23 gennaio 2015

Il Sergente Romano, di Mario Guagnano



Mario Guagnano nell’introduzione e Pino Aprile nella prefazione offrono una lettura meridionalista dei fatti avvenuti in Puglia e in particolare a Gioia del Colle, in provincia di Bari, negli anni dal 1861 al 1863.
     Pino Aprile inquadra gli avvenimenti storici di quegli anni nel più generale movimento, cosiddetto Risorgimento, che ritiene essere stato un bagno di sangue nascosto sotto cumuli di retorica. I massacri perpetrati dai piemontesi e quelli dei briganti, scrive Pino Aprile, non possono essere messi sullo stesso piano; la ferocia degli uni e degli altri ha un’origine diversa: volendo i piemontesi opprimere e i briganti non essere oppressi. Il Sud fu cancellato dalla storia; i valori di un terzo della popolazione italiana furono calpestati e diffamati.
     Mario Guagnano nella introduzione scrive che il grande brigantaggio fu indotto da una serie di errori commessi dal nuovo governo sotto pressione delle alte gerarchie militari. Il primo fu quello di sciogliere l’esercito borbonico, con il successivo provvedimento di chiamata alle armi, per vestire la nuova divisa dell’esercito sabaudo. Il secondo errore fu quello di sciogliere nel gennaio del 1861 il comando generale dei volontari garibaldini di stanza a Napoli che poteva contare su una forza di 76.000 uomini di cui oltre i due terzi provenienti dalle regioni meridionali.
     Molti dei soldati sbandati dell’uno e dell’altro esercito, per sopravvivere, imbracciarono le armi e si nascosero nei boschi, dando vita a molte bande armate. In quasi tutti i paesi del Sud le popolazioni inalberavano i vessilli borbonici e inneggiavano per il sovrano decaduto.
     Per i piemontesi il brigantaggio divenne un incubo. L’impiego di 120.000 uomini del giovane esercito fu il riconoscimento implicito dell’importanza politica e militare del brigantaggio, in contrasto con la propaganda ufficiale che dinanzi all’opinione pubblica interna ed estera ne sottolineava i soli aspetti episodici e ladronecci, scrive ancora Guagnano.
     Il nuovo governo unitario alla reazione del Sud rispose con le fucilazioni di massa, operate soprattutto nei confronti degli individui appartenenti alle classi più umili.
     In questo contesto si svilupparono i fatti che culminarono con il massacro del 28 luglio 1861 a Gioia del Colle. Già nel dicembre 1860 a Santeramo, in provincia di Bari e che dista da Gioia una quindicina di chilometri, vi era stata una rivolta, capitanata dall’ex sergente borbonico Giuseppe Perniola, al grido di “Viva Francesco II”, alla quale avevano preso parte circa quattromila persone, tra uomini e donne di tutte le età, armate di fucili, falcioni, scuri e mazze, allo sventolio di bandiere bianche borboniche. I Nazionali piemontesi intervennero con due cannoni, che misero in fuga i rivoltosi. Seguirono molte perquisizioni ed arresti dei rivoltosi. A queste operazioni intervenne, con molti uomini, la Guardia Nazionale di Gioia del Colle.
     Intanto in quest’ultimo paese si era formato un Comitato borbonico, forte di circa settecento adesioni, che nominò Comandante generale l’ex sergente e alfiere borbonico Pasquale Romano. Attorno a lui si riunirono soldati sbandati dell’ex esercito borbonico e renitenti alla leva voluta dai piemontesi, raggiungendo circa duecento uomini.
     La scintilla che fece scoppiare i tragici fatti di Gioia fu l’uccisione da parte di quattro briganti, dopo un diverbio e una colluttazione, del caporale della Guardia Nazionale di Gioia Teodorico Prisciantelli. Il sergente Romano non approvò. I nazionali risposero con perquisizioni, arresti e un grande concentramento di guardie e di militi per andare all’assalto dei briganti del Romano. Questi fu costretto ad assecondare la volontà della maggioranza della sua comitiva di andare all’assalto di Gioia.
     L’avvicinamento al paese da parte dei rivoltosi avvenne intorno alle dieci del 28 luglio. Le prime case assediate furono quelle poste nell’immediata periferia del paese, con l’assalto ai borghi San Vito e Pignatari. Drappi bianchi sventolavano per le strade, molti cittadini si erano aggregati agli assalitori, e si urlava: “Viva Francesco II, abbasso Vittorio Emanuele”. Furono uccisi diversi uomini di fede liberale. Il rancore serbato da alcuni popolani, scrive Guagnano, contro i militi della Guardia Nazionale per gli arresti dei loro congiunti effettuati nei giorni precedenti aveva acceso un odio incontrollato. Fu occupato l’intero borgo San Vito popolato da circa tremila persone. Il predominio dei rivoltosi fu fermato da un colpo d’artiglieria sparato a mitraglia. Rimasero a terra morti e feriti. I rivoltosi tentavano di uscire dal borgo respinti però da un fuoco di sbarramento. Il conflitto andò avanti per diverse ore, ma verso le tre pomeridiane la situazione prese una svolta a favore dei nazionali. Iniziarono le esecuzioni sommarie dei rivoltosi, che raggiunti dai militari venivano uccisi sul posto.
     Difficile, scrive ancora Guagnano, tracciare un bilancio preciso delle vittime e descrivere le esecuzioni compiute dai Nazionali per l’unilateralità dei rapporti e resoconti stesi dalle autorità che riferivano con dovizia le crudeltà compiute dai rivoltosi, occultando invece la feroce repressione operata.
     Molti arresti furono eseguiti anche nei giorni successivi alla rivolta. Il Sergente Romano riuscì a sfuggire alla cattura.
     La parte seconda del libro parla della breve vita del sergente Romano e del Brigantaggio politico in Puglia. Pasquale Romano era nato a Gioia del Colle il 24 settembre 1833, da genitori poveri: pastore il padre e filatrice la madre. Giovanissimo si arruolò nell’esercito borbonico, rimanendo in quei ranghi militari per un decennio, ottenendo la nomina a primo Sergente e il titolo di Alfiere. Dopo la smobilitazione dell’esercito napoletano, ritornato a Gioia, fu nominato dal locale comitato borbonico Comandante Generale delle squadre insorgenti di Gioia.
     Successivamente, nell’agosto del 1862, in una grande grotta del bosco Pianelle nel territorio di Martina Franca (Ta), ottenne il comando supremo delle bande brigantesche pugliesi. A nominarlo furono i condottieri Cosimo Mazzeo detto Pizzichicchio, Giuseppe Valente detto Nenna Nenna, Giuseppe Nicola Laveneziana detto Figlio del Re, Antonio Locaso detto il Capraro, Antonio Testino detto il Caporale, Scipione De Palo detto la Sfacciatella, Tito Trinchera detto Titta, Rocco Chirichigno detto Coppolone, Francesco Monaco.
     Il Romano operò dal 1861 al gennaio 1863. Sotto il suo comando le bande brigantesche ottennero vittorie e sconfitte. Vinsero a Santeramo, Gioia, Castellaneta, Mottola, Noci, Putignano, Alberobello, Locorotondo, Martina Franca, Cellino San Marco, Grottaglie, Carovigno, Erchie. Uno dei principali fattori di vantaggio per le bande a cavallo fu la loro eccezionale mobilità. Il modo di combattere contro la forza regolare era quello tipico della guerriglia. Esperti dei luoghi, i briganti prediligevano campi di battaglia dove in caso di insuccesso fosse possibile una sicura e rapida ritirata.
     Una delle più gravi sconfitte subite dai briganti avvenne il primo dicembre 1862 presso la masseria Monaci di San Domenico, posta tra i territori di Noci e Mottola. La disfatta della masseria Monaci segnò la fine della condotta unitaria delle bande pugliesi. Le varie comitive di briganti si ritirarono ognuna nel suo territorio di provenienza. Il sergente Romano, ridimensionato nel suo prestigio, riorganizzò la sua comitiva con quarantadue uomini e attaccò i nazionali in vari luoghi.
     L’epilogo del Sergente Romano avvenne il 5 gennaio 1863 presso il Parco della Corte, nel bosco Vallata nei pressi di Gioia del Colle, dove si era appostato con una quarantina di uomini. I nazionali assaltarono la comitiva del sergente. Il bilancio ufficiale dell’operazione parla di ventidue briganti uccisi e di venti che riuscirono a fuggire. Fra gli uccisi vi fu anche Pasquale Romano, il cui cadavere fu legato sul dorso di un asino e portato in segno di vittoria a Gioia. I resti del sergente, dicono le cronache, furono meta di un pellegrinaggio di gente comune e dei sostenitori del partito filoborbonico.
     Il libro si chiude con le cronache della fine dei più importanti gregari del Sergente e con alcuni cenni sulla relazione della Commissione parlamentare d’inchiesta sul brigantaggio, con riferimenti al Sergente Romano e alla città di Gioia.
Rocco Biondi

Mario Guagnano, Il Sergente Romano. Pagine di brigantaggio politico in Puglia, prefazione di Pino Aprile, Edizioni Radio, Putignano (Ba) 2013, pp. 160, € 11,00

2 gennaio 2015

Il Sergente Romano, di Antonio Lucarelli



La prima edizione de “Il Sergente Romano” di Antonio Lucarelli fu pubblicata a Bari nel 1922 presso la Società Tipografica Pugliese. Una seconda edizione, con avvertenza iniziale dello stesso Lucarelli, vide la luce nel 1946 presso la Laterza. Nel 1982 la Longanesi raccoglieva insieme, in un unico volume con prefazione di Leonardo Sciascia, gli scritti sul sergente Romano e quelli sui briganti preunitari Gaetano Vardarelli e Ciro Annicchiarico, tutti e tre del Lucarelli. Nel 2003 infine il volume sul sergente Romano veniva ripubblicato dalla Palomar, con prefazione di Giuseppe Giacovazzo.
     Il Lucarelli era un risorgimentalista antiborbonico. Riteneva infatti quella borbonica la “più esosa delle tirannidi”. Parimenti considerava un fenomeno totalmente negativo il brigantaggio e i briganti, che vengono appellati torma di volgari condottieri, ciurme, fanatiche turbe, branco di facinorosi, groviglio d’interessi malsani ed obliqui, predoni, orda, masnade, malandrinaggio, furfanti, forsennati. Anche se una qualche contraddizione la si riscontra laddove il Lucarelli scrive che se con la parola “brigantaggio” «si vuol designare quella manifestazione collettiva e simultanea nella ricorrenza di gravi crisi politiche e di convulsioni sociali, esso allora va considerato come un qualsiasi fenomeno storico, degno di studio nelle cause e negli effetti. Il brigantaggio in tal caso, nonostante le sue detestabili malefatte, è lotta dichiarata ed aperta contro le ingiustizie …».
     Altra interessante e condivisibile osservazione è quella dove il Lucarelli afferma che «le scritture documentarie, quasi tutte di fonte borghese, mentre narrano con larga copia di particolari l’efferatezza e gli eccidi dei reazionari, sono piuttosto parche d’informazioni e alquanto discordi» laddove si riferiscono alle tante malefatte dei piemontesi.
     Per il Lucarelli comunque fra i briganti emergeva la figura di Pasquale Domenico Romano di Gioia del Colle. Figlio d’un pastore di nome Giuseppe e di Angela Concetta Lorusso, ebbe naturale ingegno, pertinace volontà, indole intraprendente. Durante la permanenza, quasi decennale, nell’esercito borbonico, imparò a leggere e scrivere, e meritò i gradi di sergente e di alfiere. Dopo lo scioglimento dell’esercito napoletano ad opera dei piemontesi, nel gennaio 1861 tornò al paese natale, dove dalle autorità fu accolto con sospetto e dileggiato in quanto soldato sconfitto.
     Ben volentieri accolse la designazione da parte del locale comitato borbonico a “comandante generale” del clandestino “esercito” che si prefiggeva di riportare il re Francesco II sul trono di Napoli. Fu costretto ad affrontare la vita raminga dei boschi, divenendo comandante di circa duecento briganti. Per il Lucarelli «lo sciagurato sergente, una volta presa la china sdrucciolevole dell’errore, di disgrazia in disgrazia, di fallo in fallo, da reazionario e borbonico divenne, per necessità ineluttabile, masnadiero e bandito». Per noi invece il Romano divenne un cosciente brigante (termine dalla connotazione solo positiva), che lottò fino alla morte per il suo re, la sua patria, la sua terra, la sua famiglia.
     Il sergente Romano, che suscitò in Puglia tanto favore di popolo, stendendo dappertutto una larga rete di fiancheggiatori, riuscì a tenere la campagna per trenta mesi. Nell’agosto del 1862 in una grotta del bosco Pianelle, nei pressi di Martina Franca, alla presenza dei capibriganti, il Romano ottenne il comando supremo del brigantaggio pugliese.
     Già il 28 luglio 1861 la banda comandata dal Romano aveva assaltato con successo il rione S. Vito di Gioia del Colle. Il Lucarelli ritiene che le cause di carattere politico e sociale non sono sufficienti a chiarire l’origine dei conflitti che sfociarono nella guerra civile di Gioia in quell’estate del 1861; ad esse bisogna aggiungere motivi di natura locale, inerenti all’indole di quella cittadinanza. «Risolutezza di carattere, insofferenza di soprusi, ardore di passioni costituiscono le doti preminenti di quei cittadini, che sono, soprattutto, rigidissimi e gelosi custodi dell’onore personale», scrive il Lucarelli. I morti di quella giornata variano, a seconda delle fonti, da cinquantuno a circa centocinquanta.
     Il libro poi si sofferma sugli altri fatti di brigantaggio che si svolsero in Puglia, quasi tutti con la partecipazione del Romano fino alla sua morte: assalto al quartiere delle guardie nazionali di Alberobello, salvataggio della vita ad opera del sergente Romano di nove guardie nazionali che avevano invocato la Madonna del Carmine, invasione di Carovigno, disfatta della banda Romano presso la masseria dei Monaci di San Domenico tra Noci ed Alberobello: molti briganti muoiono ma il Romano riesce a fuggire.
     Il sergente Romano verrà ucciso a sciabolate il pomeriggio del 5 gennaio 1863 nel bosco di Vallata, nei pressi di Gioia del Colle, dai piemontesi cavalleggieri di Saluzzo. Insieme a lui morirono altri ventuno briganti.
     Scrive il Lucarelli: «Nell’intervallo di tempo che corse dall’estate del 1861 all’autunno del 1863 si svolsero in Puglia le gesta più formidabili del brigantaggio; il quale, per audacia di tentativi e per numero di seguaci, arrivò a tal segno da infrangere la fiducia d’ogni classe di cittadini nelle nuove istituzioni». E le nuove istituzioni, aggiungiamo noi, erano quelle dei piemontesi invasori del Regno delle Due Sicilie.
     Merito comunque del libro del Lucarelli è quello di aver cominciato a tirare fuori dall’oblio i briganti, termine quest’ultimo che per noi (lo ripetiamo) ha solo ed esclusivamente una connotazione positiva.
Rocco Biondi

Antonio Lucarelli, Il sergente Romano. Brigantaggio politico in Puglia dopo il 1860, Palomar, Bari 2003, pp. 206

6 dicembre 2014

Il Sergente di Francesco II, di Maria Landi


Il mondo universitario sempre più si interessa del brigantaggio postunitario. Sono frequenti le tesi di laurea su questo tema. Per lo più si conserva una equidistanza tra la valutazione totalmente negativa che ritiene i briganti puri delinquenti e quella positiva che li considera insorgenti e partigiani. E’ il caso della tesi di Maria Landi, tenutasi nel febbraio 2014 presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Salerno, dal titolo “Il Sergente di Francesco II. Mito e storia del brigantaggio meridionale attraverso la biografia di Pasquale Romano”.
     La tesi, piuttosto snella, sintetizza in una prima parte alcuni scritti sulle motivazioni generali che portarono al brigantaggio e sulla figura certamente tra le più significative fra i briganti: Pasquale Romano di Gioia del Colle in provincia di Bari; in una seconda parte poi si rende conto delle tante iniziative che ai giorni nostri vengono tenute sul Sergente Romano, a testimonianza della rivalutazione e dell’interesse che tuttora suscita il fenomeno del brigantaggio postunitario; ed infine vengono riprodotte molte immagini che documentano tali rivalutazioni ed interesse che in modo sempre crescente provoca la figura del Romano.
     Per spiegare la crisi del Regno delle Due Sicilie si ripetono le valutazioni positive sul Risorgimento italiano in genere e sul Risorgimento nel Mezzogiorno, per approdare infine alle motivazioni che portarono al brigantaggio meridionale postunitario. Di quest’ultimo si afferma che fu un fenomeno complesso, che mise a dura prova il neonato Stato Unitario, costringendolo ad impiegare 120.000 uomini per la sua repressione. Una differente politica del governo piemontese avrebbe potuto ridimensionare questo fenomeno. Nella sua tesi Maria Landi sostiene che «la mancata conoscenza dei reali problemi del Meridione, la scarsa importanza riservata dalla Destra moderata alla risoluzione della “questione demaniale”, insieme ad una “politica di conciliazione”, condotta nei confronti delle forze legittimiste e clericali, portarono ad una vera guerra civile fra italiani».
     Particolare rilievo vien dato al brigantaggio in Terra di Bari ed ovviamente alla reazione di Gioia del Colle dell’estate 1861, capeggiata dal sergente Pasquale Romano. La rivolta raggiunse l’apice nel borgo San Vito, dove molti abitanti si unirono ai briganti al grido di “Viva Francesco II” e marciarono verso Gioia. Ma la loro avanzata fu bloccata dalla Guardia Nazionale che li costrinse a rifugiarsi nel borgo, dove vennero effettuati saccheggi e violenze. La repressione dei piemontesi fu feroce con esecuzioni sommarie.
     Pasquale Romano riuscì a sfuggire e a ricostruire la sua banda con la quale nel novembre del 1862 assaltò vittoriosamente Carovigno, in provincia di Brindisi. Ma poi fu sconfitto dai piemontesi presso la Masseria Monaci.
     Il Romano, insieme ad altri briganti, riuscì nuovamente a sfuggire e decise di preparare un nuovo attacco al suo paese natio Gioia del Colle. Ma, tradito, i piemontesi lo attaccarono di sorpresa nel bosco Vallata, dove la sua banda fu sterminata e lui stesso cadde in combattimento. Era il 5 gennaio del 1863. Pasquale Romano, che era nato nel settembre 1833, aveva solo 29 anni. «Ebbe termine, così, - scrive Maria Landi - il sogno del sergente Romano di veder restaurato il regime borbonico».
      Ma non muoiono il ricordo ed il mito del sergente Romano, se nel 2006 è stata eretta una stele commemorativa nel luogo dove fu ucciso e presso la quale ogni 5 gennaio si celebra una manifestazione in suo onore, se a Villa Castelli (Brindisi) nel 2010 viene intitolata a lui una strada, se ancora oggi, a distanza di 150 anni dalla sua morte, libri, siti e blog, parlano bene di lui.
Rocco Biondi