Francesco Romano, come il padre, faceva il
pastore. All’età di diciotto anni decise di arruolarsi volontario nella
carriera militare. Ottenne la nomina a Primo Sergente e la qualifica di Alfiere
nella compagnia a cavallo. Era vicino a diventare ufficiale quando il sogno fu
troncato. Ritiratosi il re borbone Francesco II nella fortezza di Gaeta,
sciolta la compagnia, ritornò nel suo paese, Gioia del Colle in Terra di Bari.
Aveva due sorelle.
A Gioia fu costituito un Comitato
Borbonico, che elesse come suo comandante l’ex sergente. Dopo l’uccisione del
caporale della guardia nazionale Teodorico Prisciantelli, ad opera di quattro
sbandati aggregatisi alla compagnia del Romano, quest’ultimo benché fosse
contrario abbracciò la volontà della maggioranza e decise di attaccare Gioia,
che resistette. Anzi vi fu una contro rappresaglia da parte dei piemontesi e
dei suoi alleati; molti resistenti furono fucilati. Il Romano riuscì a fuggire.
Pasquale incontra Crocco e Borges a
Lagopesole, per concertare sul da farsi. Ma il sergente rimase deluso della
inconsistenza dei programmi concreti dello spagnolo. Crocco offrì una cena,
durante la quale si continuò a parlare del futuro. Pasquale ricordò che un
tempo in Inghilterra visse Robin Hood che toglieva ai ricchi per dare ai
poveri; “ma adesso – aggiunse – la situazione è diversa: non siamo noi a dover
aiutare i contadini, ma sarà il nostro re Francesco, non appena tornerà sul
trono”.
Romano assaltò con successo Alberobello,
Carovigno, Grottaglie; avrebbe voluto unire la sua comitiva a quella di Crocco,
ma quest’ultimo non accettò. La comitiva del sergente subì una grave sconfitta
alla masseria dei Monaci di San Domenico.
Pasquale Romano fu ucciso nel bosco di
Vallata con una sciabolata in mezzo alla fronte da un brigadiere piemontese. Il
suo corpo fu portato in macabro corteo a dorso d’un asino, con i piedi e la
testa all’ingiù, a Gioia del Colle; un vecchio disse che non era stato ucciso
il sergente, ma uno che gli somigliava.
Nel romanzo si narra diffusamente dell’amore
fra Pasquale e Laura, figlia di don Ciccio d’Onghia, un ricco commerciante di
stoffe. Amore anche fisico. Alla vista del suo uomo sfigurato nel volto e la
testa spaccata, Laura «si portò una mano sul petto e, senza un solo gemito, s’afflosciò
sulle gambe a due passi da lui. Mentre toccava il suolo, il suo cuore cessò di
battere».
Il libro si chiude con Titta, Giambattista,
studente di medicina a Napoli, figlio del dottor Musci di Gioia del Colle. Dopo
aver fatto parte della banda Romano, spinto da quest’ultimo, divenne emigrante
verso le Americhe.
Rocco Biondi
Vincenzo Santoro, In nome di Francesco Re. L’epopea dei perdenti all’indomani della
fine del Regno delle Due Sicilie, Capone Editore, Cavallino di Lecce 1999,
pp. 184
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