Guarnieri,
nel suo romanzo, non parla mai di briganti, ma di banditi, ribelli,
guerriglieri, partigiani, patrioti. Rimuove completamente il termine brigante.
La vicenda si svolge nel 1863 in Calabria,
sulle montagne della Sila. Il “piemontese” maggiore Albertis, con il suo
squadrone di cavalleria, insegue una banda di ribelli capitanati dal
guerrigliero contadino Evangelista Boccadoro (così soprannominato perché aveva
delle capsule metalliche incastonate nella dentatura).
La leggenda racconta che da quando san
Teodoro aveva smesso di proteggere la città di Acherenthia, tutte le vie di
fuga dei banditi avevano cominciato a condurre alle rovine di quella città.
Erano le piste segrete della montagna, i percorsi abbandonati che solo i
guerriglieri più incalliti sapevano ritrovare nel pieno dell’inverno, e dai
quali anche da morti sarebbero ridiscesi sulla terra per continuare a
combattere. I pastori della Sila li avevano battezzati li tratturi du cielu (i sentieri del cielo).
La guerra fra Albertis e Boccadoro semina
una lunga scia di sangue fra atrocità, massacri, stupri, fucilazioni e tanti
morti fra i banditi, i militari e la popolazione civile.
Lo squadrone piemontese era stato composto
selezionando i migliori soldati e gli ufficiali con la reputazione più solida.
In tutto erano quattordici uomini, tra i quali un capitano fidatissimo secondo
del maggiore, un ufficiale medico, un bigotto nobiluomo del sud convertito alla
causa dello stato italiano. Parecchi di questi uomini moriranno negli scontri.
Il capo bandito guidava parecchi
combattenti e ribelli, ed aveva decine di fiancheggiatori nei paesi e nei
villaggi. Aveva stretto un’alleanza di ferro con la banda di Leone Critelli
detto Vulcano, che era il vero organizzatore della guerriglia e che portava un’ostia
consacrata appesa al collo. Mentre Boccadoro, che portava al collo un
reliquiario d’argento con una ciocca di capelli crespi, era sempre stato un
visionario e un trascinatore, un combattente determinato e coraggioso, insomma
un vero capo carismatico.
Il fotografo Procopio, che parecchie volte
era stato chiamato dai piemontesi per fotografare i combattenti appena
ammazzati, disse al maggiore Albertis di non possedere fotografie di Boccadoro
ma di Vulcano, che si era fatto fotografare quand’era libero, circondato dai
gregari della sua banda. Il fotografo la regalò al maggiore.
Guarnieri nella narrazione fa una minuziosa
descrizione dei luoghi in cui i personaggi agiscono. Come esempio riporto il
seguente brano. «In alto, in cima al gomitolo di vicoli della città vecchia, un
ciuffo di nuvole color carbone sbatacchiava come una grossa parrucca appesa
alla punta del campanile del duomo».
Frequentissime sono la pioggia e la neve.
Vengono usati vocaboli desueti, come roano flebotomo ulano timpone timpa
carpino cispe boe pacchiana vaché cucinaro catoio butirri scifura boattiere
concaro frea barma magara soccanna scirubetta cengia ciaramello.
Vengono descritte anche leggende popolari.
Come per esempio quella dei licantropi. Il tenente medico Gaetani disse che i
cosiddetti licantropi in realtà erano quasi tutti pastori o mandriani, che
vivevano isolati in zone remote e credevano di essersi trasformati in lupi per
autosuggestione. Per questo ululavano, mangiavano carne cruda di animali appena
sbranati e si accoppiavano con quadrupedi di ogni tipo. Molti erano sonnambuli.
A proposito della situazione del sud,
Guarnieri fa dire ad un suo personaggio che in realtà la soluzione del problema
non era poi così difficile, ma non c’era la volontà politica di trovarla,
perché i contadini meridionali potevano essere resi inoffensivi in pochi mesi
realizzando una vasta quotizzazione del demanio statale e comunale, senza
neanche bisogno di requisire i beni ecclesiastici. Il governo, forse per
solidarietà di classe, piuttosto che con la media e la piccola borghesia
agraria aveva preferito allearsi con le famiglie dei grandi possidenti. Dato
però che il governo non aveva avuto la lungimiranza di imporre ai galantuomini
alcuna limitazione dei loro privilegi, anzi si era sforzato in tutti i modi di
salvaguardarne gli interessi, aveva praticamente costretto i contadini a
prendere le armi in mano e a reagire con la rivolta.
Ma la storia insegna che i cafoni e i
proletari potevano fare tutte le battaglie che volevano, ma per loro la giustizia
e l’uguaglianza non sarebbero venute mai.
E quindi nulla avrebbe potuto cancellare la
diffidenza e il risentimento della povera gente del sud. Il sospetto e l’avversione
per i vincitori si sarebbero tramandati per generazioni, e così una vera
riconciliazione nazionale non ci sarebbe stata mai. Il popolo rifiuta l’unità
d’Italia perché ha portato solo tasse, servizio militare e galera.
Un personaggio del romanzo racconta che il
generale Boccadoro non aveva nessuna paura della morte perché era già morto un
anno prima, durante uno scontro con un drappello di bersaglieri sotto le mura
di Acherenthia. Lo avevano sepolto in un angolo del cimitero, ma tre giorni
dopo avevano trovato la fossa aperta, la bara spalancata e Boccadoro seduto in
poltrona a fumare una sigaretta su un tumulo di terra smossa con un lupo
accovacciato ai suoi piedi.
Il maggiore Albertis, che con un proiettile
del suo fucile aveva colpito o forse no Boccadoro, sapeva che la verità è solo
una leggenda, un racconto, una storia, un’invenzione. E sapeva anche che questa
sorta di sparizione sovrannaturale, Boccadoro si era lanciato verso l'abisso che si spalancava sotto i suoi piedi e il suo corpo non venne mai trovato, avrebbe alimentato il mito della sua immortalità, e lo avrebbe fatto diventare per sempre l’eroe di migliaia di
contadini diseredati.
Questo e tantissimo altro troviamo nel
romanzo di Guarnieri, che racconta con spettacolare forza narrativa una pagina
cruciale della storia d’Italia. E reinventa un mondo dimenticato con un romanzo
visionario e potente. Assolutamente merita di essere letto e riletto.
Rocco Biondi
Rocco Biondi
Luigi Guarnieri, I sentieri del cielo, Rizzoli, Milano 2008, pp. 327, € 19,00
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