Il
libro raccoglie cinquantasei lettere, ordinate cronologicamente, dirette quasi
tutte al padre, dall’ingresso di Negri nell’Accademia militare di Ivrea (aprile
1859) alla sua partenza da Calitri (aprile 1862). Tre anni, in media una
lettera e mezzo al mese.
Lettere scritte in perfetto italiano. Ma
non tutti i moltissimi soldati mandati al Sud “alla caccia dei briganti” erano
così istruiti, anzi lo erano in pochissimi. Per lo più parlavano in dialetto.
Negri abbandonato l’esercito e lasciata quella “guerra atroce e bassa, dove non
si procede che per tradimenti e intrighi, in un’atmosfera di delitti e di
bassezze”, più da sbirro che da soldato, si diede ai suoi vasti ed eterogenei
interessi culturali e politici, divenendo sindaco di Milano dal 1884 al 1899, deputato
dal 1880 al 1882, infine nominato senatore nel 1890. Morì nel 1902 per una
caduta accidentale.
Ventenne avrebbe voluto seguire Garibaldi
nella conquista del Sud, ma il padre glielo impedì. Si iscrisse allora alla
Regia Accademia di fanteria presso la scuola militare di Ivrea, conseguendo
vari gradi della carriera militare. Entrò in servizio attivo venendo nel
napoletano quando esplose il fenomeno del brigantaggio e l’esercito italiano fu
impiegato massicciamente in una durissima repressione.
Inizialmente il Negri fu destinato a Napoli
città, dove giunse nei primi giorni del maggio 1861. “L’impressione che produce
su di me questo paradiso terrestre è vivissima e potente” scriveva al padre
nella lettera del 4 maggio. Napoli è la “più bella città del mondo, credo
davvero di sognare”. “Io non posso saziarmi di contemplare l’incantevole prospetto
del golfo, il movimento di Toledo e di Chiaja, la pittoresca bizzarria della
folla che vi si agita con tanto baccano”.
Perplessità invece esprime sulla
popolazione napoletana; “ciò che maggiormente colpisce al primo sguardo è la
miseria, e, più ancora della miseria, l’avvilimento in che è caduta”. E la
colpa secondo il Negri è dei Borbone: “i Borboni a Napoli sono profondamente
odiati”, scrive sulla falsariga di quanto volevano far credere i piemontesi.
Anche se si nota una qualche contraddizione con quanto il Negri afferma nella
lettera al padre del 23 ottobre 1861: “Quello che poi mi fa sommo piacere, è di
trovare in queste popolazioni uno spirito assai migliore di quello che
generalmente si creda”; e nella lettera del 9 dicembre 1861 scrive ancora: “Hai
torto di chiamare le provincie napoletane un ricettacolo di delitti. E’ un
giudizio troppo severo ed anzi ingiusto”.
All’inizio del suo servizio nel Sud, scriveva
da Vallata il 5 novembre: “I briganti in queste parti continuano ad essere
invisibili”. Ed ancora il 10 novembre 1861: “Il comico della cosa sta in ciò,
che i briganti non ci sono mai; e credimi fermamente che la loro esistenza è un
mito, e tutti coloro che li vedono sono in potere di una allucinazione”. Ma ben
presto dovrà cambiare opinione.
Il 16 novembre, sempre da Vallata,
scriveva: “Siamo riesciti a fare un colpo molto importante, essendoci impadroniti
di otto terribili briganti che infestavano questo distretto e se ne stavano
appiattati in una deserta e lontana masseria”. Il 28 novembre 1861 poi, in una
lunga lettera al padre, Negri fa una sintesi del brigantaggio da lui conosciuto:
“Le orde brigantesche si dividono ora in tre grandi schiere. Quella di Chiavone
ai confini romani; quella di Cipriani [i fratelli La Gala] nelle provincie di
Avellino e di Benevento; finalmente la banda di Crocco Donatelli, che infesta
la Basilicata, e, fatta più potente e numerosa per l’arrivo degli Spagnuoli
capitanati da Borjes”.
In una lettera al padre dell’agosto 1861,
Negri parla “degli errori di Pontelandolfo”. “Gli abitanti di questo villaggio
commisero il più nero tradimento e degli atti di mostruosa barbarie; ma la punizione
che gli venne inflitta, quantunque meritata, non fu per questo meno barbara. Un
battaglione di bersaglieri entrò nel paese [il 14 agosto], uccise quanti vi
erano rimasti, saccheggiò tutte le case, e poi mise il fuoco al villaggio
intero, che venne completamente distrutto. La stessa sorte toccò a Casalduni, i
cui abitanti si erano uniti a quelli di Pontelandolfo”.
Nello stesso agosto 1861, sempre da Napoli,
Negri scriveva al padre: “Pur troppo il brigantaggio nelle provincie è ben
lungi dall’essere scomparso, come si sperava che sarebbe avvenuto. Ogni giorno
avvengono degli scontri, che naturalmente hanno sempre un esito fortunato per
noi”.
Gaetano Negri, che comandò varie pattuglie,
per la lotta al brigantaggio ebbe due medaglie d’argento al valore. La prima
per un’azione condotta nei pressi di Montesarchio, lungo la strada di
Benevento, con trentasei soldati contro duecento briganti, come Negri scrive il
19 dicembre 1861. La seconda per il combattimento a Calitri del 7 aprile 1862,
durato tre ore, contro i briganti di Crocco, che ammontavano a 150 contro 34
soldati comandati da Negri; morirono otto soldati e una ventina di briganti,
come Negri scrive nelle lettere al padre dell’8 e 10 aprile 1862.
A Negri fu ordinato di cambiare spessissimo
residenza. E lamenta questo fatto nella lettera al padre del 7 marzo 1862: “Io
sono come l’Ebreo errante, colpito da un destino che m’impedisce di fermarmi in
un paese qualunque”. Stette a Napoli, a Lìveri, a Vallata, a Monte Vergine, a
Montesarchio, ad Ariano, a Bisaccia, a Teora, a Calitri.
In quest’ultimo paese Negri maturò la
decisione di dare le dimissioni dall’esercito. E nell’aprile 1862 scrive: “Non
voglio più saperne di cose militari, fino a quando non fischieranno un’altra
volta le palle; che spero non saranno più quelle dei briganti, ma di qualche
nemico meno feroce e meno ignobile”.
Ma intanto le palle dei briganti e dei
soldati piemontesi continueranno ancora a fischiare per molti anni al Sud.
Rocco Biondi
Gaetano Negri, Alla caccia dei briganti, Edizioni
Ofanto, Salerno 2000, pp. 86
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