Silone
era nato il 1° maggio 1900 a Pescina, provincia dell’Aquila in Abruzzo. Nel
1933 pubblicò in tedesco in Svizzera, dove era riparato da antifascista, grazie
alla prenotazione di ottocento sottoscrittori, il romanzo “Fontamara”. Il
romanzo fu tradotto in pochi anni in ventisette lingue, raggiungendo una
tiratura di oltre un milione e mezzo di copie. La prima edizione in italiano fu
stampata, a spese di Silone, nel 1934 a Parigi. Fontamara è un paese di
fantasia.
Il romanzo si chiude con
le parole “che fare?”. Scrive Silone: «Dopo tante pene e tanti lutti, tante
lacrime e tante piaghe, tanto odio, tante ingiustizie e tanta disperazione, che
fare?». La mia risposta a questa domanda, dopo aver letto il libro, è “ribellarsi”.
Ma come? Prima dell’arrivo dei Piemontesi (il 1860), dice Silone, tutto era più
semplice. Le complicazioni e gli inganni cominciarono quando arrivarono loro:
ogni giorno una nuova legge, ogni giorno un nuovo ufficio.
Berardo Viola è il più importante
protagonista del romanzo e richiama l’omonimo suo nonno, famoso brigante
postunitario, nato nel 1838 e morto sessantottenne in carcere nel 1906. Nel
racconto del 1934, intitolato “Simplicio”, Silone scrive: «L’unica nozione di
storia dei cafoni è la storia dei briganti. La loro unica esperienza politica è
la loro esperienza di briganti”. Il personaggio Berardo Viola può essere dunque
definito un eroe-brigante. I cafoni di Fontamara usano il termine “brigante” in
senso negativo, ma loro sono briganti nel senso positivo.
Il termine “cafone” viene usato da Silone
senza intenzione spregiativa. «La scala sociale non conosce a Fontamara che due
piuoli: la condizione dei cafoni, raso terra, e, un pochino più su, quella dei
piccoli proprietari». Dei cafoni, braccianti, manovali, fanno anche parte gli
artigiani poveri, che operano per strada. Silone sa bene che nel linguaggio
corrente il nome di cafone è termine di offesa e dileggio; ma lui lo adopera
«nella certezza che quando nel mio paese il dolore non sarà piú vergogna, esso
diventerà nome di rispetto, e forse anche di onore».
Fittiziamente i fatti del romanzo vengono
raccontati, in dialetto fontamarese, al cafone Silone in esilio, da tre cafoni
di Fontamara, due uomini (padre e figlio) e una donna. L’autore si limita a
tradurli in lingua italiana, «una lingua straniera, - scrive Silone -, una
lingua morta, una lingua il cui dizionario, la cui grammatica si sono formati
senza alcun rapporto con noi, col nostro modo di agire, col nostro modo di
pensare, col nostro modo di esprimerci».
I fatti che si susseguono a Fontamara sono l’interruzione
dell’erogazione di elettricità, perché non potevano essere pagate le bollette;
l’incanalamento dell’acqua di un ruscello, con cui i cafoni hanno sempre
irrigato i pochi campi che possiedono, verso i terreni del podestà (l’Impresario);
le donne che volevano farsi giustizia da loro, vengono violentate; la
staccionata che l’Impresario aveva fatto costruire attorno al tratturo, di cui
si era appropriato gratuitamente, andò in fiamme; Berardo cerca inutilmente un
lavoro, per comperarsi un pezzo di terra e poter sposare Elvira, ma viene
arrestato e, si disse, fatto morire in carcere; i cafoni scrivono un giornale
intitolato: “che fare?” e mettono come prima notizia: “Hanno ammazzato Berardo
Viola, che fare?”; e poi ancora scrivono: “Ci han tolto l’acqua, che fare?”, “Il
prete si rifiuta di seppellire i nostri morti, che fare?”, “In nome della legge
violano le nostre donne, che fare?”, “Don Circostanza è una carogna, che fare?”;
il giornale venne distribuito manualmente, ne erano state fatte cinquecento copie.
Rocco Biondi
Rocco Biondi
Ignazio Silone, Fontamara, Oscar Mondadori, Milano 1976 [1933], pp. 260
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