La
prima edizione de “Il Sergente Romano” di Antonio Lucarelli fu pubblicata a Bari
nel 1922 presso la Società Tipografica Pugliese. Una seconda edizione, con
avvertenza iniziale dello stesso Lucarelli, vide la luce nel 1946 presso la
Laterza. Nel 1982 la Longanesi raccoglieva insieme, in un unico volume con
prefazione di Leonardo Sciascia, gli scritti sul sergente Romano e quelli sui
briganti preunitari Gaetano Vardarelli e Ciro Annicchiarico, tutti e tre del
Lucarelli. Nel 2003 infine il volume sul sergente Romano veniva ripubblicato
dalla Palomar, con prefazione di Giuseppe Giacovazzo.
Il Lucarelli era un risorgimentalista
antiborbonico. Riteneva infatti quella borbonica la “più esosa delle
tirannidi”. Parimenti considerava un fenomeno totalmente negativo il
brigantaggio e i briganti, che vengono appellati torma di volgari condottieri, ciurme,
fanatiche turbe, branco di facinorosi, groviglio d’interessi malsani ed obliqui,
predoni, orda, masnade, malandrinaggio, furfanti, forsennati. Anche se una
qualche contraddizione la si riscontra laddove il Lucarelli scrive che se con
la parola “brigantaggio” «si vuol designare quella manifestazione collettiva e
simultanea nella ricorrenza di gravi crisi politiche e di convulsioni sociali,
esso allora va considerato come un qualsiasi fenomeno storico, degno di studio
nelle cause e negli effetti. Il brigantaggio in tal caso, nonostante le sue
detestabili malefatte, è lotta dichiarata ed aperta contro le ingiustizie …».
Altra interessante e condivisibile
osservazione è quella dove il Lucarelli afferma che «le scritture documentarie,
quasi tutte di fonte borghese, mentre narrano con larga copia di particolari
l’efferatezza e gli eccidi dei reazionari, sono piuttosto parche d’informazioni
e alquanto discordi» laddove si riferiscono alle tante malefatte dei
piemontesi.
Per il Lucarelli comunque fra i briganti emergeva
la figura di Pasquale Domenico Romano di Gioia del Colle. Figlio d’un pastore
di nome Giuseppe e di Angela Concetta Lorusso, ebbe naturale ingegno, pertinace
volontà, indole intraprendente. Durante la permanenza, quasi decennale,
nell’esercito borbonico, imparò a leggere e scrivere, e meritò i gradi di
sergente e di alfiere. Dopo lo scioglimento dell’esercito napoletano ad opera
dei piemontesi, nel gennaio 1861 tornò al paese natale, dove dalle autorità fu
accolto con sospetto e dileggiato in quanto soldato sconfitto.
Ben volentieri accolse la designazione da
parte del locale comitato borbonico a “comandante generale” del clandestino
“esercito” che si prefiggeva di riportare il re Francesco II sul trono di
Napoli. Fu costretto ad affrontare la vita raminga dei boschi, divenendo
comandante di circa duecento briganti. Per il Lucarelli «lo sciagurato
sergente, una volta presa la china sdrucciolevole dell’errore, di disgrazia in
disgrazia, di fallo in fallo, da reazionario e borbonico divenne, per necessità
ineluttabile, masnadiero e bandito». Per noi invece il Romano divenne un
cosciente brigante (termine dalla connotazione solo positiva), che lottò fino
alla morte per il suo re, la sua patria, la sua terra, la sua famiglia.
Il sergente Romano, che suscitò in Puglia
tanto favore di popolo, stendendo dappertutto una larga rete di
fiancheggiatori, riuscì a tenere la campagna per trenta mesi. Nell’agosto del
1862 in una grotta del bosco Pianelle, nei pressi di Martina Franca, alla
presenza dei capibriganti, il Romano ottenne il comando supremo del
brigantaggio pugliese.
Già il 28 luglio 1861 la banda comandata
dal Romano aveva assaltato con successo il rione S. Vito di Gioia del Colle. Il
Lucarelli ritiene che le cause di carattere politico e sociale non sono
sufficienti a chiarire l’origine dei conflitti che sfociarono nella guerra
civile di Gioia in quell’estate del 1861; ad esse bisogna aggiungere motivi di
natura locale, inerenti all’indole di quella cittadinanza. «Risolutezza di
carattere, insofferenza di soprusi, ardore di passioni costituiscono le doti
preminenti di quei cittadini, che sono, soprattutto, rigidissimi e gelosi custodi
dell’onore personale», scrive il Lucarelli. I morti di quella giornata variano,
a seconda delle fonti, da cinquantuno a circa centocinquanta.
Il libro poi si sofferma sugli altri fatti
di brigantaggio che si svolsero in Puglia, quasi tutti con la partecipazione
del Romano fino alla sua morte: assalto al quartiere delle guardie nazionali di
Alberobello, salvataggio della vita ad opera del sergente Romano di nove
guardie nazionali che avevano invocato la Madonna del Carmine, invasione di
Carovigno, disfatta della banda Romano presso la masseria dei Monaci di San
Domenico tra Noci ed Alberobello: molti briganti muoiono ma il Romano riesce a
fuggire.
Il sergente Romano verrà ucciso a
sciabolate il pomeriggio del 5 gennaio 1863 nel bosco di Vallata, nei pressi di
Gioia del Colle, dai piemontesi cavalleggieri di Saluzzo. Insieme a lui
morirono altri ventuno briganti.
Scrive il Lucarelli: «Nell’intervallo di
tempo che corse dall’estate del 1861 all’autunno del 1863 si svolsero in Puglia
le gesta più formidabili del brigantaggio; il quale, per audacia di tentativi e
per numero di seguaci, arrivò a tal segno da infrangere la fiducia d’ogni
classe di cittadini nelle nuove istituzioni». E le nuove istituzioni,
aggiungiamo noi, erano quelle dei piemontesi invasori del Regno delle Due
Sicilie.
Merito comunque del libro del Lucarelli è
quello di aver cominciato a tirare fuori dall’oblio i briganti, termine
quest’ultimo che per noi (lo ripetiamo) ha solo ed esclusivamente una
connotazione positiva.
Rocco Biondi
Antonio Lucarelli, Il sergente Romano. Brigantaggio politico in
Puglia dopo il 1860, Palomar, Bari 2003, pp. 206
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