Chi
sceglie di morire in piedi, invece di continuare a servire in ginocchio, ha
perlomeno diritto alla nostra considerazione, scrive il Varuolo
nell’introduzione al libro.
Scrive ancora il Varuolo che nel termine
“brigante” si intese accomunare tutta quella gente che non accettò l’ordine
imposto dai piemontesi all’indomani della partenza di Francesco II da Napoli.
Furono anche inclusi tutti coloro che rivendicavano i loro diritti demaniali e
cercarono di rioccupare quelle terre che i maggiorenti avevano usurpato.
Finalità dichiarata del libro è quella di
tentare un confronto con le pubblicazioni esistenti, essendo già usciti (fino
al 1985) un centinaio di volumi sull’argomento. Si vuol tratteggiare un
ritratto ordinario del volto del brigante, del manutengolo, dello sbandato, dei
capi contadini, raccontando le loro gesta avventurose, talvolta rimarchevoli e
talaltra deprimenti, senza nulla nascondere, utilizzando le loro stesse
espressioni incerte e pittoresche. A questi uomini, quasi senza volto e poco
conosciuti, viene riservata la gran parte del libro «per il semplice motivo che
degli altri protagonisti si è già parlato molto diffusamente».
Pubblicato trent’anni fa, l’autore con il
suo libro si sentiva in dovere di difendere la Basilicata dall’accusa di essere
“produttrice” di briganti, affermando che corsari, pirati, filibustieri,
bucanieri e briganti avevano infestato dal ‘200 in poi tutta l’Italia.
Ricordiamo, tra i tantissimi citati dal Varuolo, i lombardi Mayno della
Spinetta e Carlo Soriani (Fatutt); i toscani Federigo Bodini (Gnicche),
Giovanni Turchi (Baicche), Tommaso Bartolomei (Barbanera), Stefano Pelloni
(Passatore), Giuseppe Afflitti (Lazzarino), Domenico Tiburzi.
Tornando alla Basilicata, il più grande di
tutti fu Carmine Crocco (Donatelli) di Rionero, che morì in carcere nel 1905.
Si parla poi dello spagnolo José Borges, fucilato dai piemontesi nel 1861.
Vengono poi ricordati, specialmente con trascrizioni dagli archivi di stato,
tantissimi altri briganti per lo più poco conosciuti, che operarono in
Basilicata dal 1860 al 1877.
E’ logico e naturale, scrive il Varuolo,
che persone datisi alla macchia dovessero pensare al loro sostentamento,
ricorrendo anche a mezzi coercitivi, come grassazioni, estorsioni,
appropriazione violenta dei commestibili, sequestri di persona a fini di
riscatto.
Il mestiere di brigante non si prestava ad
atti di eroismo; di fronte alla prospettiva di rimetterci la propria pelle non
potevano trovare posto sentimentalismi e cedimenti di sorta. Tuttavia molti
atti possono riabilitare in gran parte il loro operato; spesso anche loro si
comportarono da “cristiani”, come ebbe a dire una volta Ninco-Nanco.
Nell’operato dei briganti postunitari vi è
un sostrato di ideale politico a favore dei Borbone, che avevano governato il
Meridione fin dal 1735. Inalberano una bandiera bianca e gridano “Viva
Francesco II”. Per loro i piemontesi sono “ladri”.
Moltissimi parenti dei briganti furono
messi in carcere solo per la parentela con essi, senza essere accusati di
delitti circostanziati. Le carceri della Basilicata furono riempite fino
all’inverosimile, in condizioni igieniche pessime.
I briganti scelsero la tattica della
guerriglia. Trovandosi di fronte al pericolo cercavano scampo nella fuga,
accettavano la battaglia solo quando erano certi di essere superiori in forze e
in posizione molto favorevole. Non avevano infatti quelle enormi possibilità
date alla truppa regolare. Il loro armamento era quasi sempre di fortuna,
consistente spesso in vecchi fucili o solo di baionette infilzate a una mazza o
addirittura erano inermi. Parecchie volte pur di non arrendersi si suicidavano.
Molte erano le brigantesse, che oltre a
combattere erano anche infermiere sarte cuoche, ma anche “dispensatrici di
amore”. Anche se dalle loro deposizioni emerge la versione che fossero state
costrette a viva forza a seguire i briganti; ma spesso si trovano a loro agio e
finiscono con lo sposare i loro “violentatori”. Fra di esse troviamo Maria Rosa
Marinelli, Elisabetta Blasucci, Agnese Alanza, Rosa Todisco, Maria Parente,
Domenica Piturro, Teresa Succurto, Maria Giovanna Bonnét, Lucia Di Nella,
Angela Cotugno.
“E’ evidente (scrive Varuolo) la mia
propensione a riabilitare la figura di questi poveri disgraziati; essi sono
stati dipinti a tinte troppe fosche da persone troppo legate al carro
governativo e alla concezione che il Sud andava rieducato con mezzi repressivi
molto duri”. I tanti episodi, che anche nel libro vengono messi in evidenza, dimostrano
che i moralizzatori del nord non erano certamente migliori di coloro che si
accingevano a redimere. E bisogna dire anche un’altra verità: senza la fattiva
collaborazione di Giuseppe Caruso e di tanti altri ex briganti, e senza il
fiume di denaro profuso a piene mani in premi e corruzione, i vari generali
Pallavicini, Cialdini, Della Chiesa, Franzini ecc. non avrebbero potuto aver
ragione di un popolo tenace e abituato ai sacrifici più neri.
Il libro contiene poi diversi elenchi con i
nomi (metto fra parentesi il numero di essi): manutengoli fucilati (19),
manutengoli condannati ai lavori forzati a vita (23), a 20 anni di lavori
forzati (132), a 15 anni di lavori forzati (44), a 10 anni di lavori forzati
(14), non sono elencati coloro che scontarono fino a 9 anni di carcere; capi di
bande e loro soprannome (69); persone uccise dai briganti (183).
Vi è infine una ricchissima anagrafe dei
briganti lucani suddivisi per paese di nascita, con molti dati che si conoscono
di ognuno: anno di nascita e morte, famiglia, eventuale servizio militare, banda
di appartenenza, modalità di morte (moltissimi vennero uccisi dai piemontesi);
i briganti elencati sono ben 1.271 (milleduecentosettantuno), appartenenti a
102 (centodue) paesi. Sono anche elencati, con relativi dati anagrafici, 117
(centodiciassette) briganti non appartenenti alla Basilicata.
Pietro Varuolo, Il volto del brigante. Avvenimenti
briganteschi in Basilicata 1860/1877, Congedo Editore, Galatina (LE) 1985,
pp. 254
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