«Questo
libro non è un trattato sul brigantaggio, ma un insieme di storie documentate
raccontate in forma narrativa, attingendo a più fonti», scrive Gigi Di Fiore
nell’introduzione. Per capire bene le caratteristiche della guerra contadina
l’autore riporta essenzialmente tre vicende esemplificative sugli obiettivi dei
briganti e sui metodi repressivi dei piemontesi. Si tratta delle vite e delle
esperienze di tre capibriganti: Carmine Crocco in Basilicata, Cosimo Giordano
nel Molise e Campania, Pasquale Romano in Puglia. E di altri capibriganti e
briganti, che in qualche modo hanno avuto a che fare con i suddetti capi.
I briganti oggi vengono assumendo una
connotazione positiva contro la criminalizzazione con cui li ha sempre
descritti la storiografia ufficiale. Il brigantaggio è stato contemporaneamente
una rivolta sociale contro i “Gattopardi” del Sud (che volevano che tutto
cambiasse, affinché tutto restasse come prima) e una rivolta contro lo Stato
piemontese calato dall’alto (che sostituisce lo Stato borbonico, che comunque
veniva sentito più vicino).
Se non esisteva una coscienza di classe nei
briganti-contadini, vi era però consapevolezza di interessi economici
coincidenti fra la borghesia latifondista meridionale e fra gli imprenditori
dell’industria e della finanza settentrionali. L’Italia, unita politicamente a
fatica, fu divisa giuridicamente fra Centro-nord con le garanzie della
Costituzione albertina e Sud con il regime dei tribunali militari che potevano
disporre della vita o della morte dei ribelli.
La parola “brigante” è diventata nel Sud
sinonimo di ribellione, di protesta, di anticonformismo culturale. La figura
del brigante, scrive ancora Di Fiore, è diventata simbolo esibito della cultura
di sinistra che si richiama alle letture gramsciane.
Di Fiore scrive che prova un particolare
coinvolgimento emotivo nel rievocare le storie del brigantaggio postunitario.
Storie che fanno parte dell’identità del Mezzogiorno. Senza conoscerle ben poco
si comprenderà del Sud.
Carmine Crocco, con la sua storia, non fa
più paura. Nel Sud la voglia di raccontarlo è diventata patrimonio diffuso.
Nato, nel giugno 1830, a Rionero sul Vulture in Basilicata, era stato
bracciante e vaccaro, poi caporale borbonico e anche garibaldino. Nei momenti
migliori, da capobrigante aveva avuto ai suoi ordini fino a 2.000 uomini.
Divise la sua grande banda in tante bande più piccole, guidate da un
capobrigante che dava il nome al singolo gruppo. Ogni banda conservava un
minimo di autonomia, anche se tutte dipendevano formalmente dal rappresentante
del Comitato borbonico di Roma, il francese Langlois. Ma il vero comando fu
lasciato a Crocco. Assaltò e conquistò Ripacandita, Venosa, Lavello, Melfi,
Monteverde, Calitri, Pescopagano, Sant’Andrea di Conza, Ruvo del Monte,
Toppacivita, Rapone, San Fele, Atella. Quelle conquiste purtroppo duravano
pochi giorni. Quei paesi venivano riconquistati dai soldati piemontesi.
I Comitati borbonici pensarono di affidare
il comando dei briganti al generale spagnolo José Borges [Di Fiore scrive
Borjes, come si trova nella maggioranza dei libri; noi scriviamo Borges, come
il generale si firmava]. Borges e Crocco si incontrarono, ma fra i due non vi
fu mai vera intesa; avevano scarsa considerazione l’uno dell’altro. E
consideravano in modo differente la lotta che si stava svolgendo: rivolta
sociale e guerriglia da parte di Crocco, guerra di resistenza e difesa di una
Nazione conquistata da un’altra da parte di Borges. Fu deciso comunque di
prendere Potenza; ma non se ne fece niente. Borges diede la colpa a Crocco per
questa mancata presa. Crocco invece diede tutta la colpa ai traditori interni
esistenti fra le mura di Potenza.
Per questi contrasti Borges decise di
abbandonare l’impresa e ritornare a Roma, per riferire a Francesco II. Ma fu
sorpreso dai piemontesi a Tagliacozzo in Abruzzo, con i suoi ventitré uomini, ad
appena dieci chilometri di distanza dal confine con lo Stato Pontificio.
Vennero fucilati, senza processo, nel centro di Tagliacozzo, l’8 dicembre 1861.
Carlo Alianello e Andrea Camilleri hanno creduto alla suggestiva
interpretazione che Crocco offrì la testa di Borges in cambio della sua futura
salvezza. Noi non lo crediamo. Crocco morì in carcere a Portoferraio,
nell’isola d’Elba, il 18 giugno 1905, all’età di 75 anni.
La figura di Crocco, rimossa per pochi
anni, riemerse nel secondo dopoguerra del secolo scorso. Carlo Alianello ne
parlò nel suo romanzo L’eredità della
priora, da cui fu tratto l’omonimo sceneggiato televisivo in sette puntate.
Sulla storia di Crocco, a Brindisi di Montagna in Basilicata, ogni anno viene
rappresentato lo spettacolo La storia
bandita. Diversi film sono stati girati su Crocco. In pratica quello che
nell’Italia risorgimentale veniva considerato un criminale è stato trasformato
in eroe positivo.
L’eccidio di Pontelandolfo e Casalduni è
legato al capobrigante Cosimo Giordano, nato a Cerreto Sannita in provincia di
Benevento (Campania) il 15 ottobre 1839. Fu arruolato nei carabinieri a cavallo
dell’esercito borbonico e divenne caporale. Dopo lo scioglimento di
quest’ultimo esercito, per due volte fu ritenuto rivedibile per l’esercito
piemontese. La terza volta decise di non presentarsi, divenne disertore e
brigante. Raccolse attorno a sé una settantina di uomini, che divise in quattro
brigate. In molti paesi, praticando la pratica del mordi e fuggi della
guerriglia, in poche ore si avvicendavano briganti del Sud e soldati
piemontesi. Nel 1861 i piemontesi effettuarono molte rappresaglie; furono di
una cinica ferocia quelle guidate dal tenente colonnello Pier Eleonoro Negri. A
Pietralcina Negri si dimostrò implacabile, furono rastrellate quaranta persone,
che senza processo furono fucilate. In questo clima surriscaldato maturò
l’uccisione dei quarantuno piemontesi, comandati dal tenente livornese Cesare
Augusto Bracci. Cosimo Giordano conosceva quei luoghi, dove poteva contare su
diversi appoggi. Il Bracci si dimostrò uno sprovveduto, lasciandosi
imbottigliare tra due fuochi. Pare che Giordano non prese parte a
quell’uccisione dell’11 agosto 1861 a Pontelandolfo, dove rimasero morti, oltre
al tenente Bracci, quattro carabinieri e trentasei soldati piemontesi. Il
generale Enrico Cialdini, allora luogotenente a Napoli, ordinò subito una
rappresaglia a Negri contro Pontelandolfo e al maggiore genovese Carlo Melegari
contro Casalduni. Furono incendiate le case e quanti uscivano per le strade
venivano fucilati. Furono violentate delle donne. La fine più straziante fu
quella dell’adolescente Concetta Biondi, che subì violenza «preda di quegli
assalitori inumani» e dopo essere svenuta fu uccisa. Il 14 agosto 1861 Negri
scrisse: «Ieri mattina all’alba giustizia fu fatta contro Pontelandolfo e Casalduni.
Essi bruciano ancora». Le rappresaglie proseguirono anche dopo le distruzioni
dei due paesi, con rastrellamenti continui sulle montagne. Cosimo Giordano capì
che era inutile affrontare così tanti soldati; abbandonò Pontelandolfo al suo
destino. Continuò la lotta sui monti del Matese, con varie interruzioni, fino
al 1882, quando venne arrestato; nel 1884 venne condannato ai lavori forzati a
vita. Morì in carcere nell’isola di Favignana, appartenente alle isole Egadi di
Sicilia, il 14 novembre 1888.
Il terzo capobrigante del quale Di Fiore
parla nel suo libro è Pasquale Romano. Nato a Gioia del Colle, provincia di
Bari in Puglia, prestò servizio nell’esercito napoletano per quasi dieci anni, divenendo
sergente e alfiere. Sciolto l’esercito napoletano fu nominato dal Comitato
borbonico di Gioia capo della rivolta antipiemontese. Assaltò con la sua banda
Alberobello, Cellino, Carovigno, Erchie. Ebbe contatti con Carmine Crocco. Fu
ucciso a sciabolate il 5 gennaio 1863, nei boschi della Vallata vicino a Gioia
del Colle, insieme a ventidue uomini della sua banda, dai piemontesi cavalleggeri
di Saluzzo. Non fu chiamato un fotografo a riprendere la macabra scena; del
sergente Romano non si conosce nessuna fotografia. Il cadavere del Romano fu
messo sul dorso di un asino, per essere mostrato nel suo paese. Si andava là,
scrisse la “Gazette de France”, «come ad un pellegrinaggio santificato dal
martirio. Gli uomini si scoprivano il capo, le donne si inginocchiavano, quasi
tutti piangevano». Anche se qualcuno era ancora convinto che si trattasse di un
sosia messo in piazza per ingannare la gente.
Rocco Biondi
Gigi Di Fiore, Briganti! Controstoria della guerra
contadina nel Sud dei Gattopardi, Utet, Milano 2017, pp. 350
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