L’idea
di Nazione napoletana nasce da lontano e non è quindi una costruzione
fantasiosa degli ultimi anni. Con l’arrivo di Carlo III di Borbone a Napoli nel
1735, scrisse Antonio Genovesi nel 1754, si cominciò ad avere una Patria e ad
interessarsi dell’onore della nazione. E quando nel 1860 il Regno delle Due
Sicilie venne invaso e annesso al Piemonte, chi lo difese aveva come
riferimento culturale la storia di un regno con sette secoli di vita, a partire
da ben prima quindi della dinastia Borbone. Quando qualcuno minaccia la propria
casa, mette in discussione i propri valori e i propri affetti, il proprio
futuro, scrive Di Fiore, si corre alle armi per difendersi. Si combatte per la
sopravvivenza della propria patria, anche se destinata a scomparire.
E non sono solo i briganti a combattere e
morire, ma anche ufficiali e soldati dell’esercito borbonico morti a
Calatafimi, Milazzo, Palermo, Volturno, Garigliano, Mola, Gaeta, Messina. Di
quei combattimenti si conoscono i caduti piemontesi e garibaldini, dei
borbonici napoletani quasi nessun libro di storia ne parla. Vinti e dimenticati
sono coloro che scelsero di rimanere fedeli alle Due Sicilie, additati solo al
disprezzo. Negli Stati Uniti, i confederati vinti e il loro esercito in giubba
grigia sono ricordati anche nei musei, al pari dei vincitori. Da noi prevale la
“damnatio memoriae”. Ma forse raccontare qualcuna delle storie di quei vinti
può portare nuova luce sulla Nazione napoletana.
Da queste premesse nasce il libro di Gigi
Di Fiore. Si parte dal passato per approdare all’oggi. E’ la storia dei
“suddisti”, termine che Di Fiore libera da ogni connotazione negativa,
rivalutando le radici culturali e storiche del Meridione.
Carlo Filangieri, nato nel 1784, iniziò la
sua formazione nella più prestigiosa scuola militare francese di allora.
Divenne ufficiale e combatté per Napoleone Bonaparte, che conobbe personalmente.
Ma si sentiva sempre napoletano. Trasferito a Napoli entrò nell’esercito
napoletano con il grado di capitano. Combatté la guerra di Spagna. Ritornato a
Napoli fu a fianco di Gioacchino Murat. Fu ferito ad una gamba e rimase zoppo
per tutto il resto della vita. Sciolto l’esercito murattiano, fu a fianco del
re delle Due Sicilie Ferdinando I, che però poi lo destituì dal grado militare.
Ritornò a combattere per i Borbone quando divenne re Ferdinando II. Con
Francesco II divenne primo ministro e titolare del dicastero della guerra; ma
caduto in minoranza si ritirò a vita privata. Morì a ottantaquattro anni. Era
stato accanto a cinque re di Napoli e Sicilia. Nel museo di famiglia a lui
dedicato, in ogni oggetto a lui appartenuto si respira l’orgoglio di sentirsi
napoletano.
Il siciliano Matteo Negri, figlio di un
militare, fece i suoi studi alla Nunziatella. Durante il regno di Francesco II
divenne colonnello. Nonostante il padre avesse tradito, passando con i
piemontesi, Matteo rimase sempre fedele al re napoletano. Combatté sul Volturno
e sul Garigliano, dove morì in combattimento. Ma per lui vinto gli viene
destinato solo oblio e disprezzo.
Il tenente generale Francesco Traversa
comandava l’arma del Genio nella fortezza assediata di Gaeta, spicchio residuo
della Nazione napoletana a fine 1860 ed inizio 1861. Nonostante avesse
settantaquattro anni, conservava ancora abbastanza energia per restare al suo
posto, accanto al re Francesco II. Rimase lì anche per riscattare il
comportamento del figlio Luigi, ex allievo della Nunziatella, che a trent’anni
aveva disertato. Molti altri avevano fatto scelte di campo diverse rispetto a
fratelli, figli, genitori. Il 5 febbraio 1861 fu colpita la batteria
Sant’Antonio, dove erano rinchiusi 7000 chili di polvere da sparo e 40 000
cartucce da carabina e fucile. Fu una carneficina. Fra i morti ci fu anche il
generale Traversa. Con lui morì il suo vice Paolo de Sangro, colonnello dell’esercito
borbonico.
Di Fiore parla poi di tanti altri
ufficiali, sottoufficiali e soldati, ignorati dalla storia, che morirono senza
abbandonare la loro patria e la nazione napoletana: Ferdinando De Filippis,
Domenico Bozzelli, Aloisio Migy, Giuseppe Maria Solimene, i fratelli Quandel
(Ludovico, Pietro, Giuseppe).
Dopo la resa molti militari dell’esercito
napoletano furono spediti in campi di concentramento del nord. Tristemente famoso
fu quello di Fenestrelle, dove morirono in molti. Qualunque sia la cifra finale
dei morti, scrive Di Fiore, resta sempre una macchia per l’unità d’Italia: si
trattava di italiani catturati da altri italiani, in una guerra non dichiarata.
Un uomo di penna e non di spada fu
l’avvocato e giudice Pietro Calà Ulloa. Si definì un liberale moderato, ma le
sue idee non si allontanarono mai dal concetto di fedeltà per la Nazione napoletana.
Credeva, scrive Di Fiore, nei governi costituzionali, ma pensava di poterli
realizzare nella sua patria e con la dinastia borbonica del Sud. Non si fece
mai tentare dalla causa unitaria. Fu l’ultimo capo del governo borbonico in
esilio. Morì nel 1879 a settantasette anni, con la convinzione, sempre uguale,
che l’unità d’Italia fosse contro la storia e le identità territoriali.
Altri uomini non militari che rimasero
sempre legati alla Nazione napoletana, di cui si parla nel libro di Di Fiore,
furono: Enrico Cenni (neoguelfa che puntava a una confederazione di Stati
italiani, ognuno con la propria autonomia, sotto l’autorità del papa; lavorò
sotto i borbonici nell’avvocatura dello Stato; con l’avvento dei piemontesi fu
allontanato dal suo posto e morì in miseria), Giacomo Savarese (grande esperto
di bonifiche di terre paludose; anche lui non credeva all’unità d’Italia, era
favorevole a una forma di federalismo che riconoscesse l’autonomia del
Mezzogiorno), Francesco Proto (anche se eletto deputato nel primo parlamento
del regno d’Italia nel 1861, rimase sempre un anarcoide, che sfuggiva a ogni
imbrigliamento e a ogni direttiva rigida di qualsiasi partito; presentò una sua
mozione, che non fu mai letta in parlamento, ma fu passata ai giornali che la pubblicarono,
in essa parlava di tirannide e rapacità piemontese, definendo gli avvenimenti
del 1860-61 una invasione e non unione).
Un capitolo del libro è dedicato allo
smantellamento dell’industria meridionale, a cominciare dall’opificio di
Pietrarsa, per molti anni diretto dal colonnello Luigi Corsi. La sua struttura
contava 34000 metri quadri, con officine per locomotive, una fonderia con sei
fornaci per la ghisa e una più piccola per il bronzo, reparto lavorazione
caldaie, fucineria, magazzini, biblioteca. Nel giugno 1860 dava lavoro a 1050
persone, che nel 1875 erano diventati solo 100. Fu chiusa definitivamente a
vantaggio dell’Ansaldo di Genova. Contro la sua chiusura già il 6 agosto 1863
gli operai organizzarono la prima rivolta operaia dell’Italia unita. Contro di
essi, che erano disarmati, furono mandati i bersaglieri, armati di fucili, che
spararono uccidendo quattro operai.
Il libro si chiude sul “gran rifiuto”
opposto dal giornalista e scrittore Pino Aprile a diventare leader politico di
un movimento unitario di gruppi e associazioni meridionali.
Ma «la Nazione napoletana è oggi uno
spirito e una cultura senza tempo, un valore che nasce dalla storia per
diventare identità eterna» conclude Gigi Di Fiore.
Rocco Biondi
Rocco Biondi
Gigi Di Fiore, La Nazione Napoletana. Controstorie borboniche e identità suddista,
Utet De Agostini Libri, Novara 2015, pp. 352, € 18,00
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