Scrive
Gigi Di Fiore, nella sua introduzione al libro, che «negli Stati Uniti, la
guerra di secessione, che minò l’unità di quella Nazione, viene studiata con
rispetto per le ragioni e i morti sia degli Stati del Sud che di quelli del
Nord. In Italia, invece, la guerra combattuta nelle Due Sicilie viene ancora
liquidata, con generale sufficienza, in poche battute».
Quella combattuta nel Sud d’Italia fu
guerra civile, voluta dai piemontesi senza alcuna dichiarazione, nella quale prevalse
la forza. Il vincitore ha raccontato, diffuso, insegnato nelle scuole solo la
sua verità. Senza tener conto della verità dei vinti. Il Risorgimento fu quello
dei vincitori coscienti; a quel processo rimase estraneo il 98% del paese, che
non partecipò attivamente al Risorgimento ed era escluso dalla gestione del
potere. Questo libro invece cerca di approfondire quale fu il Risorgimento dei
vinti. Come e in che modo l’esercito di Francesco II difese l’idea di Patria
napoletana.
Infatti, tra il settembre 1860 e il marzo
1861, l’esercito borbonico – dice Di Fiore – uscì a testa alta a Pontelatone,
Sant’Andrea, Caiazzo, Roccaromana, Triflisco, sul Volturno e sul Garigliano,
nell’assedio di Capua, Gaeta, Messina e Civitella del Tronto.
La battaglia del Volturno (1 e 2 ottobre
1860) si concluse in sostanza senza vincitori né vinti; le sorti della guerra
potevano ancora essere raddrizzate dai borbonici.
Ma in pochi mesi la «Patria napoletana»
venne tradita soprattutto dal comportamento dei suoi generali che in Sicilia,
Calabria, Puglia; rinunciarono a combattere, fornendo più di un sospetto sui
loro atteggiamenti. A Calatafimi il generale Francesco Landi, inspiegabilmente,
fece suonare la ritirata invece di inviare uomini di rincalzo, quando i
garibaldini erano ormai stremati e privi di munizioni; (si dice che Landi,
presso il banco di Napoli, trovò una polizza di 14 ducati, anziché quella di
14.000 ducati, promessagli da Garibaldi). Il generale Ferdinando Lanza, che
aveva 75 anni, incautamente firmò l’armistizio con Garibaldi. Il colonnello
Gennaro Gonzales passò con Garibaldi, tradendo il suo giuramento militare. Il
generale Giuseppe Letizia entrò nell’esercito italiano, che accoglieva gli
ufficiali che tradivano la propria bandiera borbonica. Il generale Fileno
Briganti lasciò Reggio Calabria in mano a Garibaldi senza colpo ferire, e per
questo venne ucciso dai propri soldati, bollato come voltagabbana. Giuseppe
Ghio, al comando di 10.000 uomini, siglò senza combattere un accordo con i
garibaldini in Calabria; nel 1875 a Napoli fu trovato morto in circostanze
misteriose.
Sedici ufficiali – scrive Di Fiore – furono
ritenuti responsabili diretti dei tracolli militari in Sicilia, Calabria e
Puglia. Incapaci, alcuni pavidi, altri probabilmente corrotti.
Il re Francesco II, anche su consiglio di
sua moglie la regina Maria Sofia, maturò la decisione di lasciare Napoli, sia
per evitare a questa città le calamità di una guerra sia per poter difendere più
liberamente (così sperava) il suo Regno. Il 6 settembre 1860 fu l’ultima
giornata che il re Borbone trascorse nella sua capitale. Lasciò in deposito nel
Banco di Napoli quasi undici milioni di ducati, circa cinquanta milioni di
franchi d’oro, che facevano parte del suo patrimonio privato. Francesco II era
convinto che sarebbe ritornato a Napoli. Non recuperò più tale somma.
S’imbarcò, insieme alla regina Maria Sofia,
sulla nave a vapore il “Messaggero”. Fu dato ordine alle navi della flotta
borbonica di seguire il vascello reale. Ben 30 navi su 36 avevano abbassato la
bandiera tricolore con lo stemma Borbone al centro, per sostituirla con il
tricolore dei Savoia. La Marina borbonica aveva abbandonato Francesco II. Molti
marinai, pur di non restare sulle navi «traditrici», anche a nuoto, mossero
verso le imbarcazioni dirette a Gaeta.
La prima a cadere in mano dei piemontesi fu
la fortezza di Capua. Il 2 novembre 1860 fu siglato un accordo di tredici
punti, che sancivano la consegna della Piazza, la prigionia dei soldati, la
partenza per Napoli degli ufficiali borbonici. L’esercito piemontese si trovò
alle prese con la gestione di un numero enorme di prigionieri di guerra: oltre
diecimila. Furono spediti nelle prigioni del nord, nella speranza di
convincerli ad arruolarsi nell’esercito piemontese. Ma molti fuggirono.
Ciò che restava dell’esercito borbonico era
ormai quasi tutto nella fortezza di Gaeta. Altri soldati combattevano alla
difesa delle fortezze di Messina e Civitella del Tronto, ma nella Piazza di
Gaeta, si racchiudevano tutti i simboli politici del Regno delle Due Sicilie:
il Re e la Regina con la corte, il Governo, alcuni ambasciatori esteri. Il re
nominò Pietro Vial alla guida del Governo provvisorio della Real Piazza. Il
morale, per il momento, era molto alto.
Il vero e proprio assedio di Gaeta cominciò
il 13 novembre 1860. Per il primo mese, le batterie piemontesi si limitarono a
saggiare il tiro. Il governatore borbonico Vial, per la predisposizione dei
lavori necessari alla difesa, si fece affiancare di otto ufficiali.
La vita dentro le mura della fortezza
borbonica scorreva in modo assai meno comoda che nel campo piemontese. Cimici,
pulci e blatte avevano invaso molti alloggi. La penuria di cibo, oltre che alle
persone, si estendeva anche ai cavalli e ai muli.
Il bombardamento piemontese si intensificò
e acquisì sempre più precisione. La flotta francese, che con la sua sola
presenza costituiva uno scudo per Gaeta, abbandonò il campo. Dai bombardamenti
fu colpito prima il magazzino di munizioni di Sant’Antonio e poi quello detto
di Transilvania, oltre ad altre batterie. Morirono ufficiali e molti soldati.
Oltre che dalle bombe Gaeta fu colpita anche dal tifo. La regina Maria Sofia
volle rimanere accanto a suo marito, il re Francesco II. Il mito della regina
«eroina di Gaeta» si alimentò soprattutto con quegli episodi quotidiani, che
circolavano nei racconti tra i soldati, che narravano le visite di Maria Sofia
ai feriti negli ospedali e il coraggio infuso agli artiglieri sugli spalti.
Il 13 febbraio 1861 fu firmata la
capitolazione di Gaeta, in 23 articoli, tra i napoletani e i piemontesi; ma i
bombardamenti da parte di questi ultimi continuarono. Il giorno successivo il
Re e la Regina, con il seguito, si imbarcarono sul piroscafo francese
“Mouette”. Furono ospitati da Papa Pio IX a Roma, al Quirinale.
La bandiera borbonica sventolava ancora
sulle fortezze di Messina e Civitella del Tronto, dove i soldati non volevano
saperne di cedere; resistevano per il loro re in esilio. Messina cadde il 13
marzo 1861. Civitella del Tronto il 20 marzo 1861. Il Regno d’Italia fu
proclamato il 17 marzo 1861. La consultazione elettorale promossa dal governo
Cavour si era tenuta il 27 gennaio 1861, quando ancora Francesco II stava a
Gaeta; vi partecipò l’1,9% della popolazione del futuro Regno d’Italia. La
prima riunione del Parlamento si tenne a Torino quattro giorni dopo la
capitolazione di Gaeta.
Dal 20 marzo 1861 – scrive Di Fiore –
cominciava un’altra guerra: quella degli ex soldati sbandati, dei contadini,
dei pastori, anche degli ex garibaldini delusi, che si erano dati alla macchia
sulle montagne della Lucania, degli Abruzzi, della Puglia, della Campania,
della Calabria. Una vera e propria guerriglia contro l’«invasore», che sarebbe
andata avanti, in maniera aspra e con migliaia di morti, per almeno cinque
anni. Era la ribellione dei briganti postunitari.
Tra i ribelli i più noti furono Carmine
Crocco in Lucania, Pasquale Romano in Puglia, Cosimo Giordano nel Matese,
Pietro Monaco in Basilicata, Antonio Cozzolino nell’area vesuviana, Luigi
Alonzi nella Ciociaria.
Per i soldati borbonici prigionieri furono
realizzati dei veri e propri campi di prigionia. Tristemente famosi furono
quelli del forte di San Maurizio Canavese a Genova e della fortezza di
Fenestrelle vicino Torino.
Il libro contiene settantotto pagine di
note, nelle quali sono riportate principalmente le biografie e le storie degli
ufficiali e dei soldati che combatterono per i Borbone di Napoli.
Rocco Biondi
Rocco Biondi
Gigi Di Fiore, I vinti del Risorgimento. Storia e storie di chi combatté per i Borbone
di Napoli, UTET, Torino 2004, pp. 362
Nessun commento:
Posta un commento