Il
corposo volume del Restivo si divide in due parti, la prima intitolata “L’altra
storia” è una trattazione sul brigantaggio postunitario inteso come rivolta
contro l’invasione piemontese del Regno delle Due Sicilie e contro lo stato di
povertà a cui “l’unificazione” non seppe dare una risposta positiva, la seconda
intitolata “Figure femminili del brigantaggio post-unitario” è una raccolta dei
profili con note di venti brigantesse. In appendice poi vi è il saggio “Cafoni,
briganti e zappaterra”, che riporta le biografie di dieci capibriganti famosi.
Seguono poi una ricca bibliografia generale sul brigantaggio, fonti
archivistiche, indici onomastici e toponomastici, indice delle industrie e
degli stabilimenti del Regno delle Due Sicilie, indice delle tavole ed
illustrazioni.
La storiografia sul brigantaggio
postunitario segue due filoni contrapposti; il primo è quello di stampo
liberale, abbracciato dalla storiografia tradizionale ed ufficiale, che
sostiene la teoria della “missione del Piemonte”, liberatore degli abitanti del
Sud dal mal governo dei Borbone; il secondo sostenuto da una “schiera di
meridionalisti” (che continua sempre più ad ingrandirsi) che, dopo un’attenta
analisi condotta su particolari aspetti politico-economici e sociali della
storia del Meridione, ritiene di individuare nella inettitudine della nuova
classe dirigente italiana la causa dell’immiserimento del Sud che, durante il
governo dei Borbone, era economicamente all’avanguardia rispetto agli altri
Stati italiani. Restivo elenca tra gli studiosi appartenenti al secondo filone:
Massimo Petrocchi, Domenico De Marco, Gino Luzzato, Luigi De Rosa, Aurelio
Lepre, Pasquale Villani, Angelo Mangone, Tommaso Pedio (ovviamente questo
elenco è fermo al 2005, anno in cui uscì il volume).
Al momento dell’unificazione, scrive
Restivo, nel Regno delle Due Sicilie erano alquanto fiorenti quasi tutti i
settori produttivi, a cominciare dall’industria metalmeccanica con oltre cento
officine sparse su tutto il territorio e che riusciva a dare lavoro a diverse
migliaia di operai. Lo stabilimento più importante era l’Opificio Reale di
Pietrarsa, costruito nel 1842, tra Portici e San Giovanni a Teduccio, a pochi
chilometri da Napoli. In quella fabbrica venivano costruiti manufatti di
acciaio, cuscinetti, carri-merci, vagoni ferroviari, ruote per locomotive,
macchine a vapore e motrici navali. Occupava all’inizio del 1860 oltre un
migliaio di persone ed era l’unica, ancor prima della Breda e della Fiat, ad
essere dotata di tecnologia avanzata.
Nella cantieristica navale gli arsenali di
Napoli e di Castellamare di Stabia occupavano da soli circa 3400 operai. La
flotta mercantile napoletana era seconda in Europa solo a quella inglese per
naviglio a vapore e volume di merci esportate.
Fra le industrie estrattive principale era
quella del zolfo delle solfatare siciliane, che costituiva il 90% della
produzione mondiale. Ma fiorenti erano anche le industrie chimiche, conciarie,
alimentari, che esportavano principalmente verso l’America.
Di grande rilievo, per le entrate che
assicurava, era l’industria tessile, famosa quella di San Leucio, conosciuta in
tutta Europa per la produzione di sete e rasi; ma importanti anche quelle di
Fratte, Scafati, Angri, Surlino, Arpino.
Ma anche se la situazione
economico-finanziaria del Regno delle Due Sicilie era abbastanza fiorente,
scrive Restivo, pur tuttavia il popolo moriva di fame e viveva alla giornata. E
ciò era dovuto all’enorme squilibrio tra la grande domanda e la scarsa offerta
di lavoro, sproporzione direttamente correlata all’incremento demografico. Ma
si registrava anche una sproporzione tra il potere d’acquisto dei salari e i
prezzi dei generi di prima necessità.
Questa povertà e il tentativo di uscirne
fu, secondo il Restivo, una delle più importanti cause del brigantaggio
postunitario. Ma mentre il Restivo ritiene che questa grande povertà fosse
precedente alla cosiddetta unità voluta dai piemontesi, altri studiosi
sostengono che essa sia stata la conseguenza delle leggi e del comportamento
dei Savoia piemontesi.
Molteplici furono comunque i motivi che
indussero il ceto subalterno alla ribellione contro il nuovo regime e tra
questi motivi acquisiva grande rilevanza la promessa non mantenuta fatta da
Garibaldi della divisione ai contadini delle terre usurpate dai galantuomini;
oltre allo scioglimento degli eserciti napoletano e garibaldino, e alla leva
obbligatoria.
In questo contesto, scrive Restivo, si
collocano le brigantesse, le donne che più delle altre hanno vissuto sulla
propria pelle il dramma della persecuzione, della miseria, dello sfruttamento e
della prevaricazione.
Al termine drude, presente nel titolo, a
noi piace dare la connotazione positiva di amante e innamorata; così come diamo
una connotazione positiva al termine brigante.
La galleria, presentata dal Restivo nella
seconda parte del libro, ripropone i ritratti di venti brigantesse fra le più
famose del periodo postunitario che hanno cercato di difendere la propria
dignità di donna, i propri affetti ed il proprio diritto alla sopravvivenza.
Il siciliano Restivo, che oltre ad essere
uno studioso ed un ricercatore di storia è anche un pittore, introduce i dati
biografici di ogni brigantessa con un ritratto pittorico a colori. Ognuna di
queste brigantesse fu in qualche modo legata ad un brigante.
Filomena Pennacchio, nata a S. Sossio
Baronia nel 1841, fu la donna del brigante Giuseppe Schiavone, scontò sette
anni di lavori forzati; Maria Giovanna Tita, nata a Ruvo del Monte nel 1841,
donna di Carmine Crocco, scontò sette anni di lavori forzati; Giuseppina
Vitale, nata a Bisaccia nel 1841, amò Agostino Sacchetiello, scontò dieci anni
di carcere; Filomena Di Poto, nata a Postiglione nel 1841, fu la donna di
Gaetano Tranchella, condannata a quindici anni di lavori forzati; Maria Rosa
Marinelli, nata a Marsicovetere nel 1843, ebbe come suo uomo Angelantonio
Masini, condannata a quattro anni di reclusione più sei anni di vigilanza
speciale; Filomena Cianciarulo, nata a Marsiconuovo il 1844, divenne la donna
di Nicola Masini, fu condannata a tre anni di reclusione più sei anni di
vigilanza speciale; Reginalda Rosa Cariello, nacque a Padula nel 1840, donna di
Pietro Trezza, prima arrestata ma subito dopo rimessa in libertà; Carolina
Casale, nacque a Cervinara nel 1844, donna di Michele Lippiello, condannata ad
un anno di carcere e a due di sorveglianza speciale; Maria Capitanio, nacque a San
Vittore del Lazio nel 1850, donna di Antonio Luongo, non fu condannata perché il
padre comprò testimoni e giudici; Giocondina Marino, nacque a Cervinara intorno
al 1846, ebbe come uomo Alessandro Pace, fu condannata a venti anni di lavori
forzati e a sette di sorveglianza speciale; Elisabetta Blasucci, nata a Ruvo
del Monte nel 1834, rimasta vedova divenne la compagna di Giovanni Rubertone,
fu condannata a dieci anni di lavori forzati; Maria Lucia Dinella, nata ad
Avigliano nel 1844, diviene la donna di Francescantonio Summa, condannata a
cinque anni di lavori forzati; Angela Maria Consiglio, nasce a Rionero in
Vulture nel 1834, si unì insieme al marito alla banda di Carmine Crocco, fu
condannata a quindici anni di lavori forzati; Michelina Di Cesare, nacque a
Caspoli nel 1841, rimasta vedova divenne la donna del capobrigante Francesco
Guerra, fu uccisa in combattimento il 30 agosto 1868; Arcangela Cotugno, nata a
Montescaglioso nel 1822, si sposò con Rocco Chirichigno che poi divenne
brigante, condannata a venti anni di lavori forzati; Maria Domenica Piturro,
nasce a Grassano nel 1841, divenne l’amante del capobanda Paolo Serravalle,
arrestata ma subito rimessa in libertà; Maria Maddalena De Lellis, nacque a S.
Gregorio Matese nel 1835, fatto uccidere il marito divenne l’amante del capobrigante Andrea Santaniello,
condannata ai lavori forzati a vita dopo alcuni anni fu rimessa in libertà per
buona condotta; Mariateresa Ciminelli, nacque a Francavilla in Sinni nel 1841,
si sposò giovanissima con Vincenzo Mainieri con il quale si diede al
brigantaggio, condannata all’ergastolo la pena gli fu successivamente ridotta a
dieci anni; Serafina Ciminelli, nata a Francavilla in Sinni nel 1844, fu la
donna di Giuseppe Antonio Franco, tradita venne condannata a quindici anni di
lavori forzati, morì in carcere di setticemia nel 1866; Maria Oliverio, nacque
a Casole nel 1841, sposò Pietro Monaco che dopo essere stato con Garibaldi si
diede alla macchia, tradita dal marito con sua sorella la uccise con una scure,
condannata a morte ebbe però ridotta la pena a quindici anni, trasferita nel
carcere di massima sicurezza di Fenestrelle non si sa se sia riuscita a
sopravvivere alle inumane condizioni di quella tetra fortezza.
Caratteristiche comuni, a quasi tutte
queste brigantesse, furono che nei processi per vedere alleviate le loro posizioni
dichiararono di essere state rapite e violentate, che indossarono abiti
maschili e furono armate, che rimasero incinte ad opera dei loro uomini.
Nel saggio presente alla fine del libro, si
riferiscono crudamente le violenze operate dai dieci famosi capobriganti, senza
però citare le violenze ancor più crudeli perpetrate dai soldati piemontesi e
dai loro accoliti contro i briganti, le loro famiglie e i loro paesi.
Rocco Biondi
Maurizio Restivo, Donne drude brigante. Mezzogiorno femminile
rivoluzionario nel decennio post-unitario, Di Girolamo Editore, Trapani
2005, pp. 632, € 100,00
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