Il Re di cui si parla è Francesco II,
ultimo re del Regno delle Due Sicilie.
E’ un libro che si schiera, a detta dello
stesso autore, dalla parte filo-borbonica, pur rispettando scrupolosamente la
verità storica, anche per la naturale inclinazione dell’autore a schierarsi
sempre dalla parte dei vinti e dei perdenti. I Borbonici vengono considerati
dalla storiografia ufficiale “negazione del diritto delle genti”, vigliacchi
che scappano davanti a pochi eroici garibaldini, autori di tutti i mali che
affliggono il Meridione. La verità è altra.
Il libro, che nel suo nucleo centrale raccoglie
i capitoli di un libro edito nel 1997, conserva l’impianto originario di agile pamphlet. I piemontesi, e inizialmente
per loro Garibaldi, sono stati degli invasori che hanno annesso i territori
appartenenti al Regno delle Due Sicilie. Vengono ora aggiunti, in questa
edizione, due articoli di Pietro Chevalier, pubblicati da “La Civiltà
Cattolica” nel giugno 1902, in cui si svelano “gli squallidi e meschini
retroscena di come fu fatta l’Unità d’Italia e dei personaggi che si piccarono
di farla, personaggi spesso da operetta e qualche volta anche un po’
cialtroni”. Chevalier era un diplomatico e patriota italiano, uomo di fiducia
di Cavour che lo mandò a Napoli come diplomatico presso la corte dei Borbone
negli anni decisivi 1859-1860.
Orazio Ferrara, che negli anni Settanta
appartiene al gruppo di giovani della destra estrema ed ha come punti di
riferimento gli studi di Carlo Alianello e Silvio Vitale, maturò una forte
identità meridionale. E queste radici squisitamente intellettuali, politiche o
ideologiche, erano corroborate dall’avere la madre siciliana e il padre
napoletano. Nato a Pantelleria, è vissuto per molti anni a Sarno in provincia
di Salerno in Campania.
Il libro si apre con il capitolo intitolato
“Il Sud liberato”, dove le parole libertà e giustizia sono scritte sulla punta
delle baionette dei soldati piemontesi, che pretendono che tutta l’Italia
diventi Piemonte. Il Sud viene “liberato dalla tirannia dei Borbone” con il
saccheggio e la rapina. Il capitale monetario del regno napoletano rapinato
ammontava a più del doppio degli altri Stati italiani messi insieme. E si
procede anche allo smantellamento sistematico dei cantieri navali napoletani,
delle fiorenti industrie, dell’artigianato, del commercio, dell’agricoltura. Il
Sud viene ridotto alla fame. Ma non basta, viene disintegrato completamente con
la leva obbligatoria, il carico fiscale pesante, la burocrazia farraginosa e
oppressiva, la mortificazione delle proprie tradizioni.
E il Sud si ribella con il brigantaggio. Il
Ferrara però usa il termine brigante solo nel senso negativo voluto dai
piemontesi invasori, noi invece lo usiamo solo ed esclusivamente nell’accezione
positiva di patrioti che difendono la loro terra e la loro patria. Dopo la
sconfitta del brigantaggio, ai meridionali non resta che l’emigrazione, che
dura fino ai giorni nostri.
Nel 1860 la battaglia di Calatafimi, in
Sicilia, non doveva assolutamente essere vinta dai soldati borbonici contro
quelli di Garibaldi, secondo quanto era già stato stabilito da occulti poteri
sovranazionali (leggi massoneria inglese e italiana). A questo fine molti
comandanti e generali napoletani, a cominciare da Francesco Landi, erano stati
comprati. I semplici soldati napoletani invece non riuscirono a nascondere la
loro rabbiosa amarezza di chi si è visto tradito. Molti di loro crearono e
accrebbero le bande brigantesche che per un decennio diedero filo da torcere
all’esercito italiano, mandato per oltre la metà a reprimerle.
I capi delle bande infatti (Pizzichicchio,
Cicquagna, Pirichillo, Coppa, Pilone, Romano, Chiavone, Crocco, ecc.)
provengono quasi tutti dai quadri del disciolto esercito borbonico. Nelle bande
brigantesche vi è una rigida disciplina pari a quella militare. Le razzie, i
saccheggi, le uccisioni e i sequestri rispondono alle tragiche e ineludibili
necessità della guerriglia e dell’autofinanziamento. Il segreto del successo
dei briganti per così lungo tempo sta nella perfetta conoscenza del terreno,
nella straordinaria mobilità e nella copertura avuta dalle popolazioni locali;
ma anche nella fede: accanto alla bianca bandiera gigliata sventolano anche i
colorati stendardi dei santi protettori e di bellissime Madonne.
I piemontesi ebbero ragione dei briganti
usando l’inganno e le fucilazioni sommarie, senza processo e difesa. La vulgata
nazionale insegnata per decenni nelle scuole fa acqua da tutte le parti. Una
folta schiera di studiosi sta rivisitando la nostra storia patria, senza temere
gli anatemi di revisionismo, lanciati dalle mummificate vestali di una vulgata
storica nazionale, “ormai buona solo per i gonzi”.
Dal Ferrara una sopravvalutazione viene
fatta dandogli una valenza troppo positiva, secondo noi, della figura del
legittimista catalano Rafael Tristany, che tra l’altro fece uccidere il
capobanda sorano Luigi Alonzi, detto Chiavone.
Merito del libro del Ferrara è l’aver messo
in luce fatti briganteschi poco noti. A cominciare dall’operato del brigante
sarnese Orazio Cioffi, che «si mostrava generoso con i deboli, gentile con le
donne, pietoso con i poveri; e in grazia di questo contava numerose simpatie in
campagna e in città».
Altri fatti che escono dal cono d’ombra,
nella quale sono stati relegati dalla storia ufficiale, sono quelli legati alla
banda Ribera. Operarono, con altri uomini, nella siciliana isola di Pantelleria,
che allora era controllata al centro dai reparti sabaudi, e per il resto era nelle
mani dei filo-borbonici. Per reprimere questa situazione fu mandato nell’isola
un colonnello a capo di un reggimento di fanteria. Per il tradimento di una
spia locale i ribelli furono intercettati in una vasta e profonda caverna. Dei quattro
fratelli Ribera tre furono condannati dai piemontesi all’impiccagione:
Giuseppe, Agostino e Pietro; mentre Giovanni riuscirà ad espatriare nelle Americhe.
Ancora oggi quella Grotta dei Briganti, a ricordo del sogno infranto dei
legittimisti panteschi, viene visitata da tanti turisti.
Altro capobanda del quale si parla
diffusamente nel libro è Antonio Cozzolino, detto Pilone. Nacque a Torre
Annunziata (Napoli), ma sin da piccolo tornò con la famiglia a Boscotrecase da
dove provenivano. Nell’esercito napoletano aveva raggiunto il grado di sergente
maggiore. Con la sua banda, che riesce a contare una quarantina di unità, riporta
diverse vittorie contro i piemontesi, anche spettacolari, ma per sopravvivere
esegue anche estorsioni e sequestri. Non è sanguinario, né assassino a sangue
freddo. Inafferrabile, il 14 ottobre 1870 viene colpito a morte con varie
pugnalate alle spalle perché tradito. Ma egli, conclude il suo libro il
Ferrara, «non è affatto morto, continua a cavalcare all’infinito per le strade
della nostra terra, cui è sentinella il Vesuvio, e nel cuore di chi non ha
dimenticato. Sempre.»
Rocco Biondi
Orazio Ferrara, Viva ’o Rre. Dalla conquista del Sud alla
guerra per bande, Capone Editore, Cavallino (Lecce) 2015, pp. 136, € 13,00
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