1 febbraio 2018

I due manutengoli, di Giuseppe Osvaldo Lucera


Le due storie che vengono narrate sono inserite nel secolo XVII e nel secolo XIX. La prima, che abbraccia il capitolo diciassettesimo (da punto uno a undici), parte dall’anno 1647, e narra principalmente, con l’espediente della scoperta e lettura di un manoscritto, l’avventura del brigante (proditores) Abate Casare.
     La seconda storia, che abbraccia la prima parte del primo volume e tutto il secondo, racconta quello che avvenne nel Regno di Napoli e principalmente nel foggiano (Capitanata) a cominciare dal decennio francese (1806-1815) e finire nei primi anni della venuta nel Sud dei piemontesi (1860-1861).
     Le due epoche hanno in comune lo stesso territorio e la stessa società. Nella prima v’era un viceré, che governava in nome delle dinastia spagnola. Nella seconda il Sud era governato prima dai Borbone e poi dai Savoia; «un cambio – scrive Lucera – di nome e di vessilli che nulla porterà di nuovo alle condizioni sociali del popolo del nostro Meridione».
     Quasi tutti i personaggi della seconda storia hanno gli stessi nomi di quelli della prima e sono loro discendenti.
     Le categorie sociali delle storie narrate sono sostanzialmente due: i ricchi da una parte ed i poveri dall’altra. Ma provengono sia dall’una che dall’altra quelli di una terza categoria, i cosiddetti briganti; questi ultimi però sono prevalentemente poveri. A Lucera non interessano i delinquenti comuni, nel suo romanzo i briganti sono banditi sociali, che si manifestano sia in società antiche che moderne quando vi è lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo o di una classe su di un’altra. «Non è quindi – scrive Lucera – la democrazia o il totalitarismo, la monarchia o la repubblica che producono i ribelli, ma è l’aspetto economico su cui poggia la gerarchia sociale a produrli e nient’altro».
     La delinquenza comune è sempre presente in qualsiasi società. Il banditismo sociale – dice ancora Lucera – o il fenomeno del brigantaggio, invece, nasce, si evolve, si irrobustisce e poi scompare, apparentemente riassorbito dalla stessa società. Esso cova sotto la cenere ed è pronto a riapparire quando le contraddizioni interne al sistema raggiungono la fase estrema.
     Dal mondo di sofferenze, di miserie, atrocità e speranze di tempi migliori nascono gli eroi. Il brigante diventa l’eroe che ha la forza di ribellarsi e di fronteggiare il potere costituito. Il brigante di fronte alle ingiustizie riesce a portare una qualche giustizia laddove era completamente assente.
     Personaggi del secolo spagnolo sono: Antonio Salustri, fattore del duca Matteo Princivalle; il cavaliere Ubaldo, nipote del duca; Luigi Ferrigno, comandante delle Guardie Civiche; il brigante detto Abate Cesare, che stette nascosto oltre otto mesi nel palazzo del duca in Capitanata; la duchessa Flaminia Filangieri torturata dall’hidalgo spagnolo Pedro Alvarez de la Sierra con conseguenze non definitive.
     Personaggi del periodo dell’ottocento sono: il padre Bonaventura d’Amalfi, che è priore del convento francescano di Serracapriola, e che riuscirà a raccogliere i documenti che dimostravano come il Borbone aveva tradito il famoso brigante Gaetano Vardarelli; Pietro Salustri, fattore del duca Matteo Princivalle; Antonio Salustri, brigante protagonista del romanzo; Francesco Princivalle, duca e fratellastro di Antonio; Camillo Bourdignon, detto l’Ungherese, prototipo negativo dei piemontesi; Luigi Fortebraccio, nato nel Sud ma zelante vice comandante delle Guardie Nazionale a favore dei piemontesi.
     Lucera nel suo romanzo riesce a far vivere i suoi personaggi ben inseriti nel proprio ambiente, di tutti descrivendo sentimenti e modi di pensare. E ciò vale anche per i briganti, che se abbandoneranno la lotta (come farà Antonio nel racconto ottocentesco), rinviando la realizzazione del proprio disegno politico a tempi migliori, non potranno essere annoverati né tra i perdenti, né tra i vinti e né tanto meno tra i vigliacchi.

Giuseppe Osvaldo Lucera, I due manutengoli, Edizione Simple, Macerata 2008; Vol. I, pp, 472; Vol. II, pp. 414

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