15 marzo 2015

Il volto del brigante, di Pietro Varuolo




Chi sceglie di morire in piedi, invece di continuare a servire in ginocchio, ha perlomeno diritto alla nostra considerazione, scrive il Varuolo nell’introduzione al libro.
     Scrive ancora il Varuolo che nel termine “brigante” si intese accomunare tutta quella gente che non accettò l’ordine imposto dai piemontesi all’indomani della partenza di Francesco II da Napoli. Furono anche inclusi tutti coloro che rivendicavano i loro diritti demaniali e cercarono di rioccupare quelle terre che i maggiorenti avevano usurpato.
     Finalità dichiarata del libro è quella di tentare un confronto con le pubblicazioni esistenti, essendo già usciti (fino al 1985) un centinaio di volumi sull’argomento. Si vuol tratteggiare un ritratto ordinario del volto del brigante, del manutengolo, dello sbandato, dei capi contadini, raccontando le loro gesta avventurose, talvolta rimarchevoli e talaltra deprimenti, senza nulla nascondere, utilizzando le loro stesse espressioni incerte e pittoresche. A questi uomini, quasi senza volto e poco conosciuti, viene riservata la gran parte del libro «per il semplice motivo che degli altri protagonisti si è già parlato molto diffusamente».
     Pubblicato trent’anni fa, l’autore con il suo libro si sentiva in dovere di difendere la Basilicata dall’accusa di essere “produttrice” di briganti, affermando che corsari, pirati, filibustieri, bucanieri e briganti avevano infestato dal ‘200 in poi tutta l’Italia. Ricordiamo, tra i tantissimi citati dal Varuolo, i lombardi Mayno della Spinetta e Carlo Soriani (Fatutt); i toscani Federigo Bodini (Gnicche), Giovanni Turchi (Baicche), Tommaso Bartolomei (Barbanera), Stefano Pelloni (Passatore), Giuseppe Afflitti (Lazzarino), Domenico Tiburzi.
     Tornando alla Basilicata, il più grande di tutti fu Carmine Crocco (Donatelli) di Rionero, che morì in carcere nel 1905. Si parla poi dello spagnolo José Borges, fucilato dai piemontesi nel 1861. Vengono poi ricordati, specialmente con trascrizioni dagli archivi di stato, tantissimi altri briganti per lo più poco conosciuti, che operarono in Basilicata dal 1860 al 1877.
     E’ logico e naturale, scrive il Varuolo, che persone datisi alla macchia dovessero pensare al loro sostentamento, ricorrendo anche a mezzi coercitivi, come grassazioni, estorsioni, appropriazione violenta dei commestibili, sequestri di persona a fini di riscatto.
     Il mestiere di brigante non si prestava ad atti di eroismo; di fronte alla prospettiva di rimetterci la propria pelle non potevano trovare posto sentimentalismi e cedimenti di sorta. Tuttavia molti atti possono riabilitare in gran parte il loro operato; spesso anche loro si comportarono da “cristiani”, come ebbe a dire una volta Ninco-Nanco.
     Nell’operato dei briganti postunitari vi è un sostrato di ideale politico a favore dei Borbone, che avevano governato il Meridione fin dal 1735. Inalberano una bandiera bianca e gridano “Viva Francesco II”. Per loro i piemontesi sono “ladri”.
     Moltissimi parenti dei briganti furono messi in carcere solo per la parentela con essi, senza essere accusati di delitti circostanziati. Le carceri della Basilicata furono riempite fino all’inverosimile, in condizioni igieniche pessime.
     I briganti scelsero la tattica della guerriglia. Trovandosi di fronte al pericolo cercavano scampo nella fuga, accettavano la battaglia solo quando erano certi di essere superiori in forze e in posizione molto favorevole. Non avevano infatti quelle enormi possibilità date alla truppa regolare. Il loro armamento era quasi sempre di fortuna, consistente spesso in vecchi fucili o solo di baionette infilzate a una mazza o addirittura erano inermi. Parecchie volte pur di non arrendersi si suicidavano.
     Molte erano le brigantesse, che oltre a combattere erano anche infermiere sarte cuoche, ma anche “dispensatrici di amore”. Anche se dalle loro deposizioni emerge la versione che fossero state costrette a viva forza a seguire i briganti; ma spesso si trovano a loro agio e finiscono con lo sposare i loro “violentatori”. Fra di esse troviamo Maria Rosa Marinelli, Elisabetta Blasucci, Agnese Alanza, Rosa Todisco, Maria Parente, Domenica Piturro, Teresa Succurto, Maria Giovanna Bonnét, Lucia Di Nella, Angela Cotugno.
     “E’ evidente (scrive Varuolo) la mia propensione a riabilitare la figura di questi poveri disgraziati; essi sono stati dipinti a tinte troppe fosche da persone troppo legate al carro governativo e alla concezione che il Sud andava rieducato con mezzi repressivi molto duri”. I tanti episodi, che anche nel libro vengono messi in evidenza, dimostrano che i moralizzatori del nord non erano certamente migliori di coloro che si accingevano a redimere. E bisogna dire anche un’altra verità: senza la fattiva collaborazione di Giuseppe Caruso e di tanti altri ex briganti, e senza il fiume di denaro profuso a piene mani in premi e corruzione, i vari generali Pallavicini, Cialdini, Della Chiesa, Franzini ecc. non avrebbero potuto aver ragione di un popolo tenace e abituato ai sacrifici più neri.
     Il libro contiene poi diversi elenchi con i nomi (metto fra parentesi il numero di essi): manutengoli fucilati (19), manutengoli condannati ai lavori forzati a vita (23), a 20 anni di lavori forzati (132), a 15 anni di lavori forzati (44), a 10 anni di lavori forzati (14), non sono elencati coloro che scontarono fino a 9 anni di carcere; capi di bande e loro soprannome (69); persone uccise dai briganti (183).
     Vi è infine una ricchissima anagrafe dei briganti lucani suddivisi per paese di nascita, con molti dati che si conoscono di ognuno: anno di nascita e morte, famiglia, eventuale servizio militare, banda di appartenenza, modalità di morte (moltissimi vennero uccisi dai piemontesi); i briganti elencati sono ben 1.271 (milleduecentosettantuno), appartenenti a 102 (centodue) paesi. Sono anche elencati, con relativi dati anagrafici, 117 (centodiciassette) briganti non appartenenti alla Basilicata.

Pietro Varuolo, Il volto del brigante. Avvenimenti briganteschi in Basilicata 1860/1877, Congedo Editore, Galatina (LE) 1985, pp. 254

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