle due Italie, quella
del nord e quella del Sud. Non sono sufficienti a spiegare le differenze
esistenti le varie interpretazioni che vengono prospettate: l’interpretazione
antropologica (nord e Sud derivano da due razze diverse: la privilegiata
eurasiatica al nord e la maledetta eurafricana al Sud), l’interpretazione
demografica (più densa è la popolazione al nord più rigoglioso è lo sviluppo
economico ed intellettuale, più scarso è il numero degli abitanti al Sud più
manchevole è l’evoluzione civile), l’interpretazione fisico-geografica (diverso
è l’aspetto orografico, idrografico, meteorologico, topografico, diverso è il
progresso dei popoli: fiumi e canali favoriscono il nord rispetto alle aspre
giogaie del Sud), l’interpretazione sociologica ed economica (i differenti
fattori sociali producono differente sviluppo generale). Non resta quindi,
secondo il Lucarelli, per spiegare eventuali differenze «che interrogare le
vicende storiche della nostra terra dai tempi più vetusti all’età contemporanea».
Per lui quindi si rende necessaria un’altra interpretazione, quella
storico-liberale. Nella storia del Mezzogiorno si sono avuti alti e bassi che
dimostrano che lo sviluppo è direttamente proporzionale all’esistenza di
istituzioni più o meno liberali. Quando vi è stata una verace democrazia sono
fiorite arte e scienza.
L’ultimo studio, presente nel libro, tende
a dimostrare che la socializzazione della terra affermata dai socialisti, e il
Lucarelli è sempre stato socialista, nel periodo storico che si attraversava, è
assurda. Un’azione politica - scrive il Lucarelli – che non interpreti ed
esprima, in piena atmosfera di libertà, i peculiari bisogni di un popolo, va
incontro a disastroso fallimento.
Antonio Lucarelli, Risorgimento, brigantaggio e questione
meridionale, Palomar, Bari 2010, pp. 160, € 14,00
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