Nella
prefazione al libro di Fulvio Izzo “I lager dei Savoia”, Francesco Mario Agnoli
scrive che i briganti non erano quello che negativamente i piemontesi dicevano
ma soldati spesso provenienti dall’esercito regolare borbonico, che
continuavano a sentirsi cittadini di uno Stato carico di una storia secolare. E
se la fortuna delle armi e della politica avesse girato a loro favore, oggi
avrebbero sacrari e strade intitolate al loro nome; anzi dovrebbero averle se
ci trovassimo in un’Italia più civile, unita da liberi vincoli federali o
confederali e rispettosa di chi la pensa in modo diverso. Come avvenne in
America, dopo la guerra di Secessione, dove i vincitori compresero che il nuovo
Stato per divenire grande e forte avrebbe dovuto accettare le ragioni dei
vinti.
Ma la scoperta più amara, che il lettore
del libro fa, è che nel nostro civile paese sono esistiti, nell’immediato
periodo postunitario, “lager, gulag, campi di rieducazione” a Ponza, al Giglio,
alla Gorgona e in tutte le altre isole e scogli di domicilio coatto, nella
cittadella di Alessandria, nei “depositi” di Genova, di Rimini, di Casaralta
(Bologna), nel campo di concentramento e rieducazione di San Maurizio Canavese
nei pressi di Torino, ed infine sempre in provincia di Torino nella fortezza di
Fenestrelle dove venivano mandati i più riottosi.
E quanti furono i meridionali deportati in
questi campi di concentramento? Certamente non poche decine, ma molte migliaia.
Francesco Crispi nella tornata della Camera dei Deputati del 4 gennaio 1864, in
occasione della discussione sul nuovo disegno di legge di modifica alla legge
Pica, riferisce dell’attestato ufficiale del Prefetto di Girgenti che dichiara
che in quella provincia in un solo mese il numero dei detenuti nelle prigioni
furono trentadue mila. Basta moltiplicare quel numero per tutte le carceri
d’Italia per sapere quanti erano i detenuti in quegli anni.
La maggior parte di quei detenuti erano
ufficiali, soldati prigionieri e sbandati dell’esercito borbonico. In una prima
fase i detenuti furono sistemati nelle carceri napoletane e poi in una
successiva fase furono deportati al nord, lontano dai focolai di resistenza.
I prigionieri venivano inviati per la
maggior parte via mare a Genova per poi essere smistati nelle varie località di
destinazione: Fenestrelle, San Maurizio Canavese, Alessandria, S. Benigno,
Milano, Bergamo e così via. A Genova giungevano “bastimenti carichi di quegli
infelici, laceri, affamati, piangenti”. Talvolta per la disperazione quei
soldati si davano la morte, annegandosi in mare volontariamente. Uomini nati e
cresciuti in un clima caldo e dolce, come quello delle Due Sicilie, venivano
gettati a spasimar di fame e di stenti fra le ghiacciaie.
Negli ospedali militari di Genova la
mortalità nei primi mesi del 1861 fu tripla rispetto all’ultimo semestre del
1860; in un sol giorno si contarono fino a quattordici decessi, quasi tutti in
seguito ai mali trattamenti subiti.
Il calvario di questi maltrattamenti viene
raccontato in alcune testimonianze dell’epoca. I prigionieri durante i
trasferimenti venivano fatti dormire sul nudo lastrico delle chiese, o
addirittura all’aperto sulla terra, “il che non si fa coi cavalli, cui almeno
si getta sotto una bracciata di strame per coricarsi”. Stanno nel carcere con
poco vitto, senza vesti, senza conforto; patiscono la fame e la sete. Talvolta
vendono il pane per comprarsi un po’ di sapone per lavarsi l’unica camicia che
hanno.
Vengono rinchiusi i soldati napoletani
capitolati a Capua, a Gaeta, a Messina. La stessa sorte toccherà ai soldati
pontifici dopo la presa di Roma nel 1870. E per tutti insulti, sputi,
bastonate, sevizie, durante le marce di trasferimento. E poi la lunga
detenzione in condizioni volutamente inumane. Vige ancora il sistema delle bastonature,
dello spionaggio (delazione), delle celle di rigore (senza luce, senza aria,
senza spazio), della camicia di forza, della palla (due palle di circa dieci
chili appese ai polsi per non meno di dodici ore), del cassone (una specie di
bara nella quale il condannato è legato immobile), del puntale (collare di
ferro chiuso alla gola con apposito fermaglio), dei ferri corti (l’individuo è
legato mani e piedi per tenerlo raggomitolato sulla nuda terra).
A circa 140 anni dagli avvenimenti, scrive
Izzo nell’introduzione, non è ancora possibile ricostruire in modo preciso
l’odissea dei soldati borbonici prigionieri di guerra nella campagna del
1860-61, per il semplice motivo che il problema è stato totalmente e
volutamente rimosso non solo dalla memoria, ma anche dagli archivi. In questi
ultimi si trova molto materiale sui briganti, ma molto poco sui soldati
napoletani prigionieri.
Nel libro Izzo offre un’articolata
antologia, frammento per frammento, delle piccole tracce su quei soldati prigionieri
sulle quali è riuscito a mettere le mani, al fine di sottrarle all’oblio e al
silenzio destinato ai vinti.
L’esercito napoletano, che nel maggio 1860
contava circa 97.000 uomini, nel dicembre dello stesso anno si era quasi del
tutto disciolto. Rimanevano però più o meno consistenti nuclei di soldati, per
l’ultima difesa, a Gaeta, a Messina, a Civitella del Tronto. Già in quello
stesso periodo molti soldati napoletani venivano trasferiti al nord come
prigionieri di guerra; nel settembre del 1861, come scrive il 12.9.1861 il
giornale liberale Il Nomade, erano
diventati 32.000.
A Fenestrelle i prigionieri per il 22
agosto 1861 prepararono un piano di sollevazione per impadronirsi della
fortezza. Il disegno venne però scoperto; i rivoltosi furono disarmati; oltre
alle armi fu sequestrata anche una bandiera borbonica. La notizia ebbe un
impatto enorme. Anche al campo di San Maurizio si verificarono episodi di
rivolta.
Dai vari campi di concentramento si verificarono
continui e riusciti tentativi di fuga. I fuggitivi andavano ad infoltire le
bande dei briganti. Queste bande ebbero come capi non pochi ex soldati
borbonici.
Anche i magistrati meridionali, nel timore
che non si adeguino al nuovo corso piemontese, subiscono moltissimi
procedimenti epurativi. Il personale dell’amministrazione della giustizia
napoletana viene rinnovato per i nove decimi. I giudici si trovano alla mercé
delle maggioranze dei consigli comunali, nel frattempo rinnovati. L’ordine
giudiziario è completamente asservito al potere politico.
Si tenta anche di avere la concessione di
un’isola deserta per relegarvi, sbarazzandosene definitivamente, la massa
ingombrante dei prigionieri. Per fortuna questo progetto non andò in porto, per
l’opposizione dei vari governi stranieri interessati.
Il problema venne risolto con
l’emigrazione. Alle popolazioni meridionali sconfitte non restò altro che
battere la via dell’oceano. E le condizioni di vita degli emigranti non furono
migliori di quelle di un qualsiasi carcere.
Rocco Biondi
Fulvio Izzo, I lager dei Savoia, Controcorrente,
Napoli 1999 (seconda edizione 2005), pp. 240
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