30 marzo 2015

Terroni ‘ndernescional, di Pino Aprile



Prima o poi chiederò a Pino Aprile il significato del papavero rosso da cui sgorga una goccia di sangue, presente sulla sovraccoperta del suo libro. Ma intanto dò una mia interpretazione. Rappresenta l’orgoglio sopito del Sud. Solo apparentemente è sedativo, se sprizzato ne uscirà dolore che porta alla ribellione.
     ‘Ndernescional è la terronizzazione di international. Non si diventa terroni per latitudine, scrive Pino Aprile, ma ogni volta che si nega la parità fra i cittadini di uno stesso Stato. È la volontà che fa le differenze. E allora avremo terroni della Sardegna, terroni del territorio dell’ex Regno delle Due Sicilie, terroni della Germania Est, terroni di paesi dell’Unione Europea. Ed ecco perché la Sardegna è quasi assente dalla nostra storiografia, come quasi assente è il Mezzogiorno d’Italia.
     La Sardegna fu ridotta a “fattoria del Piemonte” nel 1720, anche se diede a quest’ultimo il titolo regale; il Regno delle Due Sicilie fu invaso e annesso al Piemonte nel 1860-61; la Germania Est fu unificata alla Germania Ovest nel 1989. In tutti questi casi il vincitore del nord si prese i beni, le donne, la gioventù e il futuro del vinto del Sud. Né la Sardegna né il Regno delle Due Sicilie chiedevano di essere annessi al Piemonte. Lasciate perdere, scrive Pino Aprile, le panzane che ci propinano da un secolo e mezzo sulla patriottica attesa dell’arrivo dei garibaldini e di Vittorio Emanuele.
     I ricchi diventano sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri. E la responsabilità di questa crescente povertà viene addossata agli stessi più poveri, che nei fatti non hanno potere per incidere e non governano i mezzi di comunicazione per poter raccontare la verità. La storia viene scritta dai vincitori, per annullare e giustificare le loro malefatte.
     Gli storici accademici dicono che il ritardo del Sud è dovuto per esempio alla pochezza della sua prima linea ferroviaria, la Napoli-Portici di una quindicina di chilometri, che comunque fu la prima ad essere realizzata in Italia nel 1839; quella linea ferroviaria viene ancora oggi definita “un giocattolo dei Borboni”, ma in realtà trasportava 700-800.000 passeggeri all’anno; nella Sardegna del Regno sabaudo la prima linea ferroviaria fu realizzata solo nel 1871. Altro argomento per screditare il Sud è quello che riguarda la mancanza di precise mappe stradale nel 1860 ai tempi dell’invasione, ma la stessa cosa avveniva negli stessi anni per il nord. Altra falsità è quella che riguarda gli analfabeti del censimento del 1861; i documenti originali di quel censimento sono spariti. E come facevano a spuntare 10.000 studenti universitari nel Regno delle Due Sicilie contro i poco più di 5.000 del resto d’Italia? Nelle Due Sicilie c’erano almeno una scuola pubblica maschile e una scuola pubblica femminile per ogni Comune oltre a una quantità enorme di scuole private. Appena giunti a Napoli, i Savoia chiusero decine di istituti superiori.
     Per quanto riguarda l’economia, recenti studi dell’Università di Bruxelles (in linea con quelli della Banca d’Italia), affermano che il Regno delle Due Sicilie era “la Germania” del tempo. Infatti la conquista del Sud salvò il Piemonte dalla bancarotta.
     L’insistenza sul presunto ritardo del Sud, scrive Pino Aprile, è sospetta per almeno tre ragioni: far passare in secondo piano il modo con cui fu unito il paese, con stragi e saccheggi; far credere che il ritardo c’era già e non fu creato con la spoliazione da parte sabauda del Regno delle Due Sicilie; indurre l’idea che la questione meridionale è frutto della presenza degli stessi terroni.
     Al Sud invece viene tolto quello che aveva e gli è negato il dovuto. La condizione di minorità viene addossata come colpa a chi la subisce, mentre il privilegio sarebbe un diritto che discende dal merito.
     Al Sud l’autonomia o l’indipendenza vengono viste sempre più spesso come una soluzione ai maltrattamenti. Meglio soli che male accompagnati. Fu l’invasione piemontese a interrompere il percorso virtuoso del Sud. E allora torniamo a quello che era prima; quando tra l’altro l’emigrazione non esisteva.
     I senzaterra, persa la possibilità di coltivare la terra comune consentita dagli usi civici, si dettero al brigantaggio, che assunse anche connotazioni di rivolta sociale, guerra civile e di classe. A favorire l’annessione delle Due Sicilie al Piemonte furono i latifondisti che in cambio ebbero la possibilità di appropriarsi degli usi civici. Tante furono le bande dei briganti che nacquero ed operarono nel Sud; la più famosa e più grande fu quella guidata da Carmine Crocco, ex soldato napoletano ed ex garibaldino.
     Dopo l’annessione la moneta in oro venne sostituita da quella di carta, le tasse da 5 divennero 23 (inclusa quella di far pagare ai meridionali le spese della guerra che gli avevano fatta), il servizio militare divenne obbligatorio e i renitenti se presi venivano fucilati.
     Il Piemonte attinse risorse dai nuovi territori, ne bloccò la crescita, li impoverì; e affrontò le proteste, che erano politiche e sociali, come questione criminale. Nacquero allora le ipotesi, che oggi vanno diffondendosi sempre più: l’autonomia, la Macroregione meridionale, l’indipendenza.
     Altra triste conseguenza di quell’annessione fu che al vinto si impose di parlare la lingua del vincitore. Furono eliminati i dialetti e fu imposto l’italiano.
     I vinti, recuperando il passato, riprendono dignità e orgoglio. Il proprio paese di allora non era peggiore di quello di adesso.
     Unirsi non basta, se non è il frutto di un processo fra pari e consenzienti. La vera politica è la volontà comune di unirsi e di andare avanti insieme. Altrimenti la distanza imposta aumenterà sempre più. E rispetto e opportunità devono essere comuni.
     Oggi la rivoluzione informatica aiuta a battere le frontiere e a salvare identità e personalità. I molti si incontrano senza la mediazione dei pochi, che gestiscono informazioni e sentimenti. È necessario camminare insieme, senza insulti e con le stesse risorse. Altrimenti è meglio separarsi.
Rocco Biondi

Pino Aprile, Terroni ‘ndernescional. E fecero terra bruciata, Piemme edizioni, Milano 2014, pp. 252. € 16,50

21 marzo 2015

La Legge Pica 1863-1865 (La testimonianza di Inorch Scorangef), di Gaetano Marabello



Inorch Scorangef, da ricerche effettuate da Marabello, è un anagramma di Ronchi Francesco (sia pure con una “c” al posto della “g”); uno pseudonimo quindi. Le ragioni per usare questa prudenza non mancavano. Il Ronchi era stato un giudice borbonico, nato nel 1801, caduto in disgrazia. Voleva evitare una pubblicità indesiderata ed una eventuale schedatura come oppositore politico. Il pamphlet contro la legge Pica, pubblicato nel 1865, poteva esporre l’autore all’accusa di aver somministrato “notizie e aiuti di ogni maniera” a favore del brigantaggio; e comunque poteva cadere sotto il maglio della censura, che colpiva ogni pubblicazione “che dispiacesse al governo del momento”.
     Il libro, dopo una introduzione di Edoardo Vitale e una prefazione di Nicola D’Argento, contiene un saggio di Marabello, nel quale si espongono le motivazioni che lo hanno portato a scrivere sulla legge Pica e a sottrarre dall’oblio del tempo, pubblicandolo, il coraggioso pamphlet del Ronchi. Ma la parte forse più significativa sono le ricche e corpose note, che contengono notizie su personaggi e fatti che in qualche modo hanno avuto a che fare con il brigantaggio postunitario. Infine sono raccolti in appendice tredici significativi documenti attinenti all’argomento del libro.
     Palesemente illegittima fu l’imposizione, tramite invasione, dell’autorità sabauda sui territori del Regno delle Due Sicilie, che manifestò la propria opposizione riuscendo a mettere a dura prova per molti anni un esercito di almeno 120.000 uomini e 80.000 guardie nazionali. La famigerata legge Pica va considerata come lo strumento con cui l’invasore venuto dal nord cercava di soffocare la ribellione delle popolazioni del Sud e non certo come un mezzo per ripristinare la legalità. Il Brigantaggio non fu fenomeno esclusivamente criminale, come volle far credere la propaganda imposta dal governo sabaudo, ma fu un anelito alla libertà.
     La legge Pica fu un vergognoso atto di forza che istituiva la pena di morte e la politica del sospetto. Veniva ucciso chiunque venisse trovato con un’arma in mano e veniva inviato al domicilio coatto chiunque venisse sospettato (anche con accuse anonime) di favorire in qualsiasi modo il brigantaggio. Era funzionale a questo modo di agire l’equiparazione dei briganti ai camorristi, con cui i piemontesi, dopo l’esito dei plebisciti-farsa, cercavano di allontanare sul piano internazionale l’immagine di non essere ben accetti alla popolazione del Sud.
     Questa legge poi conteneva una vera e propria aberrazione giuridica, laddove limitava la sua validità alle sole province proclamate “infestate dal brigantaggio” e non alle altre, violando quindi il principio d’uguaglianza della legge albertina, cui diceva ispirarsi il Regno sabaudo. Due pesi e due misure quindi, che facevano tornare molto utile la volontà di disconoscere ogni valenza politica alla lotta di resistenza in atto nell’ex Regno delle Due Sicilie.
     Il quadro d’assieme della struttura dell’appello agli elettori, dettato dallo Scorangef in occasione delle elezioni per la seconda legislatura del Regno d’Italia, si compone di tre capitoli, ripartiti in 87 capoversi complessivi, e reca un corredo finale di 50 note. Lo stile dello scritto è fortemente aulico, pieno di citazioni erudite, che solo una persona che per motivi professionali ha dimestichezza di aule giudiziarie può avere. Nel primo capitolo si attribuisce lo “sgoverno delle floride provincie Meridionali” alla “ignoranza delle Storie patrie e della legislazione delle accuse segrete”. Nel successivo capitolo, esaminando la “universalmente esecrata Legge Pica” che ha data la stura ad una serie d’ingiustizie legalizzate, viene attaccato l’artefice (Pica) di quella che si ritiene essere una vera mostruosità giuridica. Nell’ultimo capitolo si svolge un raffronto con alcuni fatti analoghi verificatisi in Firenze a partire dal XIV secolo.
     La prima nota del testo dello Scorangef riporta un lungo articolo di una rivista inglese, tradotto in italiano, riservato alle vicende italiche. In esso si legge, tra l’altro, che “il Conte di Cavour ha fondato la egemonia piemontese e sono da essa derivati tutti i mali, che pesano ora sulle provincie meridionali. Lo scontento generale e profondo delle provincie meridionali, come la miseria che le affligge, deriva dall’essere esse state ingannate nelle loro speranze, ferite nel loro amor proprio e nei loro interessi, compiutamente mal governate. L’indirizzo, che il governo ha seguito sin ora riguardo alle provincie meridionali, non è italiano, non nazionale, non giusto, non fraterno; ma per lo contrario interamente piemontese, di consorteria, di partito e dannoso alla intera Penisola”.
     La quarta nota riporta il testo delle tre leggi sul brigantaggio votate dal parlamento: la prima del 15 agosto 1863, la seconda del 7 febbraio 1864, la terza del 24 dicembre 1864, che prorogava le leggi Pica e Peruzzi fino al 31 dicembre 1865.
     Le note di Marabello alle 50 note dello Scorangef sono ben 128.
     E a proposito delle note consiglierei, per una prossima auspicata ristampa, che esse fossero poste a piè delle relative pagine, per poter consentire una lettura quanto più facile del libro. Come pure consiglierei la traduzione dal francese in italiano del testo dell’appendice IX (Decreto 17 settembre 1793).

Gaetano Marabello, La Legge Pica (1863-1865). I crimini di guerra dell’Italia Unita nel Sud. La testimonianza di Inorch Scorangef, Controcorrente edizioni, Napoli 2014, pp. 200. € 10,00

15 marzo 2015

Il volto del brigante, di Pietro Varuolo




Chi sceglie di morire in piedi, invece di continuare a servire in ginocchio, ha perlomeno diritto alla nostra considerazione, scrive il Varuolo nell’introduzione al libro.
     Scrive ancora il Varuolo che nel termine “brigante” si intese accomunare tutta quella gente che non accettò l’ordine imposto dai piemontesi all’indomani della partenza di Francesco II da Napoli. Furono anche inclusi tutti coloro che rivendicavano i loro diritti demaniali e cercarono di rioccupare quelle terre che i maggiorenti avevano usurpato.
     Finalità dichiarata del libro è quella di tentare un confronto con le pubblicazioni esistenti, essendo già usciti (fino al 1985) un centinaio di volumi sull’argomento. Si vuol tratteggiare un ritratto ordinario del volto del brigante, del manutengolo, dello sbandato, dei capi contadini, raccontando le loro gesta avventurose, talvolta rimarchevoli e talaltra deprimenti, senza nulla nascondere, utilizzando le loro stesse espressioni incerte e pittoresche. A questi uomini, quasi senza volto e poco conosciuti, viene riservata la gran parte del libro «per il semplice motivo che degli altri protagonisti si è già parlato molto diffusamente».
     Pubblicato trent’anni fa, l’autore con il suo libro si sentiva in dovere di difendere la Basilicata dall’accusa di essere “produttrice” di briganti, affermando che corsari, pirati, filibustieri, bucanieri e briganti avevano infestato dal ‘200 in poi tutta l’Italia. Ricordiamo, tra i tantissimi citati dal Varuolo, i lombardi Mayno della Spinetta e Carlo Soriani (Fatutt); i toscani Federigo Bodini (Gnicche), Giovanni Turchi (Baicche), Tommaso Bartolomei (Barbanera), Stefano Pelloni (Passatore), Giuseppe Afflitti (Lazzarino), Domenico Tiburzi.
     Tornando alla Basilicata, il più grande di tutti fu Carmine Crocco (Donatelli) di Rionero, che morì in carcere nel 1905. Si parla poi dello spagnolo José Borges, fucilato dai piemontesi nel 1861. Vengono poi ricordati, specialmente con trascrizioni dagli archivi di stato, tantissimi altri briganti per lo più poco conosciuti, che operarono in Basilicata dal 1860 al 1877.
     E’ logico e naturale, scrive il Varuolo, che persone datisi alla macchia dovessero pensare al loro sostentamento, ricorrendo anche a mezzi coercitivi, come grassazioni, estorsioni, appropriazione violenta dei commestibili, sequestri di persona a fini di riscatto.
     Il mestiere di brigante non si prestava ad atti di eroismo; di fronte alla prospettiva di rimetterci la propria pelle non potevano trovare posto sentimentalismi e cedimenti di sorta. Tuttavia molti atti possono riabilitare in gran parte il loro operato; spesso anche loro si comportarono da “cristiani”, come ebbe a dire una volta Ninco-Nanco.
     Nell’operato dei briganti postunitari vi è un sostrato di ideale politico a favore dei Borbone, che avevano governato il Meridione fin dal 1735. Inalberano una bandiera bianca e gridano “Viva Francesco II”. Per loro i piemontesi sono “ladri”.
     Moltissimi parenti dei briganti furono messi in carcere solo per la parentela con essi, senza essere accusati di delitti circostanziati. Le carceri della Basilicata furono riempite fino all’inverosimile, in condizioni igieniche pessime.
     I briganti scelsero la tattica della guerriglia. Trovandosi di fronte al pericolo cercavano scampo nella fuga, accettavano la battaglia solo quando erano certi di essere superiori in forze e in posizione molto favorevole. Non avevano infatti quelle enormi possibilità date alla truppa regolare. Il loro armamento era quasi sempre di fortuna, consistente spesso in vecchi fucili o solo di baionette infilzate a una mazza o addirittura erano inermi. Parecchie volte pur di non arrendersi si suicidavano.
     Molte erano le brigantesse, che oltre a combattere erano anche infermiere sarte cuoche, ma anche “dispensatrici di amore”. Anche se dalle loro deposizioni emerge la versione che fossero state costrette a viva forza a seguire i briganti; ma spesso si trovano a loro agio e finiscono con lo sposare i loro “violentatori”. Fra di esse troviamo Maria Rosa Marinelli, Elisabetta Blasucci, Agnese Alanza, Rosa Todisco, Maria Parente, Domenica Piturro, Teresa Succurto, Maria Giovanna Bonnét, Lucia Di Nella, Angela Cotugno.
     “E’ evidente (scrive Varuolo) la mia propensione a riabilitare la figura di questi poveri disgraziati; essi sono stati dipinti a tinte troppe fosche da persone troppo legate al carro governativo e alla concezione che il Sud andava rieducato con mezzi repressivi molto duri”. I tanti episodi, che anche nel libro vengono messi in evidenza, dimostrano che i moralizzatori del nord non erano certamente migliori di coloro che si accingevano a redimere. E bisogna dire anche un’altra verità: senza la fattiva collaborazione di Giuseppe Caruso e di tanti altri ex briganti, e senza il fiume di denaro profuso a piene mani in premi e corruzione, i vari generali Pallavicini, Cialdini, Della Chiesa, Franzini ecc. non avrebbero potuto aver ragione di un popolo tenace e abituato ai sacrifici più neri.
     Il libro contiene poi diversi elenchi con i nomi (metto fra parentesi il numero di essi): manutengoli fucilati (19), manutengoli condannati ai lavori forzati a vita (23), a 20 anni di lavori forzati (132), a 15 anni di lavori forzati (44), a 10 anni di lavori forzati (14), non sono elencati coloro che scontarono fino a 9 anni di carcere; capi di bande e loro soprannome (69); persone uccise dai briganti (183).
     Vi è infine una ricchissima anagrafe dei briganti lucani suddivisi per paese di nascita, con molti dati che si conoscono di ognuno: anno di nascita e morte, famiglia, eventuale servizio militare, banda di appartenenza, modalità di morte (moltissimi vennero uccisi dai piemontesi); i briganti elencati sono ben 1.271 (milleduecentosettantuno), appartenenti a 102 (centodue) paesi. Sono anche elencati, con relativi dati anagrafici, 117 (centodiciassette) briganti non appartenenti alla Basilicata.

Pietro Varuolo, Il volto del brigante. Avvenimenti briganteschi in Basilicata 1860/1877, Congedo Editore, Galatina (LE) 1985, pp. 254