La
storia della guerra al brigantaggio, dal Cinquecento ai primi decenni
postunitari, è una grande mattanza (uccisione). Si tratta di una vera guerra sia
contro criminali, assassini, ladri, tagliagole, sia folle di affamati e di
disperati, artigiani, contadini, braccianti, giovani, ma anche contro nobili decaduti
oppure espulsi dai circuiti del potere.
Il termine brigante ha avuto un enorme
successo; trasmigra dai francesi ai Borbone, che lo usano incuranti che con
esso designano anche gli uomini che li hanno fatti ritornare sul trono di
Napoli. A volte c’è uno scontro dichiarato, altre volte ci sono dialogo e
convenienza reciproca.
I briganti (o banditi) esistono in tutta la
penisola da nord a Sud, li troviamo in Piemonte, in Lombardia, in Liguria, in
Veneto, nei territori pontifici, nel Regno di Napoli e in quello di Sicilia. Ma
il fenomeno appare radicato specialmente nel Sud, e di questo Ciconte parla nel
suo libro.
Nelle pagine del libro i briganti
rimarranno sullo sfondo, si parlerà diffusamente di coloro che hanno guidato ed
effettuato la grande repressione, di coloro che guidano la caccia, ordinano
fucilazioni, saccheggi, stragi ed incendi, imprigionano e perseguitano parenti
e familiari dei briganti, emanano proclami, firmano indulti, condoni, amnistie,
e trattano con i briganti per indurli a cambiare casacca e tradire gli amici.
L’esercito attua sia politiche repressive che politiche apparentemente
premiali; soldi in cambio di tradimento, premi per il brigante che uccide un
altro brigante. Quando repressione e premi non basteranno si cercherà di
coinvolgere i familiari dei briganti, nella speranza che qualcuno di loro possa
cooperare alla cattura del congiunto; parenti contro parenti.
Volgendo lo sguardo al brigantaggio di quei
secoli si osserva come la guerra, intrapresa dai poteri costituiti contro i
briganti, si rivolga quasi sempre contro le classi subalterne, i contadini
affamati e senza terra, i braccianti senza lavoro, i poveri, i disperati; quasi
a sancire che essere poveri sia una colpa grave da espiare.
Le pagine di Ciconte descrivono le modalità
della repressione, le ragioni che hanno spinto uomini in divisa a commettere
atti riprovevoli, violenti, brutali, spesso peggiori di quelli commessi dagli
uomini che combattono, i briganti appunto.
“La repressione è tanto più dura e spietata
perché c’è la convinzione che il Mezzogiorno d’Italia sia un territorio abitato
da sanguinari e da selvaggi nei confronti dei quali la violenza è più che
giustificata”.
Gli uomini venuti dal nord ad abbattere il
regime borbonico, considerato come il male assoluto, fanno ricorso a pratiche
contro le leggi.
Ciconte per narrare la storia della guerra
al brigantaggio ricorre ai documenti presenti in vari archivi, in particolare
nell’Archivio centrale dello Stato di Roma, nell’Archivio di Stato di Catanzaro,
nell’Archivio di Stato di Torino, nel Museo del Risorgimento di Torino,
nell’Archivio dell’Ufficio storico dello Stato maggiore dell’Esercito di Roma.
Anche se diverse sono le motivazioni che
spingono al banditismo nel corso dei secoli, comuni più o meno sono le modalità
con cui esso si manifesta; pur negli inevitabili mutamenti delle politiche e
delle norme giuridiche esistenti nei vari regimi, vi è una continuità come
quasi il tempo non sia passato o sia stato sospeso. La cultura della violenza,
della repressione, della necessità del superamento della legalità penetrano
nella società civile.
Le teste mozzate, date come taglia in una
politica premiale o appiccate nelle piazze, il camminare armati, le sevizie
prima e dopo la morte con il taglio di pezzi dal cadavere, l’arresto dei
parenti dei briganti, i cambiacasacca che passano dai banditi agli invasori, il
suono delle campane a stormo per dare l’allarme contro i briganti, sono cose
comuni alla repressione che tornano nei vari secoli. E anche lo Stato
pontificio non ne è esente.
Il cardinal Ruffo, che nel 1799 riporterà i
Borbone sul trono di Napoli, accoglie fra le sue fila patrioti e criminali
comuni. Nella sua armata c’è l’attaccamento al re borbone, la rabbia sociale
dei contadini contro i galantuomini, i delinquenti fatti uscire dalle carceri,
accomunati tutti dalla fede religiosa. Vi saranno scontri sanguinari tra i
sanfedisti di Ruffo e i giacobini francesi; il 1806 questi ultimi ritorneranno
sul trono di Napoli e vi rimarranno per un decennio. Continuano violenze,
saccheggi, stragi, massacri e repressioni brutali; Manhès intraprende una
guerra di sterminio contro i briganti.
Dopo è la volta di briganti famosi: Antonio
Gasbarrone, nato a Sonnino nello Stato pontificio, arrestato con inganno
rimarrà in carcere per 45 anni fino alla breccia di Porta Pia del 1870, quando
uscirà avvolto nella leggenda, per poi morire a 89 anni; Gaetano Meomartino,
nato a Foggia, soprannominato Vardarelli, firma un accordo, ma è ucciso a tradimento
con i suoi fratelli, (il suo amico Ciro Annichiarico viene fucilato a
Francavilla Fontana); Giosafatte Talarico, studia prima in seminario e poi per
fare il farmacista, uccide un uomo per ragioni di confini e si rifugia sui
monti per evitare la cattura, divenuto imprendibile si decide di trattare per
farlo consegnare, il 1845 con un atto sovrano di grazia gli vien concesso il
“pensionamento” nell’isola di Ischia.
In quel periodo a governare con il terrore
contro i briganti per i Borbone vi sono i capi militari Francesco Saverio Del
Carretto e Ferdinando Nunziante. Quest’ultimo è inviato in Calabria, regione
verso la quale si rivolge per gran parte del libro l’interesse di Ciconte.
Con il 1861 al tempo dei Savoia la guerra
contro il brigantaggio si fa più spietata. Sono tante le fucilazioni e nessuno
conosce il numero esatto dei morti. Enrico Cialdini e Pietro Fumel sono stati i
due generali piemontesi che hanno usato i mezzi più barbari contro i briganti
del Sud; stragi, eccidi, incendi sono i mezzi spietati e brutali usati nelle
loro repressioni.
Come nei secoli precedenti, e forse ancora
di più dal 1860 al 1870, sono moltissimi i briganti che vengono uccisi durante
i trasferimenti da un carcere ad un altro, adducendo il pretesto, troppo comune
per non essere sospetto, d’aver essi tentato di evadere, come scrive un
generale piemontese. Si induce il brigante a scappare per avere la scusa di
ucciderlo.
Sono frequenti i contrasti fra militari e
giudici civili. Si mettono spesso briganti contro briganti; familiari contro i
briganti. Ma i briganti sopravvivono.
La legge Pica convalida la violenza
repressiva e i metodi illegali da sempre usati da parte dei militari.
Si parla dei briganti Crocco, Ninco Nanco,
Palma.
Ciconte chiude il suo libro affermando che
il brigantaggio di marca borbonica e clericale è durato un paio di anni, mentre
continua a sopravvivere il brigantaggio dettato dalla fame. Vi è differenza fra
mafia e brigantaggio, che per altro operano in territori diversi. Ma i briganti
si tramutano in emigranti.
Rocco Biondi
Rocco Biondi
Enzo Ciconte, La grande mattanza, Storia della guerra al brigantaggio, Editori
Laterza, Bari 2018, pp. 278
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