“Piemontisi”
(come si dice nel dialetto della bassa Italia) qui sta per Piemontesi, si legge
nella quarta di copertina. “Briganti” (con la lettera maiuscola nel
frontespizio del libro) non sono quelli negativi della storiografia classica,
ma combattenti di un’armata rurale. “Maccaroni” (in dialetto, sta per
maccheroni) costituiscono il cibo essenziale dei poveri del Meridione.
Il primo capitolo, intitolato “Parliamo
male di Garibaldi”, accenna al Risorgimento e parla dei briganti postunitari.
Il Risorgimento non come l’hanno inteso e voluto i vincitori, ma l’altro
Risorgimento “fatto di tradimenti, di lutti, di sangue, di fango, orrore,
dolore, crudeltà, ferocia”, a cui “non vi si sottrassero i piemontesi, e
nemmeno i meridionali”. I Briganti meridionali non erano tali per natura, come
i vincitori vollero negativamente far credere, ma lo divennero per necessità:
cercavano lavoro e trovavano miserie, cercavano giustizia e trovavano
ingiustizie camuffate da legalità.
L’arrivo dei piemontesi, che molti al Sud
inizialmente videro positivamente, gettò l’ex regno nella crisi e nel
disordine. Molto presto i piemontesi apparvero alle popolazioni meridionali per
quello che veramente erano: conquistatori e sfruttatori.
Fu istituito il servizio militare
obbligatorio al quale la maggioranza dei giovani non aderì, furono aboliti i
dazi doganali con i quali invece il governo borbonico proteggeva le industrie e
l’artigianato, venne tassato il popolo con nuove tasse, si aumentò il prezzo
del sale e dei tabacchi, fu aumentata la tassa sul macinato, furono vendute le
rendite pubbliche, vennero trasferite al nord le riserve auree del Banco di
Napoli e degli altri Istituti di credito, furono chiusi la maggioranza dei
conventi e venduti all’asta i beni della Chiesa, vennero licenziati tantissimi
lavoratori degli uffici pubblici ed al loro posto immessi fuorusciti e
piemontesi. Furono questi i motivi del malcontento che sfociò in aperta
ribellione.
Altre cause del brigantaggio postunitario
furono certamente sia la mancanza della spartizione delle terre sia la mancanza
della restituzione della terre demaniali usurpate, che i contadini reclamavano.
La borghesia dopo le prime false promesse gettò la maschera populista e
rivoluzionaria ed imboccò apertamente la strada della repressione armata. La
radicalizzazione della lotta contadina spinse naturalmente all’alleanza con il
Borbone. Francesco II, nemico dei piemontesi e dei possidenti vendutisi al
nuovo regime, diventa automaticamente un alleato.
Dai piemontesi vennero dati alle fiamme
interi villaggi, vi furono esecuzioni sommarie, civili furono arrestati in
massa. I bandi dei comandi militari piemontesi sono simili a quelli nazisti
nell’Italia occupata; Marzabotto non è stata inventata dalle SS tedesche.
Quella dei briganti fu una rivolta che
accese tutto il Mezzogiorno e che impegnò in una vera e propria guerra
l’esercito piemontese composto di oltre centoventimila uomini. Questi soldati
fecero più vittime di quanto non ne ebbero tutte insieme le guerre
dell’indipendenza italiana.
I personaggi che occuparono quel primo
decennio unitario sono visti da Ludovico Greco al rovescio: «e cioè non più
come santi i liberali e i piemontesi, e non più come diavoli i briganti».
Personaggi quindi visti sotto un altro aspetto, non quello con cui erano visti
dagli amici, ma quello con cui erano
visti dai nemici. E per la loro
descrizione nel libro viene lasciata la parola ai protagonisti e ai testimoni
dell’epoca, soprattutto della parte perdente.
Garibaldi fu un mediocre Generale, senza
alcuna scienza militare né coraggio guerriero; vinse perché i comandanti
borbonici erano stati comprati e diedero ordini ai soldati napoletani perché si
ritirassero. Cavour fu abilissimo nell’usare la politica per fare quattrini. Il
re Vittorio Emanuele II fu debole e rozzo; le sue principali passioni erano le
donne, i cavalli e la caccia; era geloso di Garibaldi; si tingeva i capelli.
Liborio Romano fu un avvocaticchio arruffone e imbroglione: liberale con i
liberali, borbonico con il re Borbone; senza soluzione di continuità fu
ministro di Francesco II e subito dopo di Garibaldi.
José Borges (nel libro scritto alla
francese Borjès), generale catalano, avrebbe dovuto riconquistare il Regno
delle Due Sicilie, ma venne fucilato dai piemontesi. Carmine Crocco, fu un
generale dei contadini, che riuscì a raccogliere intorno a sé oltre mille
briganti e conquistò molti paesi; morì in carcere all’età di 75 anni. Il
sergente Pasquale Romano di Gioia del Colle (Bari) ebbe grande intraprendenza
fra i briganti lottando per i Borboni; fu ucciso dai piemontesi e venerato come
martire dai suoi compaesani.
Un capitolo del libro di Greco è intitolato
“Piemontesi go home!” (Piemontesi andatevene a casa!). È risaputo che pochi
nell’ex capitale Napoli erano liberali, anzi la grande maggioranza è rimasta
legata al re Borbone Francesco II. Il plebiscito di annessione all’Italia del
21 ottobre 1860 fu una farsa, chi aveva intenzione di votare NO provava il
bastone e il coltello.
La rivolta contadina ed il brigantaggio
furono un susseguirsi di lutti e massacri. Per i piemontesi i briganti sono
banditi, poveracci e basta, che bisogna prendere e fucilare. Rinasce la Vandea
(rivolte soprattutto di contadini, la prima nel 1793, contro il governo
francese, represse nel sangue), dissero i legittimisti europei. Nino Bixio
fucilò in piazza. I paesi di Pontelandolfo e Casalduni furono letteralmente
messi a fuoco. Si veniva fucilati all’istante. La legge Pica (dal nome del
promotore) contro il brigantaggio dava in pratica il governo del Meridione ai
militari. Il brigante Ninco Nanco fu ucciso a tradimento.
Verso la fine del libro sono riportate le
ottave più significative del poemetto, che il poeta napoletano Ferdinando Russo
scrisse e pubblicò cinquant’anni dopo degli avvenimenti, sul coraggio del re
Francesco II e della giovanissima regina Maria Sofia durante l’assedio di Gaeta
ʾO surdato ʾe Gaeta.
Sono poi trascritte delle lettere
minacciose e sgrammaticate che i briganti scrivevano per chiedere viveri e
moneta per i combattenti della montagna.
Ed infine sono raccolti i testi di canti
popolari dell’epoca brigantesca. Caratteristica comune a tutti i canti è il
rifiuto della nuova condizione di «italiano» e il richiamo «a volte nostalgico
a volte fiero, alla condizione antica del Regno».
Ludovico Greco, Piemontisi, Briganti e maccaroni, Guida,
Napoli 1975, pp. 300
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