Il
barone don Felice nacque nel 1774 circa (aveva nella rivoluzione del
‘99 venticinque anni) e morì nel settembre 1828; visse quindi tra
la fine del settecento e l’inizio dell’ottocento. Il barone
Felice apparteneva alla famiglia Lombardo di San Chirico di Foggia,
in Puglia, famiglia che visse tutte vicende rivoluzionarie del Regno
di Napoli dal 1799, al 1820, al 1848, fino all’Unità d’Italia.
Il romanzo storico rappresenta una saga di questa famiglia.
Don
Felice sposò due donne; trascurò la prima, di sette anni più
grande di lui, adorò la seconda, di oltre vent’anni di lui più
giovane, dandole quattro figli: tre femmine e l’ultimo un maschio.
A Napoli frequentò i palazzi nobiliari e i salotti intellettuali,
non disdegnando le taverne di strada, dove accontentava la passione
per il gioco d’azzardo. Fu colonnello e liberale, ragione
quest’ultima per cui il re lo destituì, esiliandolo in terra
straniera. Riebbe il grado militare e comandò l’Accademia militare
della Nunziatella; poi fu di nuovo radiato. A Napoli esaudì in
qualche modo la sua vocazione per l’arte musicale.
Ebbe
a che a fare con i briganti, dei quali diceva che erano malvagi, ma
diceva anche di averne incontrati di gentili e colti. Uomini che si
erano dati alla macchia per sfuggire a un’ingiustizia. In
Capitanata ve n’era uno famoso, Gaetano Vardarello, che con i suoi
fratelli aveva costituito una comitiva di cinquanta uomini, che non
fu mai battuto sul campo dall’esercito. Egli distribuiva ai poveri
pane e latte, dandone doppia razione alle donne incinte. Per
debellare il brigantaggio, bisognava dare a tutti la possibilità di
vivere una vita dignitosa; il crimine spesso è figlio
dell’ingiustizia. Morì tradito da alcuni paesani.
L’autore
del romanzo, Vescera, per bocca dei suoi personaggi, si domanda se
fosse stato meglio rimanere con i Borbone, anziché passare sotto i
piemontesi che promettevano solo a parole la libertà. Ma il re
borbone Francesco non aveva alcuna aspirazione a diventare il re
d’Italia. I Savoia, che erano più francesi che italiani, erano più
conservatori e non erano abituati alla raffinata cultura dei Borbone.
Felice
Carmine, detto Felicino per distinguerlo dal padre, nei moti del ‘48,
pur parteggiando per la costituzione si tenne fuori dai tumulti.
Ferdinando II fu detto il re bomba, per via dei cannoneggiamenti
contro Messina, ultima città ad arrendersi.
Morto
Ferdinando II, gli successe sul trono il figlio Francesco.
L’inesperienza e la mitezza del re Francesco convinsero suo cugino,
il re piemontese Vittorio Emanuele, ad invadere il Regno delle Due
Sicilie. Invasione che riuscì per l’appoggio della massoneria e
dei molti ufficiali e militari borbonici, che si lasciarono
corrompere. Ai contadini fu sparsa la voce che i piemontesi avrebbero
distribuito le terre incolte.
Il
re Francesco, per evitare la distruzione della città di Napoli, la
lasciò nelle mani dell’ambiguo Liborio Romano e si rifugiò nella
fortezza di Gaeta da cui organizzò la controffensiva militare.
Don
Felicino festeggiò con gli amici liberali il nuovo corso politico.
Ma presto si rese conto che nella storia del Mezzogiorno accadde
quanto non era mai successo. Furono smantellate e portate al nord
industrie, ferriere, ferrovie, tessili, e fucilati quanti si
opponevano a tale scippo da parte di 140.000 uomini ben armati.
Alcuni milioni di Meridionali dovettero emigrare nelle Americhe, nel
nord d’Italia e d’Europa. Tutto peggiorò e andò in malora negli
anni successivi, lo Stato Italiano diede sempre meno al Sud rispetto
al nord.
Rocco
Biondi
Raffaele
Vescera, Il barone contro. Don Felice e gli altri Signori
di San Chirico tra Borbone e Savoia, Magenes Editoriale,
Milano 2014, pp. 306
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