Si
tratta di un servizio giornalistico, un po’ romanzato, fatto da un immaginario
giornalista intervistando, nell’estate del 1864, il brigante Antonio Cozzolino,
detto Pilone, che fu ucciso dai piemontesi dopo un decennio di attività sulle
falde del Vesuvio. L’intervista segue la vita reale del brigante.
Pilone era nato a Torre Annunziata (Napoli)
nel 1824, ma sin da ragazzo si era trasferito a Boscotrecase (Napoli), il paese
dei genitori. Il padre faceva lo scalpellino lavorando la pietra del Vesuvio.
Antonio imparò quel mestiere.
Era soprannominato “Pilone” perché «mamma
mi ha fatto pieno di peli», disse sorridendo al giornalista, accarezzandosi la
lunga barba incolta.
Entrò a far parte dell’esercito napoletano
di Ferdinando II. «Vitto, paga e rispetto erano garantiti. E poi: altro che
spaccare pietre!»
Il primo servizio militare lo prestò a
Nocera.
Nel 1842 fu trasferito in Calabria. Lì
combatté contro i banditi. «I banditi veri – dice Pilone – sono quelli che ci
hanno assalito conquistando le nostre terre, stuprando le nostre donne,
bruciando le nostre case, riducendo in cenere i nostri raccolti e uccidendo i
nostri figli, i nostri fratelli, i nostri genitori. Sono quelli i fuorilegge e
criminali. Noi siamo brava gente che lotta per riportare il re di Napoli sul
trono che fu dei suoi padri».
Pilone aveva invidiato ed emulato il
brigante Giosafatte Talarico. «Ma lui aveva scelto di stare dalla parte
sbagliata, contro i Borbone». Fino a quando non si consegnò ai borbonici,
accettando una ricca pensione e una bella villa in riva al porto di Ischia.
Pilone dopo cinque anni si congedò
dall’esercito. Ma nel settembre 1847 tornò ad indossare con piacere la divisa
dei Cacciatori borbonici, finendo a Reggio Calabria.
Nel 1848 è a Napoli, a sparare contro i
ribelli. L’anno successivo fu spedito prima a Gaeta e poi a Velletri. Fu
congedato per la seconda volta. Ma riarruolato fu mandato in Sicilia. Congedato
per la terza volta, decise di rimanere in Sicilia. Qui arruolato per la terza
volta combatté, nel 1860, contro Garibaldi a Calatafimi. Sembrava esserci stata
una vittoria borbonica, ma il generale Landi tradì e i borbonici furono
costretti a ritirarsi.
A Napoli nel 1861 Pilone entrò a far parte
del Comitato borbonico; non accettò la leva savoiarda e cominciò la sua seconda
vita: quella del brigante.
Inizialmente entrò nella banda di Vincenzo
Barone, dopo la morte del quale per tradimento, divenne il capo. Nel frattempo
i piemontesi gli uccisero il padre e la madre, che morirono abbracciati. Erano
stati condannati a morte solo perché erano i genitori di un brigante. E
Cozzolino dichiarò vendetta: «Canaglie! Bruti e assassini! L’avrebbero pagata
cara».
«I soldati, convinti di averci chiusi in
trappola, ci cascarono praticamente in bocca. Aprimmo il fuoco e li decimammo,
colpendoli uno alla volta, tra gli alberi e i canaloni, le creste di lava e i
muretti a secco costruiti dai contadini per riparare le loro terre dagli
scrosci dell’acqua piovana», racconta Pilone al giornalista.
I briganti, forti di quella vittoria,
decisero l’invasione di Boscotrecase. Ivi entrati, colpirono con i loro
moschetti i quadri di Vittorio Emanuele e la bandiera tricolore, facendo
tornare a sventolare, sulle terrazze del Vulcano, la bandiera con il giglio dei
Borbone.
Invadono anche a Torre del Greco la casa di
Leopardi, la “Villa Le Ginestre”.
Nel febbraio del 1862 i briganti di Pilone
tentarono il colpo grosso. Il generale piemontese Alfonso La Marmora, da poco
nominato prefetto di Napoli e che aveva quindi sostituito Enrico Cialdini nella
repressione del “brigantaggio”, sarebbe giunto in visita al villaggio di Pompei.
«Era l’occasione che stavamo cercando», disse Pilone al suo intervistatore.
«Giunta a tiro la carrozza, iniziammo a bersagliarla di piombo». I piemontesi
si serrarono a quadrato per difendere La Marmora e spararono violentemente. Ma
i briganti riuscirono a fuggire.
L’eco dell’agguato a La Marmora si diffuse rapidamente
in tutto il circondario. E questo costituì pubblicità gratuita per la causa dei
briganti. Molti volontari si aggregarono alla banda. Anche la duchessa di
Genova, cognata di Vittorio Emanuele di Savoia, giunta a Napoli con tanta
spavalderia, se ne tornò in Liguria con la coda fra le gambe.
Nel marzo 1862 i briganti di Pilone
assaltarono Terzigno, che però non fu liberata facilmente. E sul tetto del
Comune la bandiera borbonica non rimase che per poche ore. La retata piemontese
fu rapida e spietata. Molti furono arrestati, «a decine finirono in guardina.
Poveracci beccati così, a casaccio. Senza colpa».
Nel 1863 furono fatti, a scopo di riscatto,
diversi sequestri illustri: il marchese Diego Avitabile, l’erede al trono
principe Umberto di Savoia, «tra Agerola e Gragnano diventammo gli esattori del
Regno delle Due Sicilie esautorando i nuovi gabellieri di Torino».
Alla vista di un drappello di bersaglieri,
i briganti di Pilone fuggirono, lasciando soli il giornalista e il fotografo.
L’articolo fu pubblicato sul Corriere,
parlando male del brigante Cozzolino. Dice il giornalista, che narra nel libro
in prima persona l’incontro con il brigante: «Non ho scritto quello che
pensavo. Ho scritto quello che mi dettava la linea editoriale». Ma preso da scrupoli
di coscienza, si dimette dal Corriere e non scriverà più per nessun altro
giornale. Divenne insegnante.
Dopo sette anni dall’intervista del 1864 l’ex
giornalista ritorna a Boscotrecase, in cerca di notizie sul brigante Pilone. Il
brigante era stato esule prima a Roma e poi a Marsiglia. Sul vaporetto che lo
portava in quest’ultima città conobbe Carmine Crocco e Bernardino Viola. Il
rifugiato politico Cozzolino fu riaccompagnato a Roma, dove fu rinchiuso nelle
carceri pontificie di Tivoli. Il 6 marzo 1869 fu fatto evadere insieme al
brigante marsicano Bernardo Viola.
Nella primavera del 1869 Pilone tornò sul
Vesuvio, ma si ritrovò praticamente solo, spalleggiato da pochi fedelissimi.
Per quasi un anno riuscì a sottrarsi alla caccia di soldati e carabinieri. Ma
poi la camorra decise di toglierlo di mezzo.
Dopo la presa di Roma da parte dei
piemontesi, Antonio Cozzolino detto Pilone fu tradito da uno dei suoi uomini.
Cadde in trappola e fu ucciso il 14 ottobre 1870.
Quella di Cozzolino, come quella dei
briganti, fu lotta armata non malavita.
Il libro di Gabriele Scarpa si chiude con
queste frasi, che condividiamo: «Oggi non c’è spazio per la verità. La storia,
quella tocca ai vincitori. A fare giustizia dovranno pensarci i posteri, quando
le nebbie della menzogna si saranno sollevate dai campi insanguinati del Mezzogiorno».
Il libro reca l’introduzione di Gennaro De
Crescenzo, la prefazione di Lorenzo Del Boca, la postfazione di Alessandro
Romano.
Rocco Biondi
Gabriele Scarpa, L’ultimo brigante del sud. Storia della banda Pilone, Spazio
Creativo Edizioni, Napoli 2011, pp. 152
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