7 ottobre 2017

Fontamara, di Ignazio Silone



Silone era nato il 1° maggio 1900 a Pescina, provincia dell’Aquila in Abruzzo. Nel 1933 pubblicò in tedesco in Svizzera, dove era riparato da antifascista, grazie alla prenotazione di ottocento sottoscrittori, il romanzo “Fontamara”. Il romanzo fu tradotto in pochi anni in ventisette lingue, raggiungendo una tiratura di oltre un milione e mezzo di copie. La prima edizione in italiano fu stampata, a spese di Silone, nel 1934 a Parigi. Fontamara è un paese di fantasia.
     Il romanzo si chiude con le parole “che fare?”. Scrive Silone: «Dopo tante pene e tanti lutti, tante lacrime e tante piaghe, tanto odio, tante ingiustizie e tanta disperazione, che fare?». La mia risposta a questa domanda, dopo aver letto il libro, è “ribellarsi”. Ma come? Prima dell’arrivo dei Piemontesi (il 1860), dice Silone, tutto era più semplice. Le complicazioni e gli inganni cominciarono quando arrivarono loro: ogni giorno una nuova legge, ogni giorno un nuovo ufficio.
     Berardo Viola è il più importante protagonista del romanzo e richiama l’omonimo suo nonno, famoso brigante postunitario, nato nel 1838 e morto sessantottenne in carcere nel 1906. Nel racconto del 1934, intitolato “Simplicio”, Silone scrive: «L’unica nozione di storia dei cafoni è la storia dei briganti. La loro unica esperienza politica è la loro esperienza di briganti”. Il personaggio Berardo Viola può essere dunque definito un eroe-brigante. I cafoni di Fontamara usano il termine “brigante” in senso negativo, ma loro sono briganti nel senso positivo.
     Il termine “cafone” viene usato da Silone senza intenzione spregiativa. «La scala sociale non conosce a Fontamara che due piuoli: la condizione dei cafoni, raso terra, e, un pochino più su, quella dei piccoli proprietari». Dei cafoni, braccianti, manovali, fanno anche parte gli artigiani poveri, che operano per strada. Silone sa bene che nel linguaggio corrente il nome di cafone è termine di offesa e dileggio; ma lui lo adopera «nella certezza che quando nel mio paese il dolore non sarà piú vergogna, esso diventerà nome di rispetto, e forse anche di onore».
     Fittiziamente i fatti del romanzo vengono raccontati, in dialetto fontamarese, al cafone Silone in esilio, da tre cafoni di Fontamara, due uomini (padre e figlio) e una donna. L’autore si limita a tradurli in lingua italiana, «una lingua straniera, - scrive Silone -, una lingua morta, una lingua il cui dizionario, la cui grammatica si sono formati senza alcun rapporto con noi, col nostro modo di agire, col nostro modo di pensare, col nostro modo di esprimerci».
     I fatti che si susseguono a Fontamara sono l’interruzione dell’erogazione di elettricità, perché non potevano essere pagate le bollette; l’incanalamento dell’acqua di un ruscello, con cui i cafoni hanno sempre irrigato i pochi campi che possiedono, verso i terreni del podestà (l’Impresario); le donne che volevano farsi giustizia da loro, vengono violentate; la staccionata che l’Impresario aveva fatto costruire attorno al tratturo, di cui si era appropriato gratuitamente, andò in fiamme; Berardo cerca inutilmente un lavoro, per comperarsi un pezzo di terra e poter sposare Elvira, ma viene arrestato e, si disse, fatto morire in carcere; i cafoni scrivono un giornale intitolato: “che fare?” e mettono come prima notizia: “Hanno ammazzato Berardo Viola, che fare?”; e poi ancora scrivono: “Ci han tolto l’acqua, che fare?”, “Il prete si rifiuta di seppellire i nostri morti, che fare?”, “In nome della legge violano le nostre donne, che fare?”, “Don Circostanza è una carogna, che fare?”; il giornale venne distribuito manualmente, ne erano state fatte cinquecento copie.
Rocco Biondi

Ignazio Silone, Fontamara, Oscar Mondadori, Milano 1976 [1933], pp. 260

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