13 ottobre 2016

Piemontisi, Briganti e maccaroni, di Ludovico Greco



“Piemontisi” (come si dice nel dialetto della bassa Italia) qui sta per Piemontesi, si legge nella quarta di copertina. “Briganti” (con la lettera maiuscola nel frontespizio del libro) non sono quelli negativi della storiografia classica, ma combattenti di un’armata rurale. “Maccaroni” (in dialetto, sta per maccheroni) costituiscono il cibo essenziale dei poveri del Meridione.
     Il primo capitolo, intitolato “Parliamo male di Garibaldi”, accenna al Risorgimento e parla dei briganti postunitari. Il Risorgimento non come l’hanno inteso e voluto i vincitori, ma l’altro Risorgimento “fatto di tradimenti, di lutti, di sangue, di fango, orrore, dolore, crudeltà, ferocia”, a cui “non vi si sottrassero i piemontesi, e nemmeno i meridionali”. I Briganti meridionali non erano tali per natura, come i vincitori vollero negativamente far credere, ma lo divennero per necessità: cercavano lavoro e trovavano miserie, cercavano giustizia e trovavano ingiustizie camuffate da legalità.
     L’arrivo dei piemontesi, che molti al Sud inizialmente videro positivamente, gettò l’ex regno nella crisi e nel disordine. Molto presto i piemontesi apparvero alle popolazioni meridionali per quello che veramente erano: conquistatori e sfruttatori.
     Fu istituito il servizio militare obbligatorio al quale la maggioranza dei giovani non aderì, furono aboliti i dazi doganali con i quali invece il governo borbonico proteggeva le industrie e l’artigianato, venne tassato il popolo con nuove tasse, si aumentò il prezzo del sale e dei tabacchi, fu aumentata la tassa sul macinato, furono vendute le rendite pubbliche, vennero trasferite al nord le riserve auree del Banco di Napoli e degli altri Istituti di credito, furono chiusi la maggioranza dei conventi e venduti all’asta i beni della Chiesa, vennero licenziati tantissimi lavoratori degli uffici pubblici ed al loro posto immessi fuorusciti e piemontesi. Furono questi i motivi del malcontento che sfociò in aperta ribellione.
     Altre cause del brigantaggio postunitario furono certamente sia la mancanza della spartizione delle terre sia la mancanza della restituzione della terre demaniali usurpate, che i contadini reclamavano. La borghesia dopo le prime false promesse gettò la maschera populista e rivoluzionaria ed imboccò apertamente la strada della repressione armata. La radicalizzazione della lotta contadina spinse naturalmente all’alleanza con il Borbone. Francesco II, nemico dei piemontesi e dei possidenti vendutisi al nuovo regime, diventa automaticamente un alleato.
     Dai piemontesi vennero dati alle fiamme interi villaggi, vi furono esecuzioni sommarie, civili furono arrestati in massa. I bandi dei comandi militari piemontesi sono simili a quelli nazisti nell’Italia occupata; Marzabotto non è stata inventata dalle SS tedesche.
     Quella dei briganti fu una rivolta che accese tutto il Mezzogiorno e che impegnò in una vera e propria guerra l’esercito piemontese composto di oltre centoventimila uomini. Questi soldati fecero più vittime di quanto non ne ebbero tutte insieme le guerre dell’indipendenza italiana.
     I personaggi che occuparono quel primo decennio unitario sono visti da Ludovico Greco al rovescio: «e cioè non più come santi i liberali e i piemontesi, e non più come diavoli i briganti». Personaggi quindi visti sotto un altro aspetto, non quello con cui erano visti dagli amici, ma quello con cui erano visti dai nemici. E per la loro descrizione nel libro viene lasciata la parola ai protagonisti e ai testimoni dell’epoca, soprattutto della parte perdente.
     Garibaldi fu un mediocre Generale, senza alcuna scienza militare né coraggio guerriero; vinse perché i comandanti borbonici erano stati comprati e diedero ordini ai soldati napoletani perché si ritirassero. Cavour fu abilissimo nell’usare la politica per fare quattrini. Il re Vittorio Emanuele II fu debole e rozzo; le sue principali passioni erano le donne, i cavalli e la caccia; era geloso di Garibaldi; si tingeva i capelli. Liborio Romano fu un avvocaticchio arruffone e imbroglione: liberale con i liberali, borbonico con il re Borbone; senza soluzione di continuità fu ministro di Francesco II e subito dopo di Garibaldi.
     José Borges (nel libro scritto alla francese Borjès), generale catalano, avrebbe dovuto riconquistare il Regno delle Due Sicilie, ma venne fucilato dai piemontesi. Carmine Crocco, fu un generale dei contadini, che riuscì a raccogliere intorno a sé oltre mille briganti e conquistò molti paesi; morì in carcere all’età di 75 anni. Il sergente Pasquale Romano di Gioia del Colle (Bari) ebbe grande intraprendenza fra i briganti lottando per i Borboni; fu ucciso dai piemontesi e venerato come martire dai suoi compaesani.
     Un capitolo del libro di Greco è intitolato “Piemontesi go home!” (Piemontesi andatevene a casa!). È risaputo che pochi nell’ex capitale Napoli erano liberali, anzi la grande maggioranza è rimasta legata al re Borbone Francesco II. Il plebiscito di annessione all’Italia del 21 ottobre 1860 fu una farsa, chi aveva intenzione di votare NO provava il bastone e il coltello.
     La rivolta contadina ed il brigantaggio furono un susseguirsi di lutti e massacri. Per i piemontesi i briganti sono banditi, poveracci e basta, che bisogna prendere e fucilare. Rinasce la Vandea (rivolte soprattutto di contadini, la prima nel 1793, contro il governo francese, represse nel sangue), dissero i legittimisti europei. Nino Bixio fucilò in piazza. I paesi di Pontelandolfo e Casalduni furono letteralmente messi a fuoco. Si veniva fucilati all’istante. La legge Pica (dal nome del promotore) contro il brigantaggio dava in pratica il governo del Meridione ai militari. Il brigante Ninco Nanco fu ucciso a tradimento.
     Verso la fine del libro sono riportate le ottave più significative del poemetto, che il poeta napoletano Ferdinando Russo scrisse e pubblicò cinquant’anni dopo degli avvenimenti, sul coraggio del re Francesco II e della giovanissima regina Maria Sofia durante l’assedio di Gaeta ʾO surdato ʾe Gaeta.
     Sono poi trascritte delle lettere minacciose e sgrammaticate che i briganti scrivevano per chiedere viveri e moneta per i combattenti della montagna.
     Ed infine sono raccolti i testi di canti popolari dell’epoca brigantesca. Caratteristica comune a tutti i canti è il rifiuto della nuova condizione di «italiano» e il richiamo «a volte nostalgico a volte fiero, alla condizione antica del Regno».
    
Ludovico Greco, Piemontisi, Briganti e maccaroni, Guida, Napoli 1975, pp. 300

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